“Mangia mangia che diventi più grasso di quello che sei già”. Così si legge fra i commenti sul profilo Instagram di un celebre cantante italiano. Sotto la foto di una famosa conduttrice televisiva notiamo, invece, un sospiro quasi ecologico: “Quanta plastica”. Ed è già molto imbattersi in osservazioni tanto articolate. Espressioni come “coglione”, “buffone”, “demente” si sprecano sui social, e chiunque può verificarne la diffusione semplicemente navigando online. Com’è, dunque, che si è arrivati a questo?
Indagare il perché la rete sia divenuta un covo di rabbia, specie negli ultimi anni, a mio avviso è possibile solo stabilendo una premessa. E la premessa riguarda l’idea che tutto, nella società dello spettacolo, debba conformarsi a standard precisi. La condivisione su internet del proprio viso, del proprio corpo o della propria immagine professionale è filtrata attraverso rigide categorie di valutazione. Farsi una foto diventa una prestazione in attesa di giudizio. Ecco che le azioni compiute in un solo schermo, il nostro, si moltiplicano nel piccolo palcoscenico privato che ciascuno possiede in tasca. E da cui è possibile sentenziare ciò che si vuole.
In realtà i social sono organizzati in modo tale che l’approvazione combaci con un gesto meccanico, il like. La disapprovazione, al contrario, non corrisponde a nulla. La grande originalità di Facebook e di Instagram è stata quella di identificare il giudizio sfavorevole con l’assenza di riconoscimento. Con un’altra forma di umiliazione pubblica, che non si esplicita in accuse e non trasmette ostilità. Tradendo, tuttavia, un messaggio comunque sconfortante: tu non vali niente. Non sei nessuno.
L’uomo e la donna che non ottengono likes, vuoi perché il loro aspetto non corrisponde ai canoni del pubblico, vuoi perché giudicati inadeguati ai parametri dei social, non hanno bisogno di una turba di utenti impegnata a screditare. Non ne hanno bisogno perché, sotto il profilo digitale, è piuttosto l’indifferenza a travolgerli. L’odio pare riservato, invece, a coloro che guadagnano una qualche popolarità mettendosi in mostra. Che offrono, in altre parole, un’immagine di sé capace di suscitare in chi guarda risentimento e invidia.
Non, dunque, chi è brutto, sfortunato e infelice riceve in genere attacchi sul web, ma piuttosto chi esibisce una narrazione della propria vita centrata sulla soddisfazione. Chi celebra la propria realizzazione professionale, la propria bellezza, il proprio successo. La propria felicità. Se nella vita offline sono i più socialmente adattati ad avere riconoscimento, ecco che il web crea l’opportunità di invertire i rapporti. L’occasione, cioè, di far patire anche ai “migliori” l’umiliazione e la mancanza di stima a cui si sente sottoposto l’accusatore fuori dalla rete, a connessione spenta.
La diffusione dell’odio sul web è dunque inseparabile dalla diffusione dell’odio sociale. La frustrazione che emerge dal non riconoscersi nei modelli luminosi dell’uomo e della donna realizzati, giovani o in piena salute, induce a volersi vendicare di quanto è percepito come uno scarto di qualità. Una ritorsione pronta a compiersi in quella “nuova piazza” che sono gli spazi per i commenti, le chat o le bacheche di Facebook. L’odio colpisce chi desidera distinguersi, chi si vuole affermare, e lo fa con i toni violenti e volgari del rancore: “Tu non sei tutto quello che sembri”.
È ovvio che questo non riassume le mille modalità con cui l’odio può manifestarsi sulla rete. Il cyberbullismo, infatti, non opera con le stesse dinamiche degli insulti degli haters, i quali, a loro volta, si distinguono dalla gogna sociale che ordinariamente colpisce chi, sorpreso in qualche gesto ritenuto ignobile, è fatto oggetto di pubblico disprezzo.
Ciò però non toglie che la cornice in cui questi fenomeni si verificano sia comune. Se il problema dell’odio online non è valutato nel suo contesto, che è quello della “società della perfomance” (secondo l’espressione dei filosofi Andrea Colamedici e Maura Gancitano), il rischio è di guardare soltanto al sintomo. Alla spia di una faccenda che chiede di essere capita, non solo censurata.