Testamento spirituale di Julio García Espinosa che dirige la sua ultima fiction con una storia commovente dedicata al maestro del neorealismo Cesare Zavattini. La storia di Reina è un apologo per mostrare il contrasto tra quel che siamo e quel che vorremmo far trapelare all’esterno. Reina è una donna anziana che vive in una grande casa borghese del Vedado, avuta in eredità dai vecchi padroni per i quali lavorava come domestica. Reina dopo la morte del marito è rimasta sola, a darle sollievo c’è solo un cagnolino di nome Rey, ma il denaro non basta per mantenere entrambi, perché il periodo speciale colpisce duro. Reina è costretta a disfarsi del cane, su consiglio delle vicine di casa lo porta al canile, ma quando si rende conto che sta firmando la sua condanna a morte lo libera dalla catena. Il cane finisce per non fidarsi più della padrona, il magico rapporto che esisteva tra i due si rompe e un poco alla volta ognuno prosegue per la sua strada. Il cagnolino farà lunghe assenze da casa, tornerà soltanto per dormire, poi si perderà nella grande città e soltanto una volta rischierà di rivedere la padrona. Il ritorno dei vecchi proprietari della casa occupa la seconda parte del film, dove il regista racconta la nostalgia dei cubani che da tempo non rivedono la loro terra e il desiderio di recuperare il tempo perduto. I padroni vorrebbero portare a Miami anche Reina, ormai rimasta sola, ma lei rifiuta. Non possiede più il suo cagnolino, anche se non dispera di ritrovarlo, ma Cuba è la sua patria, il suo posto nel mondo, e non la lascerebbe mai.
Il primo tempo del film si ispira palesemente a Umberto D (1952) di Vittorio De Sica, sceneggiato da Cesare Zavattini, manifesto del neorealismo e della tecnica del pedinamento dei personaggi. Espinosa cita a più riprese intere sequenze della pellicola italiana e segue con la macchina da presa la vecchia Reina (il suo vero nome è Iolanda) negli atteggiamenti del quotidiano. Il primo tempo è girato in un evocativo bianco e nero, ricco di dissolvenze, con un fotografia intensa e ricca di chiaroscuri. La musica di Pablo Milanés è struggente e coinvolgente, accompagnamento ideale per una storia che scorre con lentezza ma coinvolge l’emotività dello spettatore. Espinosa realizza molti primi piani della protagonista mentre parla al suo cane e al tempo stesso riprende la vita di una città in crisi dove circolano poche auto e gli operai raggiungono il posto di lavoro in bicicletta. I personaggi di contorno sono ottimi e variegati: dalla vicina di casa Presidente del Comitato di Difesa della Rivoluzione, al ragazzo che vende roba rubata al mercato nero, per finire con la vicina controrivoluzionaria. Molto ben caratterizzati anche i vecchi padroni di casa che tornano da Miami, tra nevrosi borghesi, angosce di chi ha perduto il passato ed è consapevole che Cuba non è più la sua terra. Espinosa inserisce il personaggio della prostituta, una jinetera per turisti che Reina nella sua grande dignità disprezza, ma fa capire che pure lei ha un cuore, visto che soffre per la donna e per il cane. Nel 1993, anno in cui venne girato il film, cominciava ad aumentare il flusso turistico e il problema della prostituzione si faceva pressante.
I tempi della pellicola sono lenti, da cinema neorealista che riprende ogni momento della giornata, sia la ricerca del cibo nei negozi dove si compra con la tessera del razionamento come il black-out energetico per risparmiare elettricità. La crisi economica di una Cuba abbandonata al suo destino dopo la caduta del blocco sovietico e del muro di Berlino è simboleggiata da una donna che non riesce più a mantenere il suo cane. Non si trova niente, la benzina scarseggia e i mezzi di trasporto sono in piena crisi. Un cane è un lusso, sia per la vicina rivoluzionaria che dà la colpa di tutto agli yankee, sia per la vicina polemica che getta la croce sul governo.
La parte in cui Reina cerca di liberarsi del cane e subito dopo se ne pente è molto intensa ed è il momento in cui più si sente l’ispirazione al capolavoro di Zavattini – De Sica.
Ángel Alderete immortala da artista della fotografia alcune sequenze dell’Avana Vecchia, del Vedado e il lungomare che diventa una cosa sola con la protagonista in lacrime.
Il secondo tempo è girato a colori per una scelta tecnica e anche perché il discorso cambia radicalmente. Non troviamo più soltanto la storia d’amore tra cane e padrona, ma tornano a Cuba Emilio e Carmen – i vecchi proprietari della casa – e portano nuovi elementi di scompiglio nel quartiere. Emilio va a ballare al Tropicana, si invaghisce di una ragazzina e il giorno dopo si reca da un vecchio amore abbandonato al suo destino. Carmen ricorda con enfasi i posti della sua giovinezza, vuol rivedere ogni luogo, come se potesse riappropriarsi del passato grazie a una visita turistica. Il regista ne approfitta per curare un effetto cartolina realizzando una panoramica dei monumenti nazionali e dei luoghi simbolo dell’Avana: Capitolio, Floridita – con daiquiri alla Hemingway – e Malecón.
“Bisognerebbe riunire tutti i cubani, chi vive sull’isola e chi è andato via”, afferma Carmen. Sono i pensieri del regista e di molti intellettuali contemporanei che non demonizzano i cubani della diaspora ma sognano un futuro di unità e concordia.
“Tutti vogliono scappare dal paese. All’Avana sembra caduta una bomba atomica”, dice Emilio.
L’esilio può essere una scelta, ma non per Reina che ama la sua terra e decide di restare, pur tra mille difficoltà, forse perché spera di ritrovare il cagnolino, ma soprattutto non saprebbe cosa fare a Miami. Il primo piano di un volto in lacrime che esprime un sentimento di dolore e speranza è la fotografia d’una pellicola agrodolce capace di raccontare il disagio vissuto dai cubani nell’ultimo decennio.
Se dobbiamo trovare un difetto a una pellicola di grande valore come Reina y Rey sono le due parti scollegate che mancano di uniformità. Ma è un difetto che si perdona a un film suggestivo e denso di sentimenti che infonde un senso di nostalgia ogni volta che sono in primo piano le note suadenti di Iolanda cantante dalla voce di Pablo Milanés.
Il finale è puro cinema. Reina attende sulla porta, piange e guarda verso il futuro. Sa che restando ha fatto la scelta giusta. Il critico cubano Amarilis Terga Oliva afferma: “Reina y Rey occupa un posto rilevante nella storia cinematografica degli anni Novanta, perché si fa portavoce della necessità di salvarci come nazione attraverso il riconoscimento profondo dei nostri valori contenuti nell’identità e nella spiritualità collettiva. Julio García Espinosa utilizza la solitudine di un’anziana come parabola per rappresentare il panorama della società cubana durante i primi anni Novanta. La conclusione è che non è possibile distruggere una società forte, perché anche il dolore è un segno di maturità, nonostante il pianto e la nostalgia”.
Regia: Julio García Espinosa. Durata: 100’. Soggetto e Sceneggiatura: Julio García Espinosa, con la collaborazione di Ángel Alderete. Produzione: Evelio Delgado. Produttori: ICAIC (Cuba), IMCINE (Mesico), Telemadrid, Televisión Galicia, SGAE (Spagna). Distribuzione: Distribuidora Internacional de Películas ICAIC. Fotografia: Ángel Alderete. Montaggio: Gloria Argülles. Musica: Pablo Milanés. Suono: Carlos Fernández. Interpreti: Consuelo Vidal, Coralia Veloz, Rogelio Blaín, Mirian Socarrás, Celia García e il cagnolino Cappuli. Alcuni Premi: Miglior Sceneggiatura Inedita, Festival Internazionale del Cinema Latinoamericano (1993); Miglior Lungometraggio, Festival del Cinema Ispanoamericano di Huelva (1994); Menzione della Giuria, Festival Internazionale Nuovo Cinema Latinoamericano (1994); Miglior Attrice Protagonista (Consuelo Vidal) e vari riconoscimenti agli attori di secondo piano, Festival UNEAC del Cinema, Radio e Televisione (1995); Miglior Lungometraggio, Festival del Cinema Ispanoamericano di Huelva (1995); Miglior Interpretazione Femminile, Festival International du Film d’Amiens (1995); Miglior Pellicola e Miglior Attrice, Festival Internazionale del Cinema di Cartagena de Indias (1995).