«Il giudice ragazzino» è il titolo di un libro scritto da Nando dalla Chiesa – sociologo e figlio del generale dei carabinieri assassinato dalla mafia insieme alla moglie- nel 1992 per la casa editrice torinese Einaudi. Un libro che ha contribuito a dare notorietà alla figura dell’uomo e del magistrato Livatino.
Il titolo riecheggia la definizione dell’allora Presidente della Repubblica Francesco Cossiga che parlando dei giudici in prima linea contro la mafia in alcune Procure siciliane, li definisce appunto, a causa della loro giovane età, «giudici ragazzini».
Rosario Livatino, nel 1991, a 37 anni è il più giovane dei ventisette magistrati uccisi in ragione del loro servizio. Laureatosi in Giurisprudenza a soli 22 anni con il massimo dei voti, era entrato in magistratura, tra i primi al concorso, nell’anno 1978, dopo aver già superato un altro concorso pubblico.
Ricevendo in udienza il 21 dicembre il cardinale Marcello Semeraro, Prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi, Papa Francesco ha autorizzato il Dicastero a promulgare i decreti relativi a un nuovo prossimo beato, appunto, il magistrato Rosario Livatino.
Papa Francesco riconoscendo il martirio del giovanissimo magistrato lo avvia all’onore e alla gloria degli altari come prossimo nuovo beato della Chiesa cattolica alias universale. Una vita tutta dedita allo studio del diritto, alla conoscenza – profonda, scientifica, acuta – del fenomeno mafioso. Una vita di studio e lavoro che riceveva linfa vitale dalla fede. Una virtù che lo rendeva attento al riconoscimento della «persona» – lemma, questo, di un ineffabile significato storico-giuridico-religioso – una virtù, come lo stesso magistrato scriveva, capace di dettare «alla legge un’anima».
È celebre un brano di un suo scritto, risalente agli anni Ottanta, ove sviluppa con intelligenza il tema della fede e del diritto: «Il compito […] del magistrato è quello di decidere; […] una delle cose più difficili che l’uomo sia chiamato a fare. […] Ed è proprio in questo scegliere per decidere, decidere per ordinare, che il magistrato credente può trovare un rapporto con Dio. Un rapporto diretto, perché il rendere giustizia è realizzazione di sé, è preghiera, è dedizione di sé a Dio».