Il senso degli eventi. Il mio 23 maggio e gli anni seguenti

Articolo di Luigi Perollo

Alla fine la paura arrivò, lo fece prendendomi allo stomaco sul finire di quel pomeriggio iniziato assecondando la routine. Ero uscito dalla redazione in compagnia del mio operatore per un servizio sull’inaugurazione della Fiera del Mediterraneo e invece quando la paura iniziò a mordere, i vigili del fuoco stavano aprendo un tratto di guardrail per consentire a chi si trovava in autostrada provenendo da Palermo di poter fare ritorno in città. Cercai di dare un senso a quella paura e realizzai che non sarei stato in grado di raccontare e di spiegare ciò che avevo visto, ciò che avevo udito, ciò che avevo annusato; dissi a me stesso che non possedevo gli strumenti per “collocare” in quadro preciso la morte del giudice Giovanni Falcone, di sua moglie Francesca Morvillo e dei tre agenti di scorta di cui, in quel momento neppure conoscevo i nomi perché i loro colleghi, singhiozzando davanti a quella Croma con le ruote all’insù, catapultata in un oliveto, non erano riusciti a pronunciarli.

L’attentato a Giovanni Falcone divenne, nel giro di poche ore, “la strage di Capaci” e nel giro di poche ore io iniziai a mettere ordine nelle immagini che mi erano passate davanti: la corsa in auto incollati dietro alla macchina del Prefetto di Palermo “che andava lì dove era accaduto qualcosa”, la frenata causata dai detriti sulla sede stradale, la corsa a piedi – tenendo la telecamera bassa e disattivando il led rosso di ripresa – le ambulanze che correvano verso Palermo sulla nostra stessa corsia, il cratere causato dall’esplosione con quella Croma bianca priva del motore sul ciglio, il rumore delle cesoie dei vigili del fuoco che aprivano la Croma con i corpi degli agenti di scorta ancora lì dentro, gli elicotteri che volteggiavano sulle nostre teste, la gente impazzita.

Rimasi qualche minuto anche io sul ciglio del cratere, incredulo nel vedere un pezzo di autostrada cancellato da un’esplosione, le auto sommerse dai detriti, altre auto su un fianco, agenti della Polizia di Stato e Carabinieri che piangevano con la testa tenuta fra le mani e quella Croma bianca a due metri da me: ormai lo avevo capito, era l’auto in cui c’era Giovanni Falcone, qualcuno mi disse che guidava lui, accanto la moglie e dietro l’autista giudiziario Giuseppe Costanza. Venticinque anni dopo fu Angelo Corbo, uno degli agenti di scorta di Giovanni Falcone, a farmi capire cosa accadde subito dopo le 17.58 di quel 23 maggio: “Insieme agli altri due colleghi, Paolo Capuzza e Gaspare Cervello, riuscimmo a uscire dall’abitacolo dell’auto con fatica, perché tramortiti, feriti e sanguinanti.

Pur rendendoci conto di quello che era successo, della catastrofe immensa, continuammo a fare quello che dovevamo fare, ovvero proteggere. Ognuno di noi prese l’arma di ordinanza e ci mettemmo intorno alla Croma bianca in attesa non dei soccorsi ma dei cattivi, dei mafiosi, o chi per loro. Sicuramente erano lì ad osservarci e sapevamo che sarebbero scesi per guardare da vicino e dare il colpo di grazia. Pensavamo di essere destinati a morire e probabilmente i mafiosi erano mescolati con le prime persone del posto che si avvicinarono a noi. Si resero conto che il giudice Falcone, anche se respirava ancora, era come se fosse già morto. Credo che sia stato per quel motivo che non ci hanno dato il colpo di grazia. Io mi posizionai, insieme al collega Cervello, accanto allo sportello lato guida, dove c’era Giovanni Falcone, e non potrò mai dimenticare quel suo sguardo, rivolto a noi, quasi implorandoci con gli occhi di dargli aiuto, un aiuto che in quel momento non gli potevamo dare”.

© LANNINO & NACCARI / STUDIO CAMERA

Ho ascoltato il racconto di Angelo Corbo con grande imbarazzo perché in quella Croma con lo sportello ormai aperto e adagiato sul terriccio misi istintivamente la testa: ero lì, nessuno mi disse nulla, nessuno mi allontanò, nemmeno il Prefetto Mario Iovine che urlava ossessivamente nel suo cellulare. Ricordo le chiavi inserite nel cruscotto, una scarpa, fogli sparsi e un forte odore sigaretta che non ho più dimenticato.

Tornai a casa a notte fonda, dopo essere andato in onda per la prima volta in vita mia per un’arraffazzonata edizione straordinaria in cui riferii la cronaca e ciò che avevo visto, senza poter offrire un’analisi o una traccia per elaborare un senso di ciò che era accaduto. A casa incrociai lo sguardo di mio padre, aveva seguito tutti i tg e sapeva che ero lì anche se non lo avevo avvertito (non ci avevo proprio pensato): non disse nulla, capii che mi invitava a riposare e che mi avrebbe aiutato a dare un senso a tutte le cose.

Mio padre mi aiutò come solo un padre sa fare e un mese dopo mi aiutò anche Paolo Borsellino: prendeva parte alla fiaccolata che il 20 giugno l’Agesci, la più grande associazione scout italiana, aveva organizzato per le vie del centro storico di Palermo, da piazza Magione (il luogo dove Borsellino e Falcone erano nati) sino alla basilica di San Domenico (dove dal 2017 Giovanni Falcone riposa). Un capo scout palermitano, Giulio Campo, oggi responsabile dell’Agesci siciliana, chiese a Paolo Borsellino cosa potesse fare lo scautismo contro la mafia: “Noi arrestiamo i padri, voi educate i figli” fu la risposta del magistrato; poi mi feci avanti io dopo aver acceso il microfono, chiesi a Paolo Borsellino la cortesia di un’intervista e lui, spegnendo la sigaretta iniziò a misurare ogni singola parola, ogni pausa, come se stesse dettando un compito scritto: “Credo che la presenza di tutti questi scout possa offrire un senso accettabile alla morte di Giovanni Falcone, di Francesca Morvillo e degli agenti della loro scorta”.

“Accettabile”: penso spesso alla scelta di quell’aggettivo qualificativo, come dire che siamo a un buon punto di partenza ma che si deve fare di più, si deve fare ancora meglio. Però, probabilmente, l’uomo che era davanti a me cercava di convincersi che la morte di un amico fraterno, prima ancora che di un collega, poteva essere accettata solo se questa fosse riuscita ad accendere una catena di reazioni e di eventi: l’indignazione corale e la presa di coscienza di un intero Paese, un ulteriore slancio nell’azione investigativa e repressiva contro il fenomeno mafioso, l’affermazione di tanti impegni positivi per contrastare la mafia. Non ho avuto l’opportunità di approfondire, non ho più avuto la possibilità di incontrare Paolo Borsellino nei giorni seguenti, però quella domanda mi è tornata in mente un mese dopo in via D’Amelio, mentre lo osservavo impietrito prima che arrivasse un lenzuolo per coprirlo; del resto, mi ero posto una domanda simile – anche se con aggettivi e sostantivi diversi – proprio due mesi prima a Capaci, osservando quella Croma bianca sul ciglio del cratere.  

Continuo a domandarmi quanto (e come) si riesca a dare un senso “accettabile” ai lutti e alle tragedie causate dalla mafia, ai guasti che la mentalità mafiosa produce, all’ossigeno che Cosa nostra toglie all’economia legale della nostra regione e al futuro delle nuove generazioni. Credo che l’elaborazione della risposta non sia complessa perché rimanda senza fermate intermedie a quella che da qualche anno definisco una “prassi quotidiana” che renda l’antimafia (concetto quanto mai etereo) un fatto concreto, tangibile, misurabile e dimostrabile, ciascuno per la propria parte.

Negli anni successivi alle stragi del 1992 ho scritto tanto, era il mio lavoro ed era mio dovere farlo: ho scritto delle numerose indagini, ho iniziato a connettere le stragi di quel periodo con la sequenza di attentati del 1993, con l’omicidio di Salvo Lima, con la conferma in Cassazione della sentenza del primo maxiprocesso (istruito da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino), ho cercato di entrare dentro lo sguardo di Giovanni Brusca la sera che lo arrestarono, ho conosciuto e raccontato diverse storie, ho seguito i procedimenti giudiziari, ho scoperto quasi per caso, rivedendo i frame dei nastri, di possedere la sequenza di immagini che ritrae l’allora capitano dei carabinieri Giovanni Arcangioli con in mano la borsa di pelle di Paolo Borsellino nell’inferno di via D’Amelio. Soprattutto ho cercato – e continuo a farlo – di dare un senso a quegli eventi e di non disperdere la memoria, con tutti i mezzi a mia disposizione come le colonne di un quotidiano o di un sito, un servizio televisivo, l’incontro diretto con i ragazzi che nel 1992 non erano ancora nati.

Diversi anni fa, con il collega Roberto Alajmo, ho raccolto alcune storie di vittime della violenza mafiosa (magistrati, uomini di chiesa, giornalisti, rappresentanti delle istituzioni) per un testo teatrale che abbiamo chiamato “il dovere della scemenza” perché si racconta di gente che per fare il proprio dovere ci ha rimesso la vita, convinta di dover fare la propria parte fino in fondo, anche se si fosse trattato di svuotare l’oceano con un cucchiaino; ma è forse proprio questa sana scemenza che oggi ci aiuta a dare un senso alla cose che abbiamo vissuto e che abbiamo conosciuto, la scemenza di chi sa coltivare prospettive, di chi sa sognare. Il testo si chiude con le parole di Paolo Borsellino che parla del suo collega morto a Capaci: “Giovanni Falcone lavorava con perfetta coscienza che la mafia lo avrebbe un giorno ucciso.

Francesca Morvillo stava accanto al suo uomo con perfetta coscienza che avrebbe condiviso la sua sorte. Gli uomini della scorta proteggevano Falcone con perfetta coscienza che sarebbero stati partecipi della sua sorte. Non poteva ignorare – e non ignorava – Giovanni Falcone, l’estremo pericolo che cor­reva, perché troppe vite di suoi compagni di lavoro e di suoi amici erano state stroncate sullo stesso percorso che egli si imponeva. Perché non è fuggito, perché ha accettato questa tremenda situazione, perché non sì è turbato, perché è stato sempre pronto a rispondere a chiunque della speranza che era in lui? Per amore, per un atto d’amore verso questa sua città, verso questa terra che lo ha generato.

Occorre dare un senso alla morte di Giovanni, alla morte della dolcissima Francesca, alla morte dei valorosi uomini della sua scorta. Sono morti per tutti noi e per gli in­giusti, e abbiamo un grande debito verso di loro e dobbiamo pagarlo gioiosamente, continuando la loro opera, facendo il nostro dovere, ri­spettando le leggi, anche quelle che ci impongono sacrifici; rifiutando di trarre dal sistema mafioso i benefici che potremmo trarne (anche gli aiuti, le raccomandazioni, i posti di lavoro); collaborando con la giustizia, testimoniando i valori in cui crediamo, in cui dobbiamo credere, anche dentro le aule di giustizia; troncando immediatamente ogni le­game di interesse, anche quelli che ci sembrano più innocui, con qual­siasi persona portatrice di interessi mafiosi, grossi o piccoli; accettando in pieno questa gravosa e bellissima eredità di spirito. Dimostrando a noi stessi e al mondo che Falcone è vivo”.  

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