Innanzitutto mi presento: mi chiamo Paolo Nebbia e sono nato a Roma nel 1992. Mi sono laureato in Filologia moderna presso l’Università “La Sapienza” con una tesi dantesca dal titolo “Il termine fede nel Paradiso: analisi dei canti VI, XXIV e XXXII” e da quattro anni insegno Lettere italiane e latine e Geostoria in un liceo romano. Il mio primo incontro con Dante risale ai tempi del liceo. Devo essere sincero: non fu amore a prima vista! Il fatto di doverlo leggere, piuttosto che poterlo leggere, fece sì che la passione non scoccò immediatamente. Eppure, quelli furono gli anni della “semina”: studiandolo a scuola, dentro di me un sottile fascino nascosto aveva già incominciato ad insinuarsi. Quei versi mi parlavano, anche se io non ero ancora pronto ad accogliere il loro messaggio. Così, come spesso accade per ciò che di bello si studia a scuola, ho avuto modo di (ri)scoprire Dante soltanto successivamente, negli anni universitari.
Mi capitò di partecipare ad un incontro sul tema educativo tenuto dal Prof. Franco Nembrini: proprio in quella circostanza acquistai il suo libro che rileggeva e commentava alcuni canti dell’Inferno dantesco. Nell’arco di pochi giorni lo lessi e ne rimasi talmente colpito che mi precipitai in libreria per acquistare gli altri due volumi, dedicati al Purgatorio e al Paradiso. La lettura di quei tre libri risvegliò in me quel quid che aveva già provato ad intercettarmi negli anni liceali. E poi, si sa, nulla accade per caso: proprio in quelle settimane stavo compilando il piano di studi della Magistrale e in un corso che aveva in programma tutta la Commedia dantesca vidi senza alcun dubbio l’occasione giusta nel momento giusto. I mesi che dedicai alla preparazione di quell’esame furono fantastici e si realizzò in me qualcosa di prodigioso: più leggevo i suoi versi e più mi rendevo conto che in realtà era Dante che stava leggendo dentro di me tutti quei sentimenti fino a quel momento incompresi e tutti quei pensieri dimenticati che vagavano timorosamente nel baratro della mia coscienza. Dante parlava di me, Dante parlava a me. E mi diceva qualcosa di importante: “Paolo, non disprezzare le tue sconfitte, i tuoi dolori, le tue delusioni. Utilizzali per crescere e per far crescere chi ti sta attorno!”.
E da allora una parte di me, la più importante, è iniziata a cambiare. Questo processo trasformatore e trasformante ancora oggi va avanti, ma so con certezza da quando è cominciato. Sono innumerevoli le terzine dantesche a cui sono legato, ma i versi che mi stanno guidando in assoluto più di altri nel mio lavoro di ricercatore e soprattutto di docente sono i seguenti: “Ma nondimen, rimossa ogne menzogna, / tutta tua visïon fa manifesta; / e lascia pur grattar dov’è la rogna. / Ché se la voce tua sarà molesta / nel primo gusto, vital nodrimento / lascerà poi, quando sarà digesta” (vv. 127-132, Par. XVII). In questi sei versi, che si trovano nella sezione conclusiva del lungo dialogo (iniziato nel canto XV) fra Dante e il suo avo Cacciaguida, a mio parere sono condensati alcuni principi formativi basilari.
Innanzitutto, nel breve passo in questione, Cacciaguida sta aiutando Dante a liberarsi da dubbi e timori che rischiano di bloccarlo nel suo mandato poetico e profetico. Il tema della missione, del combattere per lasciare una traccia di noi nella vita terrena, è latente in questo trittico di canti, che non a caso si trovano strutturalmente proprio al centro del Paradiso, come se la posizione volesse anch’essa sottolinearne l’importanza. Tutti noi abbiamo bisogno di sapere che c’è un incarico da portare avanti in questa vita, un mandato che nessuno potrà compiere al nostro posto. Dopo aver preso coscienza di essere stati inviati sulla terra, e non di esserci capitati, siamo chiamati a chiederci con regolarità se stiamo viaggiando sul binario giusto o se stiamo deragliando. Ma la via che dovremmo percorrere non è soltanto diritta (Inf. I, v. 3), è anche verace (Inf. I, v. 12), ecco perché vale la pena impugnare quotidianamente la spada e combattere contro falsità ed inganni (“rimossa ogne menzogna”), raccontando ciò che ci è stato rivelato (“tutta tua visïon fa manifesta”) senza il timore che possa suscitare rabbia o fastidio in qualcuno (“lascia pur grattar dov’è la rogna”). Dai bocconi amari (“se la voce tua sarà molesta / nel primo gusto”) spesso può scaturire una crescita (“vital nodrimento”), e quando questa crescita assume un valore decisivo per la nostra salvezza, ci ritroviamo tutti quanti ad avere un certo riconoscimento anche per gli ammonimenti più aspri.
Quella nella quale viviamo oggi è a tutti gli effetti una società caratterizzata dalla liquidità, dalla velocità, dalla globalizzazione, dal diktat del profitto in qualsiasi ambito: in una tale realtà non è semplice vivere serenamente e gli intellettuali sembrano non riuscire più a fornire delle risposte efficaci agli interrogativi che dilaniano le nuove generazioni. Anche la scienza sembra non bastare e la fede nel trascendentale non riesce più a rappresentare per tutti un valido punto di riferimento. In questo contesto, nonostante siano sette i secoli che ci separano da Dante, ritengo che la sua ancora attualissima prototipicità risieda nel suo olismo esistenziale. Quella di Dante è un’esperienza del tutto “sensata” (per utilizzare un’espressione galileiana), nel senso che è tutta legata ai sensi, ma è anche interiore, razionale e spirituale, è un’esperienza altresì che si fa letteratura per abbracciare il più ampio numero possibile di interlocutori. Le componenti che costituiscono l’uomo (corpo, anima e spirito), le dimensioni con le quali egli si relaziona (rapporto con sé stesso, rapporto con gli altri, rapporto con il trascendente), ma anche le realtà sociali che lo accolgono (dimensione poetico-letteraria, dimensione politica, dimensione ecclesiastica, dimensione affettiva), tutti questi elementi rappresentano in Dante un unicum indistricabile. Questo autore, che è poi un tutt’uno con il suo personaggio, per la sua straordinaria facoltà di sintesi e per la sua eccezionale capacità di tramutare tutto – anche le sofferenze, le paure e le delusioni – in propositi fattivi sempre migliorativi, può davvero rappresentare un paladino del nostro tempo, in grado di relativizzare gli eccessi illuministici, più forte dei “vinti” ottocenteschi, più valoroso dei “superuomini” e più sagace degli “inetti” novecenteschi. Il suo messaggio profetico, la sua ricerca dell’Amore con la maiuscola, la sua altissima considerazione della figura femminile, il suo slancio riformistico contro la corruzione, la violenza gratuita, le ingiustizie: tutti questi elementi rendono Dante un intellettuale moderno, più capace forse dei suoi colleghi contemporanei di ridisegnare l’identità e la dignità che l’uomo di oggi sembra aver perso.