Gli sviluppi della prosa nell’Ottocento sono di enorme importanza, perché questa è l’epoca in cui si fonda la moderna letteratura narrativa, attraverso due svolte fondamentali legate a Giovanni Verga e ad Alessandro Manzoni. Manzoni riuscì a rinnovare il linguaggio del genere “romanzo”, ma anche della saggistica, avvicinando decisamente lo scritto al parlato. Verga dimostrò di comprendere le ragioni linguistiche manzoniane, per questo si recò a Firenze ricevendo lì le intuizioni giuste per la sua nuova poetica, ma non diventerà mai un convinto manzoniano.
Manzoni ebbe il grande merito di aver affrontato la questione della lingua a partire dalle sue necessità di romanziere. Iniziò ad occuparsi del problema della prosa italiana fin dal 1821, con la stesura del Fermo e Lucia, redazione iniziale dei Promessi Sposi. La prima fase del suo lavoro si riflette in una lettera al Fauriel (3 novembre 1821) e viene definita come <<eclettica>> perché egli cercava di raggiungere uno stile moderno mediante il ricorso a vari elementi, utilizzando il linguaggio letterario ma, come sottolinea il grande linguista Claudio Marazzini in La Lingua italiana, senza vincolarsi ad esso alla maniera dei puristi, anzi accettando sia francesismi che milanesismi.
Manzoni stesso descriveva la sua lingua letteraria e nella seconda introduzione al Fermo e Lucia del 1823, lo fece preoccupandosi di prendere le distanze dallo stile “composito” e non accettando la propria naturale tendenza al dialettismo, anzi ammettendo inoltre il proprio fallimento: <<Scrivo male: e si perdoni all’autore che egli parli di sé […]>>. Nel Fermo e Lucia, infatti, possiamo vedere affiorare termini dialettali toscani e lombardi. Manzoni stesso definì come toscano-milanese la seconda fase della sua produzione letteraria, che corrisponde alla stesura dei Promessi Sposi per l’edizione del 1825-1827.
Lo scrittore si impegnava ad utilizzare una lingua genericamente toscana, ottenuta attraverso vocabolari o spogli lessicali secondo un metodo documentato anche dalle postille alla sua copia del Vocabolario della Crusca nell’edizione veronese di Cesari. Molte di queste postille presentano palesemente il fastidio dello scrittore, che, dopo aver consultato testi e vocabolari, non era ancora in grado di sapere con certezza se le forme linguistiche che lo interessavano fossero vive o già datate. In molte postille dimostra di essere attirato dalle concordanze tra dialetto milanese e linguaggio fiorentino e si serve di tutto ciò che conosce, il dialetto, il francese, per approfondire la sua conoscenza del toscano.
Ma questa tipologia di studio non poteva soddisfarlo. Infatti maturò un concetto di “uso” della lingua molto più dinamico e innovativo. Nel 1827 fu a Firenze e il contatto vivo e concreto con la lingua toscana suscitò in lui una reazione decisiva, infatti in una lettera del 1828 a Leopoldo II di Toscana parla della <<delizia di vivere in codesta lingua>>. Dal 1830 la riflessione linguistica di Manzoni si sviluppò con maggior impegno, sia nelle varie stesure del trattato Della lingua italiana, sia nel Sentir messa. L’esito di questa idea linguistica fu la nuova edizione dei Promessi Sposi, nel 1840-1842, la “risciacquatura di panni in Arno” corretta per adeguarla all’ideale di una lingua d’uso, resa appropriata, semplice, e purificata dai dialettismi. Nel 1847, in una lettera al lessicografico piemontese Giacinto Carena, Manzoni riferì ed espose la propria posizione definitiva, auspicando che la lingua di Firenze completasse tale opera di unificazione che già in parte si era realizzata, proprio sulla base di quanto vi era di profondo e vitale nella lingua letteraria toscana.