Secondo Edmund Wilson, non esistono due persone al mondo che abbiano letto lo stesso libro. Non solo. Col passare degli anni, la stessa persona sviluppa con questo strano oggetto una relazione differente. È per via di una miriade di fattori, interni e esterni, che è inutile analizzare perché rischiamo di diventare scienziati dei sentimenti, tecnici delle passioni, o al limite contabili delle emozioni. Qual è allora quell’elemento della vita e dei libri che ci accomuna, tutti? È la morte. Anzi, la fine.
Quando ci penso, mi vengono in mente due ricordi. Il primo, di quella volta insieme a Luis Ferro qualche anno fa, nella stazione di Alassio, in piena notte, mentre aspettavamo un qualsiasi treno che ci riportasse a Nizza, e abbiamo incontrato un clochard. Aveva una cinquantina d’anni, ma sembrava molto più vecchio, era colpa della strada. Anche il volto, era plasmato dalla strada, le rughe e la barba facevano il loro gioco di onde sulle guance serie. Aveva tutte le sue cose in un carrello del supermercato, a cui aveva cambiato le ruote perché quelle originali andavano dove pareva a loro. Aveva raccolto tutto come la formica che rassetta le provviste per l’arrivo dell’inverno. E l’inverno, guardando quell’uomo, mi faceva più paura. Il freddo, lo sentivo sotto la giacca come le mani di una sconosciuta che mi abbracciava da dietro e non sapevo se godere o se temere. Era dell’Est Europa, non ricordo di quale paese con precisione, forse polacco, perché era devoto a Wojtyla e abbiamo brindato alla sua memoria bevendo una specie di vodka fatta in casa in un bicchiere schifoso che del vetro aveva solo la durezza ormai, ma ne aveva perso la trasparenza e quella purezza che di solito gli attribuiamo. Dopo aver bevuto, ci ha raccontato la sua storia, una storia letteraria, e l’ha conclusa con una frase: la differenza tra me e te è molto più piccola di quello che pensi.
Il secondo ricordo è il mio incontro con Il sole dei morenti, scritto da Jean-Claude Izzo nel 1999, all’alba di un ventennio opaco almeno quanto quel bicchiere. Uno di quei libri che mi ha reso una persona più piccola. L’ho letto diverse volte, da ragazzo, e poi da adulto, e poi di nuovo da bambino. Questo romanzo è una corsa verso l’orizzonte in cui esiste l’unica verità che ci sfugge, quella dell’amore del divino forse, oppure no, più probabilmente la divinità dell’amore. È la storia di Rico, un uomo distrutto dal vino e dal male del mondo. Una delle protagoniste è una donna ridotta a uno stato di schiavitù e di povertà, costretta a prostituirsi in un appartamentino ricavato da un retrobottega. Quando l’ho vista per la prima volta, attraversare la strada sotto la pioggia, davanti alla vetrina di un caffè, mi è sembrata viva, vera, qui di fronte al mio tavolino. Ho sentito l’odore speziato di Marsiglia, la sua luce forte riflessa nei vicoletti in discesa, il sogno che nel ricordo è diventato salvezza. E la puzza di stracci delle brasserie, il pastis senza il ghiaccio – non importa se ne hai bevuto, e a tonnellate, anche tu. Perché l’intimità con cui Izzo lo descrive qui te lo fa sentire nella bocca, goccia dopo goccia.
Quando leggiamo la storia di qualcuno che non conosciamo (ovvero quasi sempre) finiamo per pensare a qualcun altro che abbiamo incontrato. A me è successo di dare a Rico, il volto del mio amico polacco. E se quell’uomo sarà morto ormai, o forse sarò morto io, il personaggio letterario non lo è. In questo, è diverso da noi. È la fine che ci accomuna, non la morte. Perché clochard, lo siamo tutti. Il confine è sottile così.
Il sole dei morenti, Jean-Claude Izzo, Edizioni e/o