Lista de espera è una commedia sociale, a metà strada tra il realismo e il fantastico come tutti i migliori film di Juan Carlos Tabío, basata sul racconto omonimo di Arturo Arango. Si tratta di uno di quei rari casi nei quali la magia del cinema valorizza al massimo la narrativa, migliorandone impianto e struttura.
L’azione si svolge in una stazione di autobus di un piccolo paese della campagna cubana, situato tra L’Avana e Santiago. Molti passeggeri attendono l’arrivo di un autobus che possa portarli a destinazione, ma le corse sono poche e i posti liberi ancora meno. L’amministratore della stazione tenta di riparare un vecchio autobus scassato, ma il motore sembra fuso, anche se non tutti ne sono convinti. Quando i viaggiatori decidono di tornare a casa, il giovane Emilio esorta tutti a escogitare una soluzione, soprattutto per poter passare ancora un po’ di tempo con la bella Jacqueline. Il sogno si fonde con la realtà e una lunga parte onirica ci mostra come la parte migliore degli esseri umani potrebbe fare miracoli. Tabío ricorre allo stratagemma cinematografico del finto risveglio e del sogno che tutti i personaggi vivono come se fosse realtà, perché alla fine ricordano ogni passaggio. La stazione di autobus si trasforma in una società primordiale, una sorta di comune all’interno della quale l’uomo nuovo condivide tutto, lavora per costruire qualcosa di bello e di unico. Alla fine la triste realtà risveglia dal sogno, tutti tornano ai problemi del quotidiano, l’amore tra Jacqueline ed Emilio sembra finire per colpa di uno spagnolo che deve sposare la ragazza e portarla via da Cuba. La speranza non muore, comunque, perché nell’ultima sequenza Emilio sente la voce di Jacqueline mentre chiede l’ultimo per mettersi in fila. Forse ci ha ripensato e non è partita, forse è soltanto un sogno a occhi aperti. Il regista lascia nel dubbio e chiude il film inquadrando gli occhi sorridenti di Emilio. Juan Carlos Tabío gira un piccolo capolavoro che incanta il pubblico del Festival di Cannes e viene distribuito persino in Europa. Abbiamo visto in sala una buona versione doppiata in italiano (Lista diattesa) che sconsigliamo a chi conosce lo spagnolo perché fa perdere la spontaneità dei dialoghi e molte espressioni intraducibili. Gli attori sono molto bravi. Tahimí Alvariño interpreta la cubana combattuta tra partire e restare, Jorge Perugorría è un finto cieco che cita battute di Gassman prese da Profumo di donna (1974) di Dino Risi, mentre Vladimir Cruz è il cubano innamorato che resta nella sua patria a lavorare i campi pure se ha studiato per fare l’ingegnere. Sono ottimi anche gli interpreti dei ruoli minori, perché Tabío, Arango e Paz realizzano una carrellata esemplare di personaggi cubani ispirati alla realtà. Vediamo il profittatore egoista che vende merce rubata al mercato nero, non condivide niente con gli altri, ma sfrutta la situazione. Un finto cieco rappresenta l’astuzia cubana, la persona che si ingegna per trovare una soluzione in mezzo alle difficoltà, ma possiede un cuore perché condivide le aragoste e rinuncia a fingersi invalido perché non ritiene giusto imbrogliare una donna incinta. Un ottuso burocrate rappresenta la mancanza di fantasia, gli ostacoli che la rivoluzione pone a se stessa per gli eccessi di formalismo. Altri spaccati della Cuba quotidiana sono gli anziani pieni di voglia di vivere, i giovani che si adattano ma sognano la carne, i ragazzini che inventano giochi, i cubani che mangiano, ballano salsa improvvisata e fanno il bagno sotto la pioggia. Juan Carlos Tabío stigmatizza la crisi dei trasporti a Cuba e la mancanza di pezzi di ricambio (“Dalla Russia non possono più venire e dagli Stati Uniti non sono mai arrivati”, dice l’amministratore), ma sparge germi di speranza. Tutti uniti possiamo farcela, sembra dire, anche se alla fine il successo si stempera nel sogno e nasconde una velata critica al sistema, meravigliosa utopia distrutta dalla triste realtà. L’egoismo e l’individualismo non portano a niente. Un personaggio che osserva la ressa per accaparrarsi un posto sull’autobus si chiede: “Ma questo è un paese socialista o capitalista?”. La solidarietà è un valore che non va dimenticato e durante la lunga attesa sembra risorgere dalle ceneri degli egoismi umani. Il sesso è un altro elemento importante della pellicola perché è un valore fondamentale della società cubana e il regista lo inserisce ricorrendo al personaggio del cieco che soffre per non vedere le donne, ma ne sente il profumo. La storia d’amore tra Jacqueline ed Emilio – non sappiamo se onirica o reale – è carnale e intensa, ma fatta anche di parole dolci, di danza, di condivisione e di piccole liti. “Tu vai in Spagna e io vado a Santiago a lavorare i campi. Questa è la differenza tra noi”, dice il ragazzo con una punta di risentimento verso chi sembra tradire la patria. La parte onirica è molto ben fatta, fotografata sulla riva del mare in un mattino tropicale dalla luce intensa, raccontata con dolcezza e sottolineata da una suadente colonna sonora. I cubani si ingegnano, fanno un pranzo con un minestrone di erbe e qualcuno divora il gatto dell’amministratore prima di scoprire le aragoste. La condivisione tra poveri è una caratteristica del popolo cubano, il regista la mette bene in evidenza durante le sequenze del pranzo e quando il gruppo decide di ricostruire la stazione decrepita. La salsa Langosta Terminal è ironica e divertente, sottolinea i momenti più divertenti di una pellicola che rappresenta bene la vita perché sa essere al tempo stesso dolce e amara. “Possiamo costruire un mondo migliore”, afferma l’amministratore durante una cerimonia funebre surreale che si tiene nel sogno. I cubani uniti possono fare molto per la loro terra, ma devono rendersi utili e non restare indecisi come Jacqueline davanti alla scelta tra fuggire e restare. La pellicola può essere vista come un racconto onirico sull’intera esperienza rivoluzionaria, che mette in evidenza le cose fatte e quelle che si sarebbero potute fare. Tabío si ispira al realismo magico e segue l’idea cinematografica del maestro Tomás Gutiérrez Alea, a cui dedica il lavoro. La poetica di Tabío è originale perché in ogni suo lavoro il confine tra realtà e fantasia è molto labile, spesso i piani si intersecano e si compenetrano, rendendo difficile – se non inutile – separare i momenti. Il regista pare sottolineare che il cinema è finzione, sogno, rappresentazione di una realtà che si stempera con la parola fine e muore con le luci che si accendono in sala.
Regia: Juan Carlos Tabío. Durata:106’. Produzione: Tornasol Films (Spagna), ICAIC (Cuba), DMVB Films (Francia), Tabasco Films, Producciones Amaranta, con il sostegno di Canal Più e Ibermedia (Spagna). Distribuzione: Distribuidora Internacional de Películas ICAIC. Produttori: Camilo Vives, Jorge Sánchez, Humberto Hernández, Belén Bernuy. Soggetto e Sceneggiatura: Juan Carlos Tabío, Arturo Arango, Senel Paz. Fotografia: Hans Burmann. Montaggio: Carmen Frías. Musica: José M. Vitier. Canzoni: Silvio Rodríguez e Amaury Perez. Suono: Jorge Ruiz. Interpreti: Tahimí Alvariño, Vladimir Cruz, Jorge Perugorría, Alina Rodríguez, Noel García, Coralia Veloz, Mijail Mulkay. Alcuni Premi: Premio Goya per la miglior pellicola straniera in lingua spagnola (2001); Miglior interpretazione Femminile per Tahimí Alvariño al Festival del Cinema di Malaga (2000); Premio del Ministro per la Cultura e del pubblico al Festival di Cannes (2000); Secondo Premio al Festival del Cinema di Lima, Perù (2000); Premio Miglior Sceneggiatura al Festival del Nuovo Cinema Latinoamericano dell’Avana (2000); Premio UNEAC per la miglior regia, e per la miglior scenografia (2001); Premio per la Miglior Interpretazione Maschile a Jorge Perugorría al Festival di Cinema di Cartagine, Colombia.