Il viaggio narrato, percorso dall’uomo e dal poeta Dante nella Commedia si svolge nell’arco di circa una settimana, da venerdì 8 aprile (o 25 marzo) a giovedì 14 aprile (o 31 marzo) dell’anno 1300: è l’anno del primo Giubileo indetto da papa Bonifacio VIII.
Oggi 14 aprile 2021, nel settecentesimo anniversario della morte del Sommo Poeta, risponde alle domande – già poste ad altri amici, colleghi, professori, artisti – un uomo, un amico che ama la Storia: Anselmo Pagani. Un uomo, un industriale, un appassionato di Storia che la ricostruisce, la incrocia nei documenti ufficiali e la racconta con sagacia affascinando chi lo legge o lo sente parlare. Non è un docente ma possiede, per natura e formazione, qualità professorali proprie chi svolge il servizio dell’insegnamento.
Nel corso di questo eccezionale viaggio nell’oltretomba cristiano Dante vede, ode, parla, ricava un apprendimento al fine della salvezza e della vita eterna. Anselmo Pagani, in quest’intervista, illustra e commenta il «segno» che il padre della lingua italiana ha lasciato e lascia nella sua mente, memoria, cuore, psiche di uomo, papà, lavoratore ed imprenditore. La nostra vita ha un debito smisurato nei confronti della Letteratura. Quest’intervista vuol essere un piccolo assaggio di questo debito che paradossalmente è anche una eredità trascritta nel nostro codice genetico.
D.: Può raccontarci, Anselmo Pagani, a quando risale il suo primo incontro con Dante? Come e cosa ricorda?
Il mio primo vero incontro con Dante, dopo il biennio ginnasiale, avvenne in quella che allora si chiamava ancora la “1° Liceo Classico” presso il Collegio San Carlo di Milano. Il compianto professore Venegoni, finissimo letterato ed uomo dalla cultura poliedrica a quei tempi prestato alla politica, dedicava ogni lunedì mattina un’ora alla lettura in classe della Divina Commedia, che lui sapeva declamare quasi sempre a memoria scandendo le terzine con ritmo incalzante e musicale. Ricordo ancora quella specie di “cascata” di parole, spesso per me inaudite o comunque nuove, ma generalmente comprensibili, come pure quella carrellata di personaggi cui le stesse rimandavano, alcuni conosciuti, altri meno, altri ancora del tutto sconosciuti, ma capaci sempre di accendere la mia curiosità di ragazzo. In tre anni, il professor Venegoni ci accompagnò prendendoci per mano, come un novello Virgilio, facendoci passare dalle atmosfere claustrofobiche e tetre dell’Inferno, rimbombanti per le urla dei dannati, alle nebbie silenziose del Purgatorio e poi, su su, sino alla luce perenne e ai canti celestiali del Paradiso.
D.: Quale rima, terzina o frase dantesca ha guidato e guida il suo quotidiano lavoro di papà, lavoratore e studioso di Storia?
Due sono le terzine dantesche che mi sono rimaste più impresse, guidandomi nel lavoro come pure nella famiglia. La prima la troviamo nel Canto XXVI dell’Inferno, laddove il Poeta racconta il viaggio di Ulisse:
“Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e canoscenza”
Come imprenditore di seconda generazione, ci vedo un fermo richiamo a chi sono e da dove provengo, alla mia “semenza” cioè, che è poi quella di mio padre che, iniziando dal nulla nel 1947 insieme a mio zio, fondò l’azienda di famiglia che, giunta ormai al suo 74° compleanno, continua a lavorare e far lavorare tante persone, riscuotendo successi un po’ dovunque nel mondo, considerato che esporta circa i 3/4 della sua produzione. L’insegnamento che mio padre ha lasciato a me e ai miei fratelli consiste proprio nel non “viver come bruti”, che nel nostro caso può significare approfittare del momento o della circostanza favorevole, infischiandosene magari dei fornitori o dei giusti diritti dei nostri collaboratori. Il successo di un’azienda infatti lo si costruisce giorno per giorno, sempre e comunque tutti insieme nel rispetto rigoroso della legge ed agendo sempre con la massima trasparenza, nell’interesse non personale, ma dell’azienda stessa. Quanto al ruolo di genitore, come non pensare all’incipit del Canto XXXIII del Paradiso, cioè alla bellissima preghiera di San Bernardo alla Vergine:
«Vergine Madre, figlia del tuo figlio,
umile e alta più che creatura,
termine fisso d’etterno consiglio”
Ci vedo non solo l’inno più bello alla maternità, adattabile però anche alla genitorialità in senso lato, ma anche la più commovente lirica religiosa mai scritta che, per un credente come me, racchiude in tre versi il Mistero del Verbo Incarnato e del nostro essere tutti figli dell’unico Creatore.
D.: La figura di Dante come uomo e letterato è davvero piena e completa: un politico, un poeta e scrittore, un esule con prole al seguito, un condannato a morte sempre alla ricerca della giustizia. Cosa quest’uomo oggi può davvero insegnare? Ovvero quale segno nella vita dei giovani e dei meno giovani può porre?
Dante andrebbe riscoperto da giovani e meno giovani come personaggio “trendy”, sempre attuale e alla moda, esempio di coerenza e fedeltà ai propri ideali sino alle estreme conseguenze. In un mondo infatti popolato da tanti ignoranti che del loro non-sapere si fanno persino vanto, bruti e “coatti”, che quasi sempre seguono il gregge, delegando a pochi furbacchioni la loro capacità di giudizio, ed in tal modo facendo per esempio acriticamente proprie le tante “bufale” che circolano in rete, l’insegnamento di Dante dovrebbe spingerci non soltanto ad usare il nostro cervello, ma anche a raddrizzare la schiena, costi quel che costi. Con le sue rime immortali, dopo tutto, Lui riuscì nell’opera non scontata di nobilitare tanto il “volgare” (qui da intendersi letteralmente come “lingua del volgo”, cioè del popolo) da conferirgli un’aura di nobiltà facendolo assurgere al rango di lingua nazionale. Noi al contrario l’italiano, con l’uso di bizzarri neologismi, il suo imbastardimento con parole straniere e una rozza semplificazione dell’impiego dei modi e dei tempi verbali, oltreché col sempre più frequente ricorso ai bruttissimi “emoticon” propri della lingua scritta, lo stiamo svilendo e bistrattando al punto tale da farlo tornare veramente al livello di lingua volgare, dove però questo aggettivo sta a significare bruttezza e squallore, in senso diametralmente opposto cioè a quel che fece il Sommo Poeta.