Per raccontare la mia fine dovrei partire dall’inizio, quando speravo che sarei arrivato a realizzare qualcosa, anzi sognavo di cambiare (se non proprio il mondo) lo stato della letteratura, il modo d’intenderla, non come affare commerciale ma come sogno. Romantico alla Goya, chiaro, ché il sonno della ragione genera mostri e qui basta guardarsi intorno per vedere mostri sfilare, i pochi che fanno le cose sul serio sono gli undeground, quelli che non vogliono sfornare fenomeni editoriali, ma dare voce a chi non la possiede. La mia fine è una serie di errori, incasellati nella scacchiera nel corso degli anni come fossero tasselli di un domino gigante che non avrà mai fine. La mia fine sta nel coraggio di aver voluto cominciare, ché la letteratura è come un drago, ti fagocita e ti arde, non puoi pensare che a lei, tutto il resto delle cose che fai ti pare inutile. La tua fine arriva quando senti di non essere più in grado di credere alle cose in cui hai sempre creduto, perché bene o male hanno vinto loro, vinceranno sempre loro, il potere aiuta. Provare a fare un discorso logico in un racconto, come ai tempi in cui scrivevo e diffidavo delle scuole di scrittura, anzi dicevo agli aspiranti scrittori: Stai lontano da chi ti vuole insegnare a scrivere. Leggi molto. Non avere padrini letterari. Lo stile è soltanto tuo. Scusami Zelli se riprendo le tue parole, ma per me leggere i tuoi libri, i tuoi diari, i tuoi inediti è stata la sola scuola di scrittura che ho avuto, insieme a quella del professor Sergio Vanni al Liceo Classico di Piombino (quello che non c’è più, ora tutti vogliono fare i cuochi) che mi fece conoscere Pasolini e i contemporanei. Era prima della fine, ma già con Quasi quasi faccio anch’io un corso di scrittura me la stavo costruendo, non pago rincarai la dose con Nemici miei e giù strali del potere sulle mie gracili spalle. Mi hanno massacrato. Avevo Marcello Baraghini accanto e ho resistito, poi ho tentato di scrivere una terza puntata (Velina o calciatore altro che scrittore), edita da Historica, esperienza sbagliata sin dal titolo che un pavido editore volle cambiare: si doveva chiamare Se fossi Baricco e lui temeva le querele. Alla fine ho smesso con queste polemiche contro il mondo editoriale, non portavano a niente, in fondo loro hanno il potere e se ne fottono allegramente di un Gordiano Lupi che sbraita da Piombino. È rimasto Lo scrittore sfigato a dar voce all’insofferenza sotto forma di fumetto, ma i fumetti sono come la poesia, non li legge nessuno, le strisce ora come ora neppure Mafalda e Peanuts, non c’è niente che faccia audience. Basta che una Loredana Lipperini qualsiasi scriva che Il Foglio Letterario è un editore a pagamento, tutti giù a crederci, ché fa comodo, poi vien fuori una Michela Murgia a confermare e la festa è completa.
E io a combattere, a scrivere mail, post, dove dico guardate che i ladri sono altri, occupatevi dei grandi editori che pubblicano Diletta Leotta e Loretta Goggi invece di cercare autori inediti, guardate Il Filo del Gruppo Albatros che chiede tremila euro per cento copie, ma loro guardano solo quello che fa comodo, servili al potere, contenti dei loro libracci incensati dai grandi recensori, cioè da loro stessi. Il problema è quello di sempre: quis custodet custodes? Lo so che il latino non va più di moda, meglio un bel pasticcio di maccheroni, ma il concetto è semplice. Chi ha lippato la Lipperini? Potremmo dire parafrasando una battuta di Ezio Greggio anni Settanta rivolta a Lorella Cuccarini. I nostri bravi scrittori del niente fanno i recensori, occupano posti di potere televisivi e radiofonici, qualcuno è pure influencer su qualche social network, tutta gente utile a diffondere immondizia letteraria, così il grande editore li usa a scopo promozionale e subito dopo – cacca più cacca meno – mette sul mercato anche i loro libracci. La mia fine è stata l’aver capito che se vuoi contare devi far parte di un giro, se esci dal giro (per un motivo o per l’altro) tanto vale smettere, occuparti di tramonti a Calamoresca e di piogge nel pineto a Carbonifera. Non sono consapevole di aver mai fatto parte di un giro, forse per sbaglio c’è stato un periodo della mia vita che ci sono capitato, non so neppure per quale motivo, credo per ingenuità, perché chi mi ha inserito aveva bisogno di un soggetto puro, genuino, insospettabile (leggi fesso) grazie al quale propagandare un’idea partorita chissà dove. La mia fine è continuata occupandomi di una finta paladina dei diritti umani che ancora scrive da Cuba, foraggiata non so da chi, forse dalla Cia, forse dal governo cubano, non l’ho mai capito. Ecco, so solo che nel periodo in cui traducevo Yoani Sánchez mi piovevano offerte di lavoro da ogni lato, mi telefonava a casa Minimum Fax per farmi tradurre Cabrera Infante e la E/O mi proponeva Pedro Juan Gutiérrez, ottenevo recensioni su La Stampa nella pagina Cultura, sul Corriere della Sera, Repubblica. Sembrava che fosse accaduto un miracolo, ma non era così, mi ero inconsapevolmente venduto al potere. Un altro al posto mio ci sarebbe rimasto, invece no, appena ho sentito puzza di bruciato me ne sono andato, mi sono rifugiato nel mio cantuccio di provincia a leccarmi le ferite. Va da sé che ora la mia fine è vicina davvero, persino conclamata, mi occupo di Cuba solo per tradurre poesia – di quella vera e apolitica – che nessuno vuole, neppure se son capolavori assoluti, ché la poesia non vende, non è come le stronzate degli scrittori contemporanei, non è come i romanzi di Saviano. Basta politica cubana, mi son detto, ché ogni popolo ha il governo che merita – basta guardare l’Italia -, e se Cuba è comunista dal 1959 ci sarà un motivo, credo, che poi comunista per Cuba è una parola grossa, ma lasciamo stare, ho detto che non me ne sarei più occupato, non ne voglio proprio più sapere. La mia fine è stata tornare alle radici, alle beghe di paese, ai tempi di Lettere da lontano che credevo superati, invece, come dice Proust, non si sfugge all’abitudine e – come dicono altri – la vita è un eterno ritorno. La mia fine è la vita che faccio, un lavoro che odio ma non posso lasciare, litigo un po’ con tutti, sono perennemente insoddisfatto, cerco il male fuori di me ma so di averlo dentro. La mia fine mi divora giorno dopo giorno, a passi lenti e cadenzati, una sconfitta dopo l’altra, un sogno perduto e un’illusione caduta, come se fosse una spiaggia del passato infestata da putride alghe, cerco di ritagliarmi un angolo dove vivere ma è sempre più stretto. Raccontare Piombino è la mia fine, giorno dopo giorno, tornare a una visione della vita che riflette un panorama consueto che si trasfigura nei giorni tristi d’una pandemia che costringe a sfogliare tramonti tra le usate cose e i vecchi libri ingialliti che nessuno ha più tempo di sfogliare. La mia fine è aver perso la voglia di scrivere, purtroppo. Ed è la fine peggiore.