Il 22 gennaio 1891 nasce ad Ales, tra Cagliari e Oristano, Antonio Gramsci, un uomo politico, un filosofo ed uno scrittore italiano. La sua prima formazione scolastica si svolge in Sardegna ma grazie a una borsa di studio, frequenta la facoltà di Lettere dell’Università di Torino, dove segue, fra gli altri, i corsi del linguista Matteo Bartoli e del dantista Umberto Cosmo. Nel 1914 è iscritto al Partito socialista e nel 1915 viene assunto nella redazione torinese dell’«Avanti!». Sempre a Torino, nel 1919, fonda il settimanale «L’Ordine nuovo». Nel 1921 promuove, insieme ad altri «compagni», la scissione del Partito socialista e la fondazione del Partito comunista d’Italia. Nel 1924 fonda il quotidiano «l’Unità». Nello stesso anno viene eletto deputato in Parlamento. Nel 1926, in violazione dell’immunità parlamentare, è arrestato dalla polizia fascista e processato per attività cospirativa e istigazione alla guerra civile. Alla conclusione del processo, nel 1928, viene condannato a vent’anni e recluso nella casa penale di Turi, in provincia di Bari. Nel 1929 inizia a scrivere i «Quaderni»: lo studio gli si presenta, all’inizio ma non solo all’inizio, come un «sistema di autodifesa contro il pericolo di abbrutimento da cui si sente minacciato».
Nei Quaderni di Gramsci, un «classico del pensiero» del Novecento, c’è una frase, tra le tante, che mi ha sempre colpito ed affascinato: «cultura, non è possedere un magazzino ben fornito di notizie, ma è la capacità che la nostra mente ha di comprendere la vita, il posto che vi teniamo, i nostri rapporti con gli altri uomini. Ha cultura chi ha coscienza di sé e del tutto, chi sente la relazione con tutti gli altri esseri».
Nel 1933, per gravi motivi di salute, è trasferito in una clinica di Formia e poi, in libertà vigilata, nella clinica Quisisana di Roma, dove muore quattro anni dopo. Le sue ceneri vengono inizialmente conservate al Verano e poi, per iniziativa della cognata Tatiana Schucht, trasferite al Cimitero acattolico di Roma, dove si trovano tuttora.
La figura di Antonio Gramsci è una figura centrale e fondante la cultura del nostro Paese. Ho posto al professore Salvatore Distefano (docente di Filosofia e Storia, è stato supervisore del tirocinio S.I.S.S.I.S. e del TFA presso Università degli Studi di Catania, collabora con l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, ed è Presidente dell’Associazione Etnea Studi Storico-filosofici di Catania) alcune domande attraverso le quali raccontare e ri-presentare una figura chiave della Storia, della Cultura, della Politica del Novecento: Antonio Gramsci.
R.: Ti ringrazio perché mi offri, con la tua intervista, la possibilità di poter riaprire la riflessione sulla straordinaria figura di Antonio Gramsci, uno dei più grandi pensatori del Novecento in Italia e nel Mondo. Pensare oggi a Gramsci significa non rassegnarsi, resistere, tenere aperta la contraddizione e la riflessione, riguadagnare uno sguardo sul futuro, senza mitologie né nostalgie, ma con la volontà e la capacità di tenere deste le tracce di un processo di trasformazione fondato non tanto su una fede, ma sulla passione razionale indispensabile per non essere inghiottiti dal conformismo esistente.
Così Gramsci scriveva alla cognata Tania nel 1929, che gli aveva donato i semi di alcune piantine in una delle sue prime visite a Turi: «la rosa è viva e fiorirà certamente, perché il caldo prepara il gelo e sotto la neve palpitano già le prime violette».
Voglio partire proprio dalla «Questione meridionale», perché il tema del Mezzogiorno possiede un rilievo specifico nel quadro della comprensione della storia del nostro Paese, rappresenta un nodo strategico di quella che è stata chiamata «la rivoluzione italiana». E se ciò è avvenuto in passato e avviene ancora oggi, possiamo dire che il merito più grande è di Antonio Gramsci, il quale fu capace di dare a tale quistione, come egli la chiamava, piena centralità al punto da definirla come la più grande «questione nazionale» dopo l’unità d’Italia.
Gramsci nei suoi scritti sul Mezzogiorno non riduce mai la società a quantità indeterminate o ad astratti redditi pro−capite, ma la sua ricerca è tutta tesa alla individuazione degli aggregati sociali esistenti nella grande disgregazione meridionale, al modo in cui gli strati sociali si collocano nell’unitario meccanismo capitalistico e nello stato borghese. Sulla base, infatti, dell’impostazione economicista sono state formulate le indicazioni dello «sviluppo dualistico», dello «squilibrio», del «decollo», del «meccanismo autonomo di sviluppo», indicazioni che di fatto servivano e servono per negare l’esistenza del meccanismo capitalistico esistente e suggerivano una impostazione di integrazione o unificazione nello stesso sistema.
Gramsci in pratica riassume con la sua posizione la storia italiana dalla fine della grande guerra all’avvento del fascismo e soprattutto cerca di capire quali possibilità si presentano al proletariato per un’azione che risulti efficace, mantenendo autonomia e indipendenza di classe.
D.: Nelle sue Lettere e nei Quaderni dal carcere – il «cuore» della sua intera opera – Antonio Gramsci afferma che «tutti gli uomini sono intellettuali, dal momento che non c’è attività umana da cui si possa escludere ogni intervento intellettuale, non si può separare l’homo faber dall’homo sapiens» in virtù di tale frase qual è oggi il peso che la figura di Gramsci ha nella cultura? Esiste ancora una cultura militante che fa riferimento a Gramsci?
R.: Gramsci pose con forza il ruolo degli intellettuali perché era molto attento alla questione dell’egemonia (le sue riflessioni su egemonia e dominio sono state fondamentali nel pensiero novecentesco) e affidava al proletariato il compito di disgregare il blocco borghese dominante a partire dalla frantumazione del blocco intellettuale «che è l’armatura intellettuale flessibile, ma resistentissima del blocco di potere della società italiana». Per fare questo occorreva operare la saldatura e la centralizzazione delle forze intellettuali con le nuove basi sociali operaie e contadine, ci voleva uno strumento nuovo rappresentato dal partito che diventava il contraltare, nella sua funzione dirigente, dei grandi intellettuali tradizionali. Dunque, per assolvere a questa sua funzione storica, il partito rivoluzionario deve saper conquistare gli «intellettuali», intendendo con questo termine non solo quei ceti a cui si riferiva questa denominazione, gli intellettuali di formazione umanistica, ma in generale «tutto lo strato sociale che esercita funzioni organizzative in senso lato, sia nel campo della produzione, sia in quello della cultura, e in quello politico-amministrativo». In pratica, questo nuovo tipo di intellettuale dovrà essere «specialista e politico», ossia saper unire il sapere pratico con la visione finalistica della storia: questo è per il Nostro l’intellettuale organico alla classe e al partito rivoluzionario. Peraltro, Gramsci rifiuta le deformazioni positivistiche, economicistiche e deterministiche, nonché quelle idealistiche, evidenziando l’importanza dell’umanesimo assoluto e dell’immanentismo storicistico, che «esclude la teologia e la trascendenza».
D.: Nell’odierna società «liquida» (Bauman), confusa e consumistica quale apporto educativo può dare concretamente l’opera e l’azione di un uomo che già «rimproverava» e denunciava letterariamente come «la vecchia generazione degli intellettuali (ad es. Papini, Prezzolini, ecc..), benché avesse avuto una giovinezza, fosse fallita. E se definiva la sua generazione come quella di «asini brutti anche da piccoletti» immaginiamoci cosa avrebbe detto di questa nostra odierna società?!
R.: L’apporto educativo di Gramsci, per passare alla seconda domanda, è stato grandioso. Basti pensare a ciò che c’è scritto nella nostra Costituzione a proposito dell’uguaglianza (art. 3), della cultura (art. 9) e della scuola (artt. 33 e 34), che sono senza dubbio il frutto della visione egemonica del Pci che traduceva sul terreno dell’azione politica, subito dopo la Seconda guerra mondiale, il pensiero del grande pensatore (e in un’altra occasione parleremo del pensiero e dell’opera di Concetto Marchesi, che ha contribuito alla concrezione dell’egemonia gramsciana). In particolare, negli anni Sessanta e Settanta nella scuola e nelle Università le grandi conquiste, gli avanzamenti sul piano dei contenuti e della didattica, la pratica inclusiva ed egualitaria, e via dicendo, sono state “buone pratiche” che hanno trovato riferimento nel pensiero e nelle concezioni della scuola espresse da Gramsci in tanti suoi scritti. Concezioni che bisognerebbe riprendere se non vogliamo definitivamente affossare il patrimonio che ci è rimasto.
D.: La complessa figura del filosofo Gramsci si può forse riassumere: «Tutto, in fondo, si declina in una azione». Oggi in politica, a scuola, nelle società che tessono questo universo le «azioni» sono spesso vacue e solamente spettacolari. Qual è l’essenza di un’azione gramsciana di cui forse oggi gli intellettuali, i politici, gli studenti, i lavoratori dovrebbero «cercare» e «attuare».
R.: L’attuazione e l’attualizzazione di Gramsci dovrebbe contemplare una concezione integrale dell’uomo, inteso nella sua essenza e non «come semplice canone di ricerca storica». Al tempo stesso, bisognerebbe realizzare la storicizzazione concreta della filosofia, cioè la sua identificazione con la storia, rifiutando qualsiasi metafisica perché «non si può essere filosofi, cioè avere una concezione del mondo criticamente coerente, senza la consapevolezza della sua storicità».
In un momento di grande isolamento e sfiducia, di ripiegamento individuale, di pessimismo e di impotenza, diventano importanti gli insegnamenti di Gramsci sull’azione dell’uomo nella realtà, soprattutto quando affermava: «Il singolo può associarsi con tutti quelli che vogliono lo stesso cambiamento, e se questo cambiamento è razionale, il singolo può ottenere un cambiamento ben più radicale di quello che, a prima vista, può sembrare possibile».
In momenti di grande confusione, come il nostro, figure come quella di Gramsci ci aiutano a pensare, a riflettere, a reagire. Di più. A prendere possesso – per dirla con una celeberrima frase senechiana – della propria personalità come conquista di coscienza superiore e di conoscenza come salvezza per comprendere e vivere, davvero e in pienezza, la nostra vita nel suo immenso valore storico che ha in sé.