Il film “L’uomo col cilindro”, del giovane regista sipontino Stefano Simone, sembra la trasposizione di una di quelle leggende urbane riguardanti l’uomo nero. Il lungometraggio racconta le brevi disavventure di due amiche (Natalie e Rosa) che, per lavoro, dovranno recarsi in una villa abbandonata (Villa Rosa) per poter completare il loro reportage fotografico. Le ragazze si imbatteranno in un’oscura figura.
Qualcuno potrebbe immaginare che il protagonista sia, come ricorda il titolo del film, l’uomo con il cappello (un uomo, uno spettro o un’ombra, questo lo interpreterà l’astante), il quale appare poche volte, ma che riesce a trasmettere allo spettatore la giusta apprensione nell’evoluzione della narrazione e la cui presenza aleggia per tutta la durata del film, facendo credere al pubblico che il suo ingresso in scena possa avvenire in qualsiasi momento.
Ma, a parer mio, non è così. Sono molti i protagonisti. Lo sono anche le due ragazze, ma lo è anche il luogo. Infatti, può essere definita protagonista anche l’ormai desolata Villa Rosa. Una location che non ha avuto bisogno di nessuna correzione scenografica, poiché si innesta perfettamente nella trama così com’è e che, nelle sapienti inquadrature del regista, riesce a trasmettere la giusta suspense. Interessanti sono anche le scene girate presso il binario ferroviario abbandonato, nella periferia di Manfredonia (che attraversa un ambiente circostante rustico), che porta alla villa. Mentre il film scorre in maniera abbastanza gradevole, risultano ben descritte le sensazioni che, di volta in volta, provano le attrici, Rosa e Natalie, a seconda della situazione in cui si trovano. I dialoghi, molto brevi, potevano essere approfonditi e migliorati. A fare da collante, una colonna sonora ineccepibile che riesce ad avvolgere con il velo del mistero la pellicola e a contribuire nel coinvolgere, quasi in prima persona, lo spettatore.