Heberto Padilla. Calderon, non era questo il mio sogno…

Articolo di Gordiano Lupi

Nella Quinta Avenida il chiaro e tiepido sole di inizio dicembre accentuava il colore degli alberi, del mare calmo e delle rose. La notte precedente era soffiata un po’ d’aria invernale e qualche piccola onda cominciava a superare il muro piatto della banchina dell’Avana, ma oggi la luce era ancora scintillante e calda. Dal marciapiede del Malecón si sentiva il rumore di tutta la città. Mi lasciai trasportare dalla folla in movimento, raggiunsi il parco Maceo e continuai fino all’Avenida del Puerto. Le barche di Casablanca erano decorate con le bandiere rosse e nere del Movimento 26 luglio e nella baia si sentivano intonare canti rivoluzionari, che fino a poco prima si ascoltavano solo clandestinamente. Questa per noi era la libertà. Non sapevamo ancora cosa ci attendeva. Non lo potevamo sapere. Per noi quei barbudos che entravano vincitori all’Avana, spavaldi, intrisi di eroismo, che portavano appiccicato ai vestiti l’odore della polvere da sparo, rappresentavano la libertà e il cambiamento. Ricordo le colombe volare sulle spalle d’un giovane condottiero e lo sguardo fiero d’un argentino al suo fianco. Allora non potevo sapere che il primo era un maestro di suggestive coreografie assetato di potere e il secondo soltanto un’idealista che sarebbe andato a morire su un nuovo campo di battaglia. Era troppo presto.

Sono sempre stato fuori dal gioco, forse è la condizione di poeta che non permette di stare dentro, per noi non è possibile, siamo destinati a raccontare una spiacevole verità in faccia al tiranno. Un poeta è bene non averlo intorno, è un triste personaggio che trova sempre da ridire, che non è mai contento, soprattutto non serve al potere.

Cuba è la mia terra, la mia isola calda e selvaggia, un’isola che fin da bambino ha colpito i miei sensi, mi ha penetrato con il cattivo odore, la puzza di sudore, i ritmi delle percussioni, il frastuono, il gesticolare della gente, le radio a tutto volume e le voci da una finestra all’altra che scambiano commenti e saluti. La mia Avana di periferia, terra di confine tra il mondo che conta e la disillusione, la mia Avana ceduta pezzo dopo pezzo a un’ideologia massacrante che ha distrutto la sua storia. Sono stato parte di quel sogno, ho creduto che potesse cambiare in meglio la nostra vita, mi sono trovato a naufragare tra le speranze, giorno dopo giorno. Non mi sono accorto dei miracoli, ho trascorso intere giornate cavillando, ho sempre trovato qualcosa da obiettare, non mi sono mai prestato al gioco. Forse è stato questo il mio errore. Non dare tutto me stesso per sostenere i tempi difficili che attendevano di sconvolgere la nostra storia. Non seguire chi diceva che l’intellettuale nasce con il peccato originale e deve dimostrarsi redento. Non dare ascolto a chi affermava che esistono libri da non scrivere e soprattutto da non pubblicare, perché fanno male al sogno e soltanto dentro la Rivoluzione può esserci libertà, ma per chi si chiama fuori non esistono diritti. Se avessi gettato tutto me stesso nella lotta adesso non avrei eroi da pascolare nei giardini, non mi sarei sentito fuori dal gioco, sarei stato utile alla mia patria e non avrei dovuto dimenticare il sapore del mango colto da una pianta. Non ci sono manghi a New York e neppure avocados. Non vedo palme reali che toccano il cielo e neppure tristi avvoltoi neri che scuotono immense ali dopo giornate di pioggia tra rami di gigantesche ceibas. Non sono mai riuscito a essere ottimista, galante, ubbidiente, misurato, soprattutto non ce l’ho fatta a camminare applaudendo. Non ero adatto a entrare nella nuova società. Non era fatta per un poeta.

“La vita è questo sogno! La vita è questo sogno!” gridavano entusiasti gli uomini in verde olivo. E io mi chiedevo se la vita era davvero questo sogno, pensavo a Calderon de la Barca e mi chiedevo se credesse sul serio che la vita è un sogno, perché i miei giorni erano circondati da incubi. Non sono mai stato capace di essere un eroe, sono soltanto un uomo fatalmente condannato a vivere la mia epoca. Gli eroi non dialogano, ma progettano il futuro con emozione, sono loro che ci guidano senza esitazione tra le braccia del domani e alla fine ci impongono la violenta speranza. Non ho mai voluto far parte di questo gioco, sono un poeta che non accetta l’eroismo, non ho niente a che spartire con quel sentimento, credo che un eroe sia inutile, forse più inutile di un poeta. Disgraziato il paese che ha bisogno di eroi!

Ho sempre vissuto a Cuba anche quando partivo, sentivo il mio cuore ebbro di vento e di fogliame diventare una cosa sola con le caldi notti di agosto, persino nella memoria, persino nel rimpianto, anche quando attraversavo le fredde strade di New York sotto una tormenta di neve. Erano i paesaggi di quel tempo che mi sconvolgevano, si potevano vedere lungo tutta Cuba, verdi, rossi, gialli, screpolandosi con l’acqua e il sole, veri paesaggi di guerra. Il vento strappava i cartelloni della Coca Cola, gli orologi di cortesia Canada Dry si fermavano all’ora vecchia e gli annunci al neon distrutti, crepitavano sotto la pioggia. Uno della Standard Oil Company appariva quasi illeggibile, ma sopra di lui troneggiavano due lettere rozze con le quali qualcuno aveva scritto Patria o Morte. Non accettavo questi simboli di violenza, ma il mio errore fatale è stato quello di scrivere, seguendo il mio istinto di poeta.

Ho finito per risvegliarmi mille volte cercando la casa dove i miei genitori mi proteggevano dal mal tempo, cercando il pozzo nero dove ascoltavo il gracidare delle rane e le falene che il vento faceva volare a ogni istante. Adesso è impossibile tornare bambino e allora non mi resta che gridare in una stanza vuota, perché gli anni sono perduti e non sono capace neppure di cantarli. Sono accadute troppe cose che non ho compreso, sono rimasto il personaggio rancoroso che ero, l’eterno insoddisfatto, l’inutile poeta che dubita di troppe certezze. Mi sono accorto che il mio Paese era governato da un uomo carismatico che cambiava piani e idee ogni volta che pisciava. Ho capito che la situazione non ammetteva possibilità di critica, ma solo accettare tutto con rassegnazione, nel bene e nel male.

Non era questa la mia Rivoluzione.

Caro vecchio Calderon, ammettendo pure che la vita è sogno, non era quello il mio sogno. Era un’utopia imposta che non volevo accettare e che non volevo trasmettere ai miei figli.

Il governo ha commesso errori inquietanti. Aprire le UMAP per rinchiudere omosessuali, preti, santeros, giovani rockettari, antisociali, magari anche qualche poeta, forse le persone meno inquadrabili, non sanno chinare la testa e sono sempre insoddisfatti. Abbiamo creato la Rivoluzione del consenso. Fidel decide e riunisce il popolo per un plebiscito a base di applausi.

No Calderon, scusami. Non era questo il mio sogno.

Il mio sogno era una terra che poteva dirsi libera.

Ricordo che dalla casa dei miei genitori potevo spalancare la finestra e far salire l’odore penetrante del galán de noche che ricopriva il muro di cinta. Vivevo a Miramar e vedevo crescere giorno dopo giorno il degrado del mio quartiere. Case che soffrivano un abbandono decennale, giardini pieni di erbacce, panchine di ferro, rugginose e scassate, terrazze deserte e semidistrutte. Soltanto durante la notte Miramar risorgeva dalle ceneri e tornava all’antico splendore, perché l’oscurità copriva le crepe e la sporcizia. La mia casa andava in rovina, come quelle di tutti, senza rimedio, avrebbe finito per cadermi addosso, pure se mi fossi adattato a vivere in poche stanze.

Gli stranieri cominciavano a venire a Cuba, soprattutto russi e uomini di sinistra, frequentavano l’Hotel Nacional, potevo vederli prendere il sole in piscina quando passeggiavo lungo il Malecón. Gli stranieri provavano un’esaltazione morbosa nell’esporre al sole dei tropici le loro pelli lattiginose, che i lunghi inverni conciano senza pietà. Bastavano poche ore e assumevano la tinta rossiccia delle aragoste del Golfo, gli occhi azzurri scintillavano sopra gli zigomi irritati. Questo era il nostro oro, la sola ricchezza che potevamo regalare a piene mani. Sono stati questi stranieri la nostra rovina, perché venivano a Cuba e approvavano tutto di questa Rivoluzione spontanea. Niente istituzioni burocratiche, partecipazione diretta del popolo alle decisioni, assenza e inutilità di un Parlamento. Non immaginavano che lo Stato andava avanti nel modo peggiore, mascherato in tutte le sue funzioni, agli ordini di un’unica testa autoritaria. Gli europei di sinistra venivano a Cuba e approvavano tutto, ma la cosa assurda era che non avrebbero mai accettato un simile sistema nei loro paesi. Erano ammalati di passione aprioristica, si innamoravano del carisma di un uomo, si fidavano e si lasciavano coinvolgere in un sogno che non era il nostro sogno, ma un sogno imposto da un solo uomo. La Rivoluzione Cubana era una tirannia mascherata da governo popolare, purtroppo. Parlavamo tra amici e ci sconvolgeva che cominciassero a perseguitare le opinioni, che le volessero trasformare in un delitto. I cubani trovano nello spirito, nella presa in giro, l’unico meccanismo di difesa per affrontare le situazioni più drammatiche. Il cubano diventa tragico solo nella pazzia. Il suo unico contatto veramente grave con le cose si verifica nel momento in cui perde la sua identità. In quella situazione rischiavamo molto, perché potevamo non renderci conto del dramma solo rinunciando a pensare. Per me era impossibile. 

Adesso sono in Alabama insieme a mia moglie Belkis, rimpiangiamo la debole pioggerellina dell’inverno indefinito di Cuba, quando sul muro del Malecón si alzano onde enormi e si infrangono sulle scogliere, fino a coprire i giardini circostanti con una cortina d’acqua nebbiosa. Ricordiamo un vento irreale che percuote imposte e finestre, cartelli dei parcheggi, serramenti arrugginiti che scricchiolano, l’acqua che scende sulle auto e si infrange sui parabrezza mentre il sole pare una macchia sbiadita. Nella nebbia del ricordo, la Quinta Avenida coperta e seminascosta dalla cortina d’acqua diventa uno spettacolo indimenticabile, sono come un sogno a occhi aperti gli alberi sempreverdi, d’un verde scuro e splendente, il fogliame abbondante dei rampicanti, le ceibas imponenti, le piccole rane dagli occhi vivaci e sporgenti, i passeri ostinati che si sollevano dall’erba fradicia. Il mar pacífico è sempre stato il fiore preferito di Belkis, che nelle notti cubane assaporava il profumo intenso del galán de noche, inerpicato sul muro della nostra casa, mentre lucertole saltavano tra rami e buganvillee spinose. La nostra casa in rovina, seppellita da erbe e arbusti sarebbe andata ancora più in rovina. La pioggia sottile di dicembre si sarebbe trasformata in grosse gocce, il vento avrebbe cominciato a fare mulinelli, ammucchiando foglie cadute vicino ai tombini in anelli di acqua torbida. Le nostre tempeste del tropico erano solo un triste ricordo, quei piovaschi improvvisi che durano lo spazio di pochi minuti e quei temporali che segnano il limite impreciso delle stagioni. Ricordo con dolore l’immagine della Quinta Avenida immersa in un firmamento confuso, una pianura di vento e acqua, un cielo torbido e senza uccelli, una lamina neutra e spettrale contro la quale si proiettavano pali enormi, divelti dalla furia del vento.

È stato in questo panorama spettrale di un giardino distrutto dai venti che ho visto per l’ultima volta pascolare gli eroi. Eroi perplessi come bambini, subitamente goffi e messi a terra, eroi che si muovevano come spolette, con un rumore di pifferi e di flauti, eroi remotissimi e attuali, che si muovevano come sanguisughe… erano i miei eroi. Pascolavano e divoravano erba e arbusti senza sosta. Uomini, vecchi, donne e bambini, come cannibali del tempo e della storia, divoratori di speranze, energici costruttori di un futuro. Non li ho più visti. Non so che fine abbiano fatto, purtroppo. Si sono persi, credo, perduti nel sogno di un uomo nuovo che non è mai nato.

Sono accadute troppe cose alle quali avevo dovuto adattarmi. Una Rivoluzione non si riduce agli entusiasmi iniziali, ai piani, ai sogni, ai vecchi aneliti di redenzione e di giustizia sociale che si vogliono realizzare. Ha anche il suo lato oscuro, difficile, quasi sporco: repressione, vigilanza poliziesca eccessiva, sospetti, giudizi sommari, fucilazioni. Non potevo accettare che non ci fosse scelta.

Belkis ricorda le nostre piogge tempestose e io l’ascolto sotto la pioggia sottile degli inverni occidentali. La nostra sera d’inverno arrivava quasi all’improvviso, senza darci il tempo di vedere altro che ombre che si muovono intorno, di annusare odori provenienti dai più reconditi cortili. Cade di colpo la sera e ci troviamo nelle tenebre a camminare senza meta, guidati dall’incanto misterioso del calar della sera. Ricordi com’era bello passeggiare sul Malecón? Sì, che lo ricordi Belkis, ma non rispondi, perché non vuoi ammalarti di nostalgia. Il Malecón trasformato in un paesaggio senza colori dalla notte cubana e poi tormentato da un acquazzone tropicale, con la gente che fugge fradicia in cerca di riparo, vestiti attaccati al corpo, capelli che grondano. In quei momenti era bello sedersi in un bar e attendere che spiovesse, osservando ragazzi e ragazze che improvvisavano ritmi cubani, un misto di guaguancó, rumba, mambo, guaracha, bevendo un sorso di rum e accennando le parole d’un vecchio bolero…Non durava molto la pioggia tropicale e allora si ripartiva come due ragazzi innamorati e senza pensieri lungo le strade piene di mandorli e flamboyanes della nostra capitale alla periferia del mondo. Il verde intenso era il colore dominante della nostra vita e spesso mi immaginavo come una farfalla elegante capace di volare di fiore in fiore. Attraversavo il ponte di ferro e osservavo la fine illuminata dell’Almendares che si unisce al Moskvá, canale lercio e nebuloso nel quale scintillano i miei ricordi. Sapevo che L’Avana era nata intorno a questo fiume ed era da là che l’uomo nuovo doveva ricominciare. Non ero preparato a entrare in questo gioco. La mia colpa è stata soltanto quella di scriverlo. Ero un poeta, un personaggio fastidioso da allontanare, non potevo fare diversamente.

Belkis mi parla dei carnevali avaneri durante queste notti sempre uguali, tra grattacieli e fredde strade piene di gente affaccendata che corre da un posto all’altro e pensa alle cose da fare. Ricorda ragazzi e ragazze che entravano e uscivano dai ristoranti improvvisati, soprattutto da La Piragua, traboccante di chilindrón, riso congrís e tamales. Il ghiaccio era tutto nei carnevali, non si trovava ghiaccio in nessun locale avanero, ma solo nei bar lungo il Malecón che servivano birra in grossi bicchieri di cartone paraffinato. Ricordo anch’io lo scintillante scenario del carnevale, gli scogli e le acque della baia che brillavano alla luce dell’imbrunire. Non potrei mai dimenticarlo. Non tanto per i carri decorati che si spostavano dal castello del Morro e invadevano il lungomare, ma per l’allegria della nostra gente che sento perduta per sempre.

Vivere con i ricordi è bello, pare quasi di non invecchiare, ma vivere di ricordi fa morire in fretta di nostalgia. Non voglio che accada. So che tutto questo non esiste più. Se cerco i profumi del mio passato sento giornate intrise dell’aria salsa del tropico, una massa pesante e oleosa che mi riempie i polmoni. Non possono impedirmi di continuare ad amare il mio isolotto caldo e smisurato, ma ho scelto di abbandonarlo, di cancellare un sogno che si era trasformato in un incubo. Un giorno ho deciso che non volevo né comandare né obbedire, ma soltanto fuggire. Colpevole di aver scritto un libro amaro, come amare sono certe verità, ma restano pur sempre verità,  accusato di cospirazione contro lo Stato, di aver sparso nei miei versi il veleno della Cia. Le mie poesie facevano più male di una spada, come aveva detto Heredia anni prima, un poeta è una spina nel fianco del tiranno se decide di essere sincero. Avevano messo in isolamento me e Belkis per troppi anni, anche se non poterono impedire che Fuori del gioco vincesse il premio nazionale di poesia assegnato dall’Uneac. Odiavano gli intellettuali, intrisi del peccato originale, anche se a Cuba non erano in molti e c’era chi diceva che passavano il tempo a cercare le quattro zampe del gatto.

Ho scritto un romanzo incompiuto che è il romanzo della mia vita e quando me ne sono andato dalla mia terra l’ho portato via con me, trattenendo una lacrima mentre dal finestrino di un aereo vedevo allontanarsi sempre di più quella distesa brillante, quella miscela di verde e di luce che nonostante tutto era la mia patria. Tutto quello che mi è rimasto di Cuba l’ho messo nelle pagine dei miei libri. Spero solo che sia abbastanza.

Tra l’epica e la lirica di Heberto Padilla

Intervista a Heberto Padilla a cura di Miguel Angel Zapata

(Revista de literatura hispánica, Autunno – Primavera, 1987, Numero 26, Articolo 22)

M. A. Zapata – Parliamo innanzi tutto delle tue prime pubblicazioni. Secondo me s’incontrava un paesaggio puro dell’Isola, dettato da una spinta creativa fresca, genuina, inoltre si notava la presenza costante del mare.

H. PadillaLas rosas audaces è un libro che non posso considerare tale. Sono le prime poesie che ho scritto, lavori molto formali, per la maggior parte sonetti. È un libro scritto tra i 14 e i 15 anni, pubblicato quando ne avevo 17, credo che non possa essere considerato parte della mia opera. Non tanto perché fu pubblicato quando avevo 17 anni, perché Rimbaud a 17 anni aveva scritto libri geniali e dopo non ne scrisse altri, quanto perché fu pubblicato per una serie di coincidenze fortuite. C’era un casa editrice di un mio amico che si chiamava Los nuevos e pubblicava libri di giovani, io avevo quelle poesie, gliele detti e lui le pubblicò… ma non ho il minimo interesse a ricordare quel libro. Tuttavia c’è una poesia, la prima del libro, che posso citare come una prima vera poesia giovanile. Ti reciterò alcuni versi, perché è una poesia, come tu dici, che riflette proprio la realtà di Cuba, il sole, il mare: Togliti le vesti e appoggia la spalla d’oro sul mio torace marino… sono in vacanza a piedi scalzi, costume e sole che brucia sulle guance… si tratta di un attimo di vitalità giovanile, dove si esalta la vitalità del paesaggio cubano.

MAZ – Come erano in quel tempo a Cuba le letture e gli amici poeti?

HP – Non vivevo all’Avana dove si leggeva con maggior serietà e impegno. Abitavo in un piccolo centro come Pinar del Río, che nel nome descrive la sua realtà di paese situato accanto a un fiume. Le mie letture in quel tempo erano limitate, ma cercavo ugualmente di farmi strada. Ti dirò una cosa curiosa: i primi poeti che ho letto, è terribile dirlo, fanno parte della vita scolastica, e non dimenticherò mai questa cosa; li ho letti nei libri di lettura della scuola primaria quando frequentavo il quarto grado (la nostra quarta elementare, ndt). Fu la prima volta che lessi poesie, te ne posso citare una del poeta belga Mauricio Maiterlin, che lessi molto ben tradotto in spagnolo e fu un’esperienza decisiva. Eccola: Se arriverà un giorno che dovrò rispondergli … mostragli il mio anello d’oro/ digli che soffro per lui. Per me questa lirica contiene la fonte stessa di ciò che ho sempre ritenuto poesia. Era una poesia scarna, disadorna, rappresentava un avvenimento concreto, sulle tavole di un palcoscenico, come se fosse teatro. Sono le parole di una persona rivolte a un altro individuo, quella poesia m’impressionò molto, davvero.

MAZ – Ma il poeta, di vecchia o nuova concezione, credo che debba sempre leggere cose di diverso tipo, vero?

HP – Credo che il poeta debba leggere libri di ingegneria, persino di economia. A mio parere il linguaggio, come diceva Stendhal, non è sempre nei libri di letteratura, ormai dotati di una lingua consunta e ripetuta, mentre i libri di scienza possiedono la lingua necessaria per descrivere fenomeni concreti. Per esempio mi affascinano i termini degli economisti. Un cattivo investimento economico può deprimere un mercato. Mi sembra una frase incredibile, deprimere un mercato, ma a parte questo, in fisica, in chimica, non esistono altri modi per descrivere la realtà se non con la precisione e la precisione è fare di una lingua uno strumento di comunicazione. Ricordo che Stendhal diceva che lo stile è aggiungere a un pensiero determinato tutte le circostanze per cui quel pensiero produca l’effetto voluto. Tu ricorderai che uno dei modelli di Stendhal era il Codice Napoleone, che leggeva frequentemente, perché era un codice molto ben scritto.

MAZ – Credo che La certosa di Parma sia considerata un testo dalla struttura perfetta. Credi che sia concepibile fare poesia con tali caratteristiche? Pensi di poter scrivere una cosa simile, visto che una delle tue principali ricerche è la sintesi, la precisione delle parole? Credi di aver ottenuto tale risultato?

HP – Non so se l’ho ottenuto, ma il mio proposito quando scrivo una poesia è sempre quello di eliminare, di cancellare. Potrebbe essere anche un errore. Molte volte ho conservato con timore gli originali delle poesie che sono state pubblicate in volume, solo per vedere se mi sbagliavo, e credo di non essermi mai sbagliato, non perché ho fatto poesie molto buone, ma perché sarebbero state peggiori se le avessi mantenuto come le avevo concepite inizialmente. Non credo come Lope che la cosa migliore di un poeta sia non tanto quel che ha scritto quanto ciò che ha cancellato dopo, ma penso che un poeta sia tale nella misura in cui cancella ed elimina i vizi acquisiti con le sue letture. Heidegger diceva che lo stile di un poeta consiste nell’eliminare le influenze della sua adolescenza, cancellarle e ripulirle. Lo stile di una poesia genuina è un procedimento asettico, come una medicina. Tutti siamo pieni di vecchia retorica, ogni pensiero è intriso di luoghi comuni, che possono essere di diverso tipo. Ci sono molti luoghi comuni anche in letteratura. Per questo penso che la pulizia, l’eliminazione del superfluo, sia una delle cose fondamentali in una poesia, elemento essenziale perché un poeta possa scrivere una grande poesia.

MAZ – Voglio citarti, con tutto il rispetto che meritano, Góngora e Quevedo, che ho letto molte volte, come poeta, non come studente incaricato di scrivere un piccolo saggio. Ho trovato in entrambi uno stile rigoroso e un grande rispetto per la forma, solo che in Quevedo ho notato un modo di vedere le cose più metafisico, uno stile che si addentra maggiormente nella profondità dell’essere.

HP – Ti risponderò seriamente. Ho letto molto Góngora, come tutti noi, ma penso che questo poeta rappresenta un grande equivoco nella letteratura ispanica, non lui stesso, chiaro, come mai accade in un poeta che cerca ed esperimenta nuove forme. Sto parlando del góngorismo, della sua scuola, della direzione della sua poesia, perché credo che con Góngora comincia la decadenza della poesia ispanica. Non penso che la poesia sia una mistificazione permanente della realtà, non lo credo proprio. Per questo ritengo che il gongorismo sia un errore che continueremo a pagare per molto tempo. Non è piacevole dire queste cose, ma non posso fare altro. Quevedo è grande poeta, sicuramente lo preferisco. Intendiamoci, ci sono poesie di Gongora straordinarie; a me quel che proprio non piace di Gongora sono i suoi discepoli, la generazione del 27, coloro che prendono Gongora come un metodo e che lo fanno diventare una degradazione della lingua castigliana.

MAZ – Proprio tutti quelli del 27?

HP – Sì, tutti quelli del 27. Alberti, Aleixandre, ecc.

MAZ – Aleixandre in tutte le sue fasi?

HP – A me Aleixandre non interessa per niente. Se la poesia spagnola è Aleixandre  o Aliberti, si può prescindere dalla poesia spagnola e infatti il mondo ne sta facendo a meno. Non so se agli ispanici importa sapere che la poesia spagnola non interessa in nessuna parte del mondo. Abbiamo letto la poesia tradotta di Brecht, Stevens, Eliot, le opere dei poeti francesi, ma chi traduce i poeti spagnoli? E gli ispanici? Poche persone al mondo. E quando li traducono lo fanno con commiserazione. Questo è il mio pensiero anche se non mi fa piacere doverlo esprimere.

MAZ – Una delle tendenze della poesia attuale è la propensione a diventare discorsiva. La poesia contemporanea abbonda di dati, nomi di luoghi, ci sono molte parentesi che a volte sembrano eccessive. Io sono d’accordo con la forma discorsiva, ma dev’essere controllata, altrimenti…

HP – Trovo orribile l’abuso di parentesi e mi fa piacere sapere che la pensi come me. Le parentesi, nella poesia contemporanea ispanoamericana, servono ad accentuare la forma discorsiva. A mio parere si tratta soltanto di merda, come si dice in castigliano. Merda e non poesia.

MAZ – Perché si usa una simile tecnica?

HP – Serve per esprimere una sorta di disprezzo verso la forma letteraria, come diceva un cubano, Lezama Lima, è un modo per fare ironia su quel che accade. In ogni caso io penso che riveli le difficoltà dei poeti che scrivono in castigliano.

MAZ – A tuo  parere esistono anche parentesi necessarie?

HP – Certo. Sono le inevitabili parentesi di una riflessione intelligente. Ma quando la parentesi diventa una poetica, una sciocchezza ripetuta, non ha alcun valore. Bisogna evitare le parentesi. La poesia è un discorso concreto.

MAZ – Credi che il trattamento che il mondo riserva agli intellettuali che protestano contro un sistema sia diverso – nel bene o nel male – se questi ultimi provengono da società comuniste  o capitaliste? Perché Heberto Padilla è stato messo sotto processo a Cuba?

HP – Una denuncia fatta nei confronti del mondo capitalista riguarda un mondo ereditato, che non hai scelto, che hai ricevuto, dove puoi muoverti rifiutandolo o criticandolo, ma di cui non sei responsabile. Se tu scegli un processo rivoluzionario, come nel caso di Cuba, e quello è stato il mio caso, e fai parte di un processo che promuove un cambiamento radicale, significa che c’è una rottura con l’eredità, una frattura con le forme di Stato anteriori, che tu vuoi cambiare cercando un’alternativa politica. Pertanto sei responsabile di quel cambiamento e la tua situazione di intellettuale assume una connotazione quasi religiosa, nel senso che sei responsabile del cambiamento. Se a un certo punto, all’interno di quel gruppo di persone che sembrano approvare il cambiamento e le difficili politiche che comporta, emerge una voce non conforme, può essere la voce di un codardo, di un nemico, di un controrivoluzionario. Ecco perché si fa più attenzione a questa difformità di pensiero di quanto possa accadere in un paese capitalista, dove non essere d’accordo è un modo per costruire il futuro. Ora, io ho scoperto – come tutti se ne sono resi conto – che la Rivoluzione Cubana non è la risposta, non è la strada giusta per costruire il futuro. Ma uno scrittore che critica dall’interno il mondo comunista viene sempre attaccato – anche dall’esterno – in maniera forte, perché distrugge un sogno, una speranza, qualcosa alla quale la gente vuole credere per avere la possibilità di migliorare il proprio futuro. Le persone non vogliono ricevere cattive notizie da un mondo che considerano parte della loro speranza. Inoltre ritengo che in ogni fede politica ci siano persone stupide e intelligenti. I secondi riescono a dissociarsi dalla menzogna ideologica di un procedimento che ha tradito il progetto iniziale. I primi, come accade in ogni società, non dissentono, salgono sul carro e si ostinano a difendere con passione le menzogne che continuano a ritenere verità. Tutto questo accade anche nel capitalismo, nella religione…

MAZ – Leggi molto?

HP – Tutto quel che si pubblica e tutto quel che mi capita tra le mani. Non ho letture speciali. In questo momento prediligo testi in lingua inglese. Prima di cominciare questa intervista mi hai recitato una poesia di Blake: “The tiger”. A me interessa Blake come fenomeno storico, m’interessa persino politicamente, è un uomo che ha vissuto la Rivoluzione Francese, l’ha cantata ed esaltata, ma ha messo a nudo anche i suoi fallimenti morali. Blake ha inserito nella sua poesia il problema della politica concreta e quotidiana, portandolo su un piano metafisico. La sua figura è molto interessante.

MAZ – E la poesia giovane?

HP – Mi piace molto. Ho appena finito di redigere una recensione sui giovani poeti cileni che hanno realizzato un’antologia con traduzioni di White. Ho scritto che si tratta di un buon lavoro perché White ha la stesa età delle persone presenti nell’antologia, quindi la sua valorizzazione non viene fatta da un’altra generazione, ma dalla propria. Questa particolarità rende ancora più interessante l’antologia. Ho scritto anche che questi poeti scrivono come se Neruda, Gabriela Mistral, Huidobro non esistessero.

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