Il 3 maggio è la Giornata Mondiale della Libertà di Stampa. Nata nel 1991 per ricordare ai governi i loro doveri e far loro rispettare l’articolo 19 della dichiarazione universale dei diritti umani, celebra l’anniversario della dichiarazione di Windhoek sui principi della stampa libera, emessi da giornalisti africani appunto nel 1991. Anche l’UNESCO celebra la giornata della libertà di stampa conferendo il premio UNESCO/Guillermo Cano World Press Freedom in onore di Guillermo Cano Isaza, giornalista colombiano ucciso davanti agli uffici del proprio giornale il 17 dicembre 1986.
Il 3 maggio è una giornata importante. Sempre. Ancora di più in questi giorni, con i media e i giornali stracolmi di informazioni non sempre veritiere o verificate e dove tutti dicono e scrivono di tutto, a volte anche offendendo i lettori e gli ascoltatori al limite della legge (si pensi alle parole di un noto – e ben pagato – direttore di un giornale riguardanti i meridionali durante una intervista alla televisione nei giorni scorsi).
A distanza di (quasi) tre decenni dalla prima Giornata Mondiale della Libertà di Stampa, sono tantissimi i reporter che rischiano la vita ogni giorno per raccontare cosa avviene nel mondo. E ogni anno ad alcuni di loro viene chiesto di pagare il prezzo più alto: vengono uccisi. Per cosa? Per aver scritto o parlato di qualcosa che qualcuno non voleva che si sapesse? Per avere scoperto quello che governi corrotti non volevano far conoscere al proprio popolo? Nella memoria degli italiani è ancora vivo il ricordo di Ilaria Alpi, giovane reporter uccisa a Mogadiscio, insieme all’operatore Miran Hrovatin, il 20 marzo 1994, in circostanze mai del tutto chiarite.
Proprio l’Africa, secondo lo studio di Reporter Senza Frontiere, sarebbe il continente più pericoloso per i giornalisti: circa un sesto dei reporter uccisi avrebbe perso la vita mentre era in una nazione africana. Ma ci sono casi di professionisti morti solo per aver cercato di scrivere o di dire quello che avevano scoperto in tutto il mondo. Dal Messico (dove, lo scorso anno, almeno dieci giornalisti hanno perso al vita) al Medio Oriente (nove in Siria, cinque in Pakistan e quattro in Afganistan) fino all’Europa. La tensione e l’astio verso i giornalisti a volte è così elevata che a rischiare la vita non sono solo i reporter in paesi in guerra o a rischio, ma anche gli anchorman delle emittenti televisive solo pochi anni fa, la cronista Alison Parker e il cameraman Adam Ward furono uccisi da un collega che non aveva gradito dei commenti della giornalista che lui riteneva razzisti).
Secondo il World Press Freedom Index 2020 di Reporter Senza Frontiere, il prossimo decennio sarà decisivo per il futuro del giornalismo. La pandemia di COVID-19 ha messo in risalto crisi diffuse su tutto il pianeta e delle quali si parla poco. Situazioni che vorrebbero diventare denunce, informazioni indipendenti che vorrebbero andare oltre gli interessi economici dei grandi gruppi.
Mai come oggi, il futuro del giornalismo è a rischio. Ad una crisi geopolitica (dovuta al aggressività dei regimi autoritari) si uniscono problemi dovuti alla mancanza di garanzie democratiche, a politiche repressive e perfino al sospetto nei confronti dei media (in un mondo in cui tutti scrivono e parlano, è sempre più difficile capire chi dice la verità). E poi una crisi economica con impoverisce il giornalismo di qualità: sono molti i giornalisti in gamba che scrivono più per passione che per il misero compenso che ricevono (a volte non è possibile neanche chiamarlo “stipendio”). Per contro ad alcuni giornalisti, pochi, famosi e superpagati, viene concesso di fornire informazioni di parte o di fare affermazioni indegne (oltre che facilmente smentibili con i dati storici ed economici). Intanto centinaia, migliaia di Giornalisti e Reporter (con la G e la R maiuscole) si dedicano con passione al proprio lavoro e alcuni di loro rischiano di essere o chiusi in carcere o rapiti (i giornalisti reclusi, nel 2019, sono stati 389, in crescita del 12 per cento rispetto al 2018; a loro si aggiungono 57 giornalisti tenuti in ostaggio).
“Stiamo entrando in un decennio decisivo per il giornalismo legato a crisi che incidono sul suo futuro”, ha detto il segretario generale della RSF, Christophe Deloire. “La pandemia di corona virus illustra i fattori negativi che minacciano il diritto a informazioni affidabili ed è essa stessa un fattore esacerbante”. Solo pochi giorni fa, il presidente degli Stati Uniti d’America, Donald Trump, davanti ai rappresentanti della stampa, ha consigliato agli americani di iniettarsi o ingerire un pericoloso disinfettante per combattere il corona virus. Purtroppo, nonostante le immediate smentite di alcuni
media, molti hanno preferito ascoltare il suo consiglio e sono finiti in ospedale: secondo il New York Daily News, solo a New York, tra le 21:00 del 23 aprile e le 15:00 del 24 aprile, il Centro antiveleni ha dovuto gestire un totale di oltre 30 casi di possibile esposizione al disinfettante! Il punto non è solo l’affermazione di Trump (ormai la gente dovrebbe aver capito la fondatezza di alcune sue affermazioni), ma il fatto che l’immediata smentita pubblicata dai tecnici per evitare i rischi non aveva avuto sui media lo stesso peso della stupidaggine pronunciata dal capo di stato della prima potenza mondiale.
Mai come in questo periodo la libertà di stampa è a rischio (basti pensare che l’Italia occupa “solo” la 41esima posizione nella classifica di RSF). A dimostrarlo, se mai ce ne fosse bisogno, la chiara correlazione tra la soppressione della libertà dei media e la pandemia di corona virus: Cina (al 177esimo posto dei paesi per libertà di stampa) e Iran (al 173esimo) “hanno censurato ampiamente i loro maggiori focolai di corona virus”. Si legge nel report. “In Iraq (al 162esimo posto), le autorità hanno revocato la licenza a Reuters per tre mesi dopo che ha pubblicato una storia in cui si interrogavano i dati ufficiali del corona virus”. Una voglia di mettere il bavaglio ai giornalisti che ha seguito l’epidemia ed è arrivata in Europa (ma in realtà c’era già): “il primo ministro ungherese Viktor Orbán (l’Ungheria è all’89esimo posto della classifica di RSF) ha approvato una legge sul “corona virus” con pene detentive fino a cinque anni per false informazioni”, si legge sulle pagine di RSF, “una misura completamente sproporzionata e coercitiva”.
“La crisi della salute pubblica offre ai governi autoritari l’opportunità di attuare la famigerata” dottrina dello shock” – per trarre vantaggio dal fatto che la politica è in sospeso, il pubblico è sbalordito e le proteste sono fuori questione, al fine di imporre misure che sarebbe impossibile in tempi normali” ha dichiarato il segretario generale della RSF Christophe Deloire. Per questo motivo, oggi più che mai, è necessario che i giornalisti possano svolgere il loro ruolo di “terze parti” affidabili all’interno della società. E che le autorità permettano loro di svolgere questa funzione essenziale.