Nanni Loy (Cagliari, 1925 – Fregene, 1995) consegue una laurea in giurisprudenza ma frequenta anche il Centro Sperimentale Cinematografico e si diploma in regia. I suoi primi lavori sono cortometraggi (Pittori davanti allo specchio, Dipinti biografici), quindi diventa apprendista di alcuni registi (soprattutto Luigi Zampa) e dal 1949 al 1953 lo troviamo come aiuto sul set di alcune pellicole: La figlia del mendicante, Africa sotto i mari, Il capitano di Venezia, Amo un assassino, Camicie rosse, Processo alla città, Anni facili, Canzoni di mezzo secolo, Canzoni canzoni canzoni, Casa Ricordi, Maddalena e Ragazza d’oggi. Il primo lavoro che lo vede regista come responsabile della seconda unità è Tam Tam Mayumbe (1955), un film realizzato in Congo dal documentarista Gian Gaspare Napolitano – grande conoscitore del continente nero – per il quale gira diverse sequenze. Il regista adatta un suo racconto africano per raccontare una storia di razzismo e spacciatori con pretese di verosimiglianza, oltre ad azzardare alcuni timidi nudi di indigeni che sono vere e proprie barriere cadute sul versante sexy. Collabora con Gianni Puccini per Parola di ladro (1957) e i due registi sono entrambi all’esordio dietro la macchina da presa. Parola di ladro è un buon giallo che gode di una buona ricostruzione storica, racconta la storia di un ladro gentiluomo e della sua complice che operano nella Roma del primo dopoguerra. Gabriele Ferzetti e l’affascinante Abbe Lane sono i protagonisti. La coppia di registi tenta di bissare il buon successo di pubblico con Il marito (1958) e questa volta va oltre le più rosee aspettative, perché Alberto Sordi fa compiere il salto di qualità a una storia intelligente e sarcastica. Il film è scritto da Rodolfo Sonego e dallo stesso Sordi, con la collaborazione di Scola, Maccari, Loy e Puccini. Si tratta di uno dei primi film che sfrutta al meglio le qualità di Sordi per comporre un veritiero ritratto dell’italiano medio.
Nanni Loy gira Audace colpo dei soliti ignoti (1959), il primo film da solista, intelligente sequel de I soliti ignoti (1958) di Mario Monicelli, ma che risente di tutti i problemi delle opere che devono confrontarsi con un grande originale. L’intenzione è quella di sfruttare il successo de I soliti ignoti. Il cast è stellare: Vittorio Gassman, Renato Salvatori, Nino Manfredi, Riccardo Garrone, Tiberio Murgia, Carlo Pisacane, Claudia Cardinale, Gastone Moschin, Lella Fabrizi e Toni Ucci. Nanni Loy sceneggia la storia insieme ad Agenore Incrocci (Age) e Furio Scarpelli. Colonna sonora di Piero Umiliani che si avvale di musiche originali del trombettista Chet Baker. Il colpo che sta alla base del film consiste nello svaligiare il portavalori con i proventi del Totocalcio, preparato scientificamente ma realizzato maldestramente. Il film avrà un ultimo triste sequel nel 1985: I soliti ignoti vent’anni dopo girato da Amanzio Todini. Un giorno da leoni (1961) e Le quattro giornate di Napoli (1962) sono le prime opere che secondo la critica rivelano la spiccata personalità di Nanni Loy (si veda Roberto Poppi e Gianni Canova). Si tratta di due film incentrati su episodi importanti della Resistenza italiana al nazifascismo che mettono in evidenza come Loy sia portato a raccontare la dimensione quotidiana di eventi significativi.
Nel 1964 Nanni Loy approda in televisione per dirigere Specchio segreto, un programma che ha modificato il modo di fare intrattenimento televisivo. Il varietà va in onda dal 19 novembre del 1964, ogni giovedì, alle 20 e 30, sul Programma Nazionale. Sono venticinque episodi proposti in otto puntate che si propongono lo scopo di introdurre l’elemento paradossale nella realtà. Sono gag create a tavolino mentre una telecamera nascosta dietro uno specchio segreto filma le reazioni delle persone alle provocazioni. Alcune gag da ricordare: il marito tradito, il fidanzato scemo, la zuppetta nel bar, il disoccupato che reclama diecimila lire davanti alla fabbrica e il balbuziente. Un successo enorme di pubblico, anche se la critica non è d’accordo perché rimprovera al regista di lavorare secondo sceneggiature studiate in precedenza. Il programma è un’idea originale di Nanni Loy che riveste un ruolo importante da attore – guastatore, una sorta di Candid Camera artigianale ispirato al format statunitense. Tutti lo ricordiamo inzuppare il cornetto nel cappuccino dello sconvolto avventore di un bar per studiare le reazioni dell’italiano medio.
Made in Italy (1965) è una commedia a episodi che rientra a pieno titolo nella nostra trattazione e che approfondisce l’indagine televisiva di Nanni Loy intorno a vizi e usanze degli italiani. Il film è diviso in cinque sezioni: Usi e costumi (Lando Buzzanca, Aldo Giuffré, Walter Chiari e Lea Massari); Il lavoro (Aldo Fabrizi, Nino Castelnuovo e Mario Pisu); La donna (Virna Lisi, Catherine Spaak, Sylva Koscina e Jean Sorel); Cittadini, stato e chiesa (Nino Manfredi e Carlo Pisacane); La famiglia (Anna Magnani, Andrea Checchi, Peppino De Filippo, Alberto Sordi e Rossella Falk). A parte le cinque sezioni abbiamo anche undici episodi, alcuni molto brevi, a livello di barzelletta e di rapido flash comico. Il film è chiaramente ispirato a I mostri (1963) di Dino Risi e tenta di ricalcarne il successo, ma spesso non va oltre lo spessore della rapida battuta, raccontando storie di tradimenti, burocrazia che non funziona, traffico insostenibile e problemi di vario tipo per un’Italia sconvolta da un inatteso boom economico. Le storie seguono il filo conduttore di un gruppo di emigranti diretti in Svezia, che ricordano l’Italia con nostalgia. Giampiero Albertini è l’attore più importante del segmento guida e lo ricordiamo mentre firma un documento e indica i motivi del viaggio: andare a faticare. La sceneggiatura di Ruggero Maccari, Ettore Scola e Nanni Loy cerca di rendere gli episodi graffianti, ma non tutti sono allo stesso livello. Anna Magnani alle prese con il traffico che rischia la vita per comprare un gelato ai figli è un personaggio memorabile. Aldo Fabrizi non è da meno nei panni del padre orgoglioso di un figlio laureato, ma inetto e arrogante come Nino Castelnuovo. Walter Chiari è eccellente nella caratterizzazione del pappagallo italiano che fa di tutto per portarsi a letto una donna (Lea Massari), ma quando ci riesce non vede l’ora di levarsela di torno per andare al cinema a vedere un film western. Lando Buzzanca è uno strepitoso fidanzato siculo che tollera ogni difetto della futura moglie, persino che sia ladra, simulatrice, violenta e con tendenze criminali. Basta che sia illibata e che nessuno metta in dubbio la sua moralità sessuale. Kafkiano e surreale l’episodio con protagonista uno stralunato Nino Manfredi in lotta con la burocrazia che lo condanna all’inesistenza giuridica. Alberto Sordi recita uno strepitoso duetto comico con Rossella Falk, moglie tradita che lo mantiene, quando viene sorpreso in flagrante con l’amante nel letto e nonostante tutto riesce a passare per vittima. La commedia sexy è sempre presente, ma nel capitolo Le donne è ancora più evidente perché abbiamo tre notevoli bellezze (Lisi, Spaak e Koscina) anche se non interpretano parti piccanti. Memorabile Catherine Spaak nei panni di una modesta figlia di un portiere che si finge un’aristocratica per frequentare il bel mondo. Le sue lacrime vere miste a un finto sorriso mentre telefona al fidanzato e sopporta le percosse di un padre violento sono un momento di grande recitazione. Virna Lisi è una mantenuta di professione che piange un anziano marito defunto ma ne sposa subito un altro per non perdere il tenore di vita e manda in bianco uno spasimante innamorato. Sylva Koscina è la più casta, perché incontra un uomo (Jean Sorel) che le fa la corte solo per poter guidare la sua automobile sportiva. Il regista si conferma buon osservatore dei costumi e delle cattive abitudini dei suoi connazionali anche in questa commedia di costume che cerca di rivitalizzare il cinema a episodi. Memorabile il turista che cerca la Madonna del Granduca di Raffaello a Firenze ma nessun italiano gli sa dire dove si trovi, fino a quando non incontra un inglese informatissimo. Tra le abitudini italiane: la cena funebre al sud, la trattoria romanesca tipo La parolaccia frequentata da ricconi per farsi maltrattare, l’italiano che non rispetta le regole e fuma di nascosto, gli uomini che passeggiano e sbirciano le donne degli altri e il calcio come unico interesse. Un velo di nostalgia avvolge l’episodio degli emigranti che rimpiangono il calore della terra natale, ma quando sbarcano in mezzo alla neve di Stoccolma entrano in un ristorante dove portano musica e allegria.
Il padre di famiglia (1967) è uno dei film di Nanni Loy più amati dalla critica che lo definisce un’amara descrizione della crisi ideologica e familiare di una coppia (Poppi) e un buon lavoro sulla metamorfosi sociale e ideologica della famiglia italiana (Canova), ma anche un lavoro che concilia il divertimento con l’analisi sociale e l’impegno morale (Morandini). Interpreti: Nino Manfredi, Leslie Caron, Cludine Auger, Ugo Tognazzi, Mario Carotenuto, Evi Maltagliati, Marisa Solinas, Sergio Tofano, Raoul Grassilli, Giampiero Albertini, Elsa Vazzoler e Paolo Bonacelli. Soggetto e sceneggiatura di Nanni Loy e Ruggero Maccari, scritto con lo scopo di stigmatizzare i cambiamenti della famiglia italiana nel periodo del boom economico. Il regista descrive la vita di una coppia di sinistra (Manfredi e Caron) – entrambi architetti – che negli anni eroici del dopoguerra si sposa tra sogni e speranze. Il matrimonio si logora, lui cerca un’altra donna, lei finisce in clinica e abbandona il lavoro. Vediamo l’arrivo dei figli come momento critico per la famiglia, le liti con il suocero (Carotenuto) e l’educazione pedagogica al tempo del metodo Montessori. L’amore trionfa, nonostante tutto, perché il marito si rende conto di amare la moglie e che senza di lei la casa è inesorabilmente vuota. I sogni e le delusioni di una generazione che comprende di aver tradito i propri ideali sono la cosa migliore di un film che presenta buoni momenti di comicità. Il regista vuol far capire che il boom economico ha corrotto tutti, pure le famiglie di sinistra. Dovrebbe esserci Totò nel ruolo dell’anarchico Romeo, ma la sua morte sopravvenuta dopo i primi giorni di riprese fa ripiegare la scelta sul bravo Ugo Tognazzi. Ottimo Nino Manfredi.
Rosolino Paternò soldato (1969) è un film sulla guerra dal polemico contenuto pacifista, scritto dal regista con la collaborazione di Age e Scarpelli. Ricordiamo una grande interpretazione di Nino Manfredi nei panni del soldato siciliano che vorrebbe tornare a casa, ma non può perché siamo nel 1943 e gli alleati stanno per sbarcare. Si vedrà costretto a compiere, suo malgrado, una missione molto pericolosa. Antimilitarista e duro. I militari sono descritti come pericolosi cialtroni. Il cast presenta molti attori americani.
Detenuto in attesa di giudizio (1971) è una vibrante denuncia del mal funzionamento della giustizia dei tribunali (Canova) che si avvale della grande interpretazione di un Alberto Sordi in forma strepitosa. Il soggetto è di Rodolfo Sonego ma si basa su un’inchiesta di Emidio Sanna, sceneggiato da Loy con la collaborazione di Sergio Amidei. Il regista racconta l’odissea di un italiano tornato a casa per una vacanza con la moglie svedese (Elga Andersen) che si trova coinvolto in un’assurda accusa per omicidio colposo. L’incubo condurrà il protagonista al crollo psicologico prima che tutto venga chiarito come un caso di omonimia. La pellicola serve a Nanni Loy per denunciare le condizioni del sistema carcerario italiano, ma anche per stigmatizzare l’uso eccessivo della carcerazione preventiva.
Sistemo l’America e torno (1974) è una spietata analisi del razzismo negli Stati Uniti, sceneggiata dal regista con la collaborazione di Piero De Bernardi e Leo Benvenuti. Interpreti: Paolo Villaggio, Sterling St. Jacques, Rita Savagnone, Alfredo Rizzo e Christa Linder. Un ingegnere di Busto Arsizio (Villaggio) si reca negli Stati Uniti per scrittura un giocatore nero di basket (St. Jacques) per la squadra aziendale, ma quest’ultimo milita nel movimento Black Power. Commedia all’italiana insolita per lo sguardo impietoso sugli Stati Uniti razzisti e per un Paolo Villaggio in gran forma alle prese con un ruolo diverso, prima da provinciale alla scoperta del nuovo mondo, infine protagonista di un’impensabile tragedia. Impegno politico notevole, pure eccesivo, ma è figlio dei tempi.
Signore e signori buonanotte (1976) è un film che presenta elementi di commedia erotica, ma ne abbiamo già parlato nel capitolo dedicato a Luigi Magni. Si tratta di una pellicola girata da Loy, Magni, Comencini, Monicelli e Scola. Gli episodi diretti da Nanni Loy (Sinite parvulos con Andrea Bosic e Il personaggio del giorno con Ugo Tognazzi) non fanno riferimento alla tematica sexy. Il primo è la storia di un ragazzino che si suicida dopo che un cardinale ha premiato le famiglie più numerose. Il secondo (sottotitolo: Poco per vivere, troppo per morire) racconta gli espedienti di un pensionato milanese che sopravvive con la pensione sociale.
Basta che non si sappia in giro (1976) è un altro film a episodi trattato nel capitolo dedicato a Luigi Magni. Il segmento girato da Nanni Loy è Macchina d’amore, di evidente argomento erotico, perché Monica Vitti è la dattilografa di Johnny Dorelli che batte il copione di un film porno e si immedesima in una parte piuttosto spinta. Nanni Loy collabora con Luigi Magni e Luigi Comencini.
Quelle strane occasioni (1976) vede ancora la collaborazione tra Nanni Loy, Luigi Magni e Luigi Comencini. L’episodio girato da Loy è Italian Superman, ma anche questo lavoro è stato affrontato nel capitolo dedicato a Luigi Magni. Italian Superman di Nanni Loy – che non firma la pellicola – (Paolo Villaggio, Valeria Moriconi e Lars Bloch) è il segmento più volgare: racconta le vicende di un venditore di castagnaccio che diventa ricco facendo l’amore in pubblico nei night di Amsterdam. Il problema è che la moglie lo blocca, lui non vuol saperne di restare fedele e di fare l’amore con una sola donna. Il film si ricorda soprattutto per L’ascensore di Luigi Comencini, interpretato da una sensuale Stefania Sandrelli e da un bravissimo Alberto Sordi nei panni di un monsignore.
Café Express (1979) è uno dei capolavori di Nanni Loy, come afferma la critica più avveduta. “Amaro spaccato di una piccola umanità cinica e cialtrona che si arrangia e sopravvive vendendo abusivamente caffè sui treni” (Canova). “Un film dal sapore neorealista interpretato da un inarrivabile Nino Manfredi nei panni di un povero venditore di caffè abusivo sui treni” (Poppi). La sceneggiatura è del regista che si avvale della collaborazione di Nino Manfredi ed Elvio Porta. Interpreti: Nino Manfredi, Vittorio Caprioli, Vittorio Mezzogiorno, Adolfo Celi, Gigi Reder, Lina Sastri, Luigi Basagaluppi, Tano Cimarosa, Maurizio Micheli, Clara Colosimo, Leo Gullotta, Silvio Spaccesi, Marzio Honorato, Marisa Laurito, Antonio Allocca, Nino Vingelli, Nino Terzo, Giovanni Piscopo e Franca Scagnetti. La musica – suggestiva e d’atmosfera – è della cantautrice Giovanna Marini. Gli elementi da commedia sexy si limitano al fugace incontro tra Marisa Laurito e il suo amante, consumato a bordo del treno grazie a Manfredi che sorveglia lo scompartimento. Il film è grande commedia all’italiana, di costume, impegnata a raccontare la vita di un venditore abusivo di caffè sul treno Palermo – Napoli, che vive con un figlio malato e l’handicap di un braccio di legno. Le avventure del venditore mostrano la sua lotta con i ferrovieri e i carabinieri che lo perseguitano ma anche con i borsaioli che lo vorrebbero reclutare nella banda. Adolfo Celi è un terribile ispettore del ministero dei trasporti che alla fine mostra il suo lato più umano. Vittorio Mezzogiorno è un borsaiolo dal coltello facile che mette nei guai il venditore di caffè subendone la reazione coraggiosa e rabbiosa. Vittorio Caprioli è il borsaiolo più elegante, un truffatore in guanti bianchi, mellifluo e intrigante. Lina Sastri è una suora molto intensa che accudisce i suoi orfanelli con tenerezza. Marisa Laurito si esibisce in un’insolita interpretazione sexy, condita di molta ironia, ma mette in mostra anche le lunghe gambe. Gigi Reder è un infermiere che procura le medicine per il figlio di Manfredi e interpreta il solito personaggio eccessivo con diligenza. Leo Gullotta è un patetico strabico che rimpiange di non aver coronato il piccolo sogno di fare il carabiniere. Maurizio Micheli è un bauscia milanese che beve il caffè adulterato dal borsaiolo e denuncia il venditore abusivo. Molte le macchiette irriverenti e persino alcuni momenti volgari (il borsaiolo orina nel caffè che viene servito ai passeggeri), ma il film non ne risente, perché diverte e fa pensare. Il treno è un microcosmo sociale interessante e Nanni Loy indaga su una serie di tipologie umane che frequentano la seconda classe fumatori, usando molta camera a mano e sfruttando l’esperienza acquisita nelle candid camera di Specchio segreto. La macchina da presa cattura luci e odori indelebili, racconta la vita di borsaioli, contrabbandieri, ricchi milanesi, suore in compagnia degli orfani, pendolari, piccoli truffatori e amanti che si danno appuntamento a bordo del treno. Café Express è una pellicola sull’arte di arrangiarsi che Michele Abbagnano, venditore abusivo di caffè, esercita per sopravvivere. I racconti che Manfredi propina ai singoli avventori per giustificare la mano di legno, diversi per ogni incontro e adattati alla psicologia del personaggio, sono il leitmotiv ironico del film. Alla fine veniamo a sapere che la mano non è di legno, ma si tratta di un trucco per nascondere un arto paralizzato che spaventerebbe le persone. Lo stile di Nanni Loy è realistico – si ricordano le sequenze iniziali tra vento inclemente, pioggia e cigolare d’imposte -, il racconto del dramma umano è intenso e partecipe, la regia senza difetti. Per concludere dobbiamo accennare al rapporto di complicità che si crea tra padre e figlio, dopo che quest’ultimo è scappato di collegio per vivere con il genitore. Nel commovente finale il figlio finge un malore per salvare il padre dalla prigione. Nessuno se la sente di firmare la denuncia, neppure l’ispettore Adolfo Celi, tanto meno il carabiniere che è figlio di povera gente. Michele Abbagnano viene lasciato libero e può tornare a vendere caffè sui treni. Un grande film che racconta la vita quotidiana, alternando commedia e tragedia, melodramma e ironia.
Testa o croce (1982) è un film composto da due episodi diretti da Nanni Loy. La tematica erotica è presente in entrambi e possiamo parlare di commedia sexy alta, pure se girata a scopi soltanto commerciali. Il film è scritto da Loy, Pozzetto, Oldoini e Ferrini. La pecorella smarrita vede interpreti Renato Pozzetto e la non ancora televisiva Mara Venier in un ruolo sexy che ce la presenta in molte scene senza veli. Pozzetto è un prete di paese che perde la memoria dopo aver preso una bottigliata in testa e finisce per innamorarsi della Venier. Per fortuna un nuovo colpo in testa lo riconduce sulla retta via e ai suoi impegni pastorali. Il figlio del beduino è interpretato da Nino Manfredi, Ida Di Benedetto, Leo Gullotta e Paolo Stoppa. Manfredi è un operaio vedovo che vive con il terrore di avere un figlio omosessuale e per scacciare l’idea accetta persino che faccia la corte alla sua compagna. Il film non piace alla critica alta, che non ama la commedia sexy, ma le due barzellette erotiche sono molto divertenti. Loy ironizza sui preti che non possono sposarsi e non hanno diritto all’amore, ma anche sui genitori che temono come la peste il fatto di trovarsi in casa un figlio gay. Mereghetti è caustico: “Due barzellette senza vera comicità, ma solo un mare di volgarità, allusioni e doppi sensi”. Morandini sostiene che i due episodi sono disuguali e non ha tutti i torti nel propendere per la maggior profondità della seconda storia. “Forse c’è una differenza di classe tra i due interpreti? Oppure Loy conosce bene il proletariato romano e poco la Lombardia?”, si chiede il noto critico.
Amici miei – Atto III (1982) è l’ultimo prodotto di una saga di successo che Monicelli si rifiuta di girare perché ritiene ormai troppo sfruttata. Tocca a Nanni Loy il difficile compito di non far rimpiangere due capolavori del passato impostando la stessa atmosfera melanconica presente nei primi episodi. La colonna sonora di Carlo Rustichelli funziona come uno struggente leitmotiv per le disavventure dei vecchi amici all’interno di un ospizio. Le zingarate presentano un sapore ancora più amaro perché l’età della morte si avvicina, le beffe sono spesso crudeli e cattive. Tra gli interpreti non possono mancare Ugo Tognazzi, Gastone Moschin, Adolfo Celi e Renzo Montagnani, che nelle prime sequenze vediamo impegnati a cantare in auto la vecchia Mavaffanzum! mentre ricordano il tempo passato. Bernard Blier ricopre di nuovo il ruolo del gabbato, perché in ospizio viene coinvolto in una messa nera e convinto di possedere un potere demoniaco capace di farlo ringiovanire. Enzo Cannavale è molto bravo nella parte del servizievole napoletano che per una modica spesa si presta a qualsiasi attività manuale. La sceneggiatura non è il massimo, perché paragonata ai primi due capitoli la terza parte risulta più debole e deludente. In ogni caso si lascia seguire per buona verve comica e per interpretazioni senza sbavature dei protagonisti. Il conte Mascetti – rimasto vedovo della moglie – va in ospizio, ma i compagni lo raggiungono per dare il via a una serie irresistibile di scherzi. Alla fine il chirurgo Sassanelli compra la struttura dopo aver venduto la clinica e fissa nuove regole di vita che nessuno riesce a seguire. Da citare un nuovo tentativo di schiaffeggiare i passeggeri alla stazione di Firenze che finisce male, perché i quattro amici sono vecchi e non colpiscono i bersagli. Anzi, sono loro a finire malmenati. Tognazzi inventa un nuovo e più agile sistema: schizza con inchiostro nero i passeggeri affacciati al finestrino ricorrendo a una pompetta. Tra gli scherzi divertenti citiamo i primi momenti al Luna Park, la corsa sulla giostra, lo zucchero filato come ritorno all’infanzia e i vecchietti che si fingono spastici per distruggere lo stand del tiro a segno. Buoni momenti riflessivi e malinconici quando il Melandri in pensione non riesce a far passare il tempo, va a prendere il caffè dal Necchi prima dell’alba e recita poesie per realizzare la metafora del Mascetti in ospizio. “L’importante nella vita non è mica lavorare, ma ridere!”, è la morale del gruppo di amici che si ritrova per dare il via a nuove zingarate. In ospizio è notevole la gag di Tele Terza Età, un finto canale messo su dal quartetto con una sostituzione di cavi al televisore. Il regista esorcizza la morte con la pubblicità alle bare, ma cita pure la pochade e le comiche con le torte in faccia. Adolfo Celi è l’unico amico in piena attività erotica e ci presenta una serie di nipotine ventenni da parte di fava, nella gag più originale del film che ricicla un volgarissimo modo di dire toscano. La morte incombe sulla pellicola, come nei vecchi lavori di Monicelli e la vecchia idea di Germi non va sprecata: “La morte è discreta nelle case di riposo. Tutti la vedono, ma nessuno ne parla”. Molto bravo Nanni Loy a rappresentare la morte come un materasso percosso da una finestra aperta: basta osservare la scena per capire che qualcuno se n’è andato. Altri scherzi spezzano il tono malinconico e sarcastico per conferire alla pellicola un andamento da farsa: le dentiere sul tavolino e il brodo succhiato dai piatti sono due momenti da pochade. Moschin non può fare a meno di innamorarsi anche in ospizio ma ben presto si rende conto che la sua fiamma è una ex prostituta. Il conte Mascetti gli fa aprire gli occhi con lettere anonime e pure con una palpata di sedere rivolta alla fidanzata. Divertenti anche un farsesco duello e lo scherzo della messa nera nei confronti di Blier che alla fine muore in una casa di appuntamenti per eccessi erotici. “Quale morte migliore? Se n’è andato sicuro d’essere immortale, tra le poppe di due sventolone. Magari accadesse anche a noi…”, dice Tognazzi. Altre zingarate portano i nostri eroi a incasinare il traffico di Roma con i bambini che escono da scuola e al Polo Nord tra i ghiacci eterni. Per stomaci forti lo scherzo dell’insalata russa prima vomitata (per finta) da Tognazzi in un sacchetto e poi divorata dai quattro buontemponi. Il finale vede la rivolta dei vecchietti in ospizio, a base di scherzi e sabotaggi (il profumo nella minestra), che porta al cambio di gestione con il Sassaroli nuovo padrone permissivo. Non più monache e orari rigidi, ma belle nipotine da parte di fava e scherzi senza limiti. Perché l’importante è ridere, per esorcizzare la morte ed evitare di pensare a un nuovo materasso scosso da un battipanni alla finestra.
Mi manda Picone (1983) è una commedia grottesca a tinte gialle ambientata a Napoli, scritta e sceneggiata dal regista con la collaborazione di Elvio Porta. Interpreti: Giancarlo Giannini, Lina Sastri, Clelia Rondinella, Carlo Croccolo, Armando Marra e Aldo Giuffré. Picone è un camorrista scomparso che si fingeva operaio dell’Italsider. Giannini è un disoccupato pieno di inventiva che aiuta la moglie a ritrovarlo ed è proprio lui a pronunciare la frase che dà il titolo al film, un’espressione diventata proverbiale che nell’economia della storia serve ad aprire molte porte. Tullio De Piscopo e Pino Daniele compongono una grande colonna sonora napoletana per un film che non è un capolavoro, ma si lascia guardare pur se abbonda di facili luoghi comuni su Napoli. Un viaggio nel ventre della Napoli camorrista condotto in maniera farsesca e brillante.
Nanni Loy torna in televisionecon la fiction Gioco di società (1989), ma i suoi ultimi lavori per il cinema sono ancora due opere su Napoli come il musical teatrale Scugnizzi (1989) e la commedia ironica Pacco, doppio pacco e contropaccotto (1993).
Scugnizzi è una pellicola ambientata a Napoli e interpretata da Leo Gullotta, Claudia Muzzi, Piero Pepe, Aldo Giuffré e Pino Caruso. Il protagonista è Leo Gullotta che imbastisce lo spettacolo teatrale intitolato Scugnizzi con i ragazzi del riformatorio di Nisida per pagare un creditore, ma resta coinvolto nelle vicende dolorose dei detenuti. La sceneggiatura è di Elvio Porta. Ottima la parte musicale curata da Claudio Mattone. Il film non raggiunge risultati soddisfacenti, anche se gli interpreti non professionisti se la cavano a dovere, perché il regista si fa prendere la mano dal patetismo e dai luoghi comuni. Non c’è la profondità dei vecchi lavori di Nanni Loy ma si devono sentire battute come: “A Napoli il solo lavoro possibile è la camorra” oppure “Se vuoi fare l’uomo devi sparare, spacciare o essere ucciso”.
Pacco, doppio pacco e contropaccotto (1993) è un film a episodi su Napoli, scritto e sceneggiato dal regista con la collaborazione di Elvio Porta, interpretato – tra gli altri – da Enzo Cannavale, Marina Confalone e Alessandro Haber. Vediamo i titoli: L’esame (Italo Celoro, Leo Gullotta, Angela Luce) racconta la storia di un truffatore truffato che mette alla prova un truffatore; Non vedente (Giobbe Covatta e Nello Mascia) è la storia di un falso cieco che si è fatto assumere nella quota riservata agli invalidi, ma rischia di perdere il posto di lavoro dopo un incidente di moto; Consulenza fiscale (Italo Celoro, Leo Gulotta, Anita Zagaria) racconta di un esperto imbroglione che froda il fisco per conto di persone che non pagano le tasse; Il fantasma di via Sanità (Marina Confalone, Gerardo Scala, Silvio Spaccesi, Pia Velsi) ci mostra un finto fantasma che fa scappare un mago ciarlatano da un appartamento occupato abusivamente; Rientro estivo (Leo Gullotta, Italo Celoro) ci porta all’interno di un gruppo di turisti gabbati che pagano centomila lire per un viaggio su un traghetto in riparazione; Tengo un americano (Enzo Cannavale, Isa Danieli, Antonio Rizzo) è la storia di un portinaio che si compra la casa beffando i biscazzieri per cui lavora; Psicologia (Italo Celoro e Germano Bellavia) è un breve episodio dove un venditore ambulante permette ai suoi clienti di imbrogliarlo ma in realtà è lui che li truffa; Cuore di mamma (Alessandro Haber, Angelo Orlando, Mara Venier e Nunzio Gallo) vede uno studente nullafacente che si fa aiutare da una prostituta a farsi promuovere da un professore bigotto; Corruzione (Vittorio De Bisogno, Micol Pambieri e Luigi Savoia) parla di estorsione ai danni di un ricattatore; Pacco, doppio pacco e contropaccotto (Tommaso Bianco, Luigi Petrucci e Giuseppe Di Rosa) racconta una tripla stangata ai danni di due ricconi che vogliono comprare macchine fotografiche di contrabbando, ma tre famiglie vivono di un giro truffaldino. Si tratta del quinto film dedicato a Napoli da parte di un sardo come Nanni Loy che manifesta grande una vocazione meridionalista. Molto frammentario, impostato come una serie di bozzetti che raccontano il quotidiano. Il tema di fondo è l’arte di arrangiarsi, la truffa e l’imbroglio, anche se spesso il truffato sembra più spregevole del truffatore. Il regista esprime grande compiacimento narrativo, ma il vero dramma resta ai margini della sceneggiatura e non viene colto in pieno. Il difetto dei dieci episodi è una certa superficialità anche se la recitazione è spontanea e tra gli interpreti ci sono buoni attori come Enzo Cannavale, Alessandro Haber e Leo Gullotta. L’episodio più vicino alla commedia sexy vede Mara Venier nei panni di una prostituta veneta che seduce un professore imbranato portandolo sull’orlo della follia erotica.
Gli ultimi lavori di Nanni Loy sono il film televisivo A che punto è la notte (1994) e la regia teatrale di Scacco pazzo (1994). In televisione ricordiamo il regista alle prese con buoni programmi di varietà come Il tappabuchi e il rievocativo Ieri e oggi. Nel 1970 interpreta pure Marcovaldo, dai racconti di Italo Calvino, per la regia di Giuseppe Bennati. Nanni Loy ha una buona attività come attore: Le belle famiglie, I complessi, Lettera aperta a un giornale della sera, Incensurato provata disonestà carriera assicurata cercasi, Tre canaglie e un piedipiatti e Tre tigri contro tre tigri. Il regista – per tutta la vita grande tifoso della Lazio – muore a 69 anni a Fregene, il 21 agosto del 1995 e viene sepolto al cimitero del Verano, a Roma.
Le pellicole di Nanni Loy si segnalano per un’intelligente critica di costume, mai qualunquista, che ci permettono di inserirlo nel ristretto gruppo di registi che meglio hanno saputo registrare i mutamenti avvenuti nell’Italia del dopo boom, fino ai primi anni Novanta. Gian Piero Brunetta scrive: “Loy è soprattutto un regista che ama osservare gli altri, che descrive il dibattersi di personaggi comuni nelle ragnatele burocratiche, giudiziarie, esistenziali, come nella normale routine quotidiana, tentando di far sentire il senso della propria protesta civile con un tono di voce moderato, ma con pugno fermo. Mantiene nelle sue storie il gusto per l’accadimento imprevisto, lo stupore e l’ammirazione sia per la creatività italiana del vivere giorno per giorno che per la stupidità burocratico – istituzionale che assume proporzioni iperboliche. I suoi film mantengono l’imprinting stilistico – morale del cinema di Luigi Zampa, con cui Loy ha fatto l’apprendistato e come insieme aiutano a ricostruire il ritratto antieroico del viaggio dell’italiano medio lungo la storia di quest’ultimo cinquantennio. Il tempo lavora a favore dei film di questo regista, accentua il retrogusto amaro delle sue commedie, ma anche il tipo di coinvolgimento e di partecipazione affettiva alle avventure picaresche dei suoi protagonisti. Se da Zampa ha ereditato la vena di scetticismo, da Eduardo De Filippo il senso di una tradizione profonda, il desiderio di cogliere al di là del gioco delle maschere e degli stereotipi, dei meccanismi della commedia, il senso della perdita dello spirito della napoletanità, del degrado inesorabile dell’anima napoletana” (Storia del cinema italiano – vol.4 – dal miracolo economico agli anni novanta, pp. 309-310).