Kostantinos Kavafis: l’incontro con Ungaretti e la Grecia antica in fondo al cuore

Articolo di Gordiano Lupi

Nasco ad Alessandria d’Egitto, ultimo di nove figli, nel 1863, ma son greco fino al midollo ché i miei genitori son ricchi commercianti giramondo, approdati in Africa da Istanbul. Perdo mio padre che ho appena sette anni, lui mandava avanti i traffici, noi non riusciamo, son solo un bimbo costretto a scappar via, vivo in Inghilterra, a Londra e a Liverpool, un mondo troppo diverso dall’Africa egiziana, ma non comprendo i motivi della fuga. Alessandria mi chiama e io ci torno, ho quasi sedici anni, scappo di nuovo, ché qui scoppia una rivolta e noi greci mica siam visti bene. Diciannove anni ancora Istanbul, scrivo in inglese le prime poesie, dopo tre anni torno ad Alessandria, il mio luogo per vivere, la mia terra natale, anche se son greco, mi sento tale, pure se scrivo inglese anche quando faccio il giornalista, l’agente di Borsa, l’impiegato al ministero. Il greco lo apprendo adolescente, come fossi straniero, prima scrivo solo inglese, e la terra dei miei padri non conosco, la immagino per sentito dire, solo dai ricordi, la vedrò da adulto. Ma che son greco si sente dai miei versi, la mia cultura è ellenica, si abbevera alle fonti degli Achei, sale verso la Tracia, percorre Creta, rileggendo Omero, passa dalle Termopili, vede i Persiani, sogna la Magna Grecia. Itaca per me è soltanto il viaggio, nulla deve darti di più, meglio che duri molto, che vecchio tu attracchi all’isoletta, senza di lei non ti saresti messo in viaggio, quando la trovi non ti avrà certo illuso, reduce e saggio, avrai capito il senso d’un’Itaca perduta. Non cercate in me il poeta vate, neppure il bohemien sciagurato, non son D’Annunzio e neppure Baudelaire, sono soltanto un uomo che di tanto in tanto viaggia, frequenta Parigi e Londra, sogna la sua Grecia. Atene è la terra dei miei padri, dove si parla la mia lingua antica, ci vado tre volte in vita mia, l’ultimo viaggio a poco più di quarant’anni, ci vivo un poco, poi torno dove son nato, dove in fondo ho tutte le mie cose, il mio lavoro, gli amici, la mia gente. Non ho legami, vado allo sbaraglio, bevendo vini forti e vigorosi, sognando corpi di giovani ragazzi nelle mie notti chiare, illuminate. Ad Alessandria conosco anche Ungaretti, lui è un poeta che scrive proprio tanto, io molto meno, poi pubblico niente, appena un volumetto con poche poesie e una plaquette ancora più modesta; nella mia città incontro pure Forster, vedo Enrico Pea, soprattutto il primo è la mia fortuna, lui è famoso in Inghilterra, scrive di me, dice che son poeta; tu pensa, ho pubblicato così poco, ma il suo saggio fa il giro del mondo e qualcuno alla fine mi conosce. Perenne approdo è per me la mia città, mi son fatto bianco nelle stesse mura, la vita schianto in questa tana, non cerco nuove terre e nuovi mari. E quando invecchio ripenso al mio passato, ai giovani corpi che non colsi, ai sorrisi che non regalai, alle candele accese di tutto il mio percorso. Un maledetto tumore alla mia gola mi porta via che ho appena settant’anni e le mie candele spente non ho cercato mai di rivederle, ho sempre spinto avanti la mia vista per vedere quelle ancora accese. Muoio nel giorno del mio compleanno, fine aprile del 1933, senza aver fatto quel che avrei voluto, ho scritto e buttato, ci penseranno gli altri a raccoglier dai cassetti i versi che troppo non ho detestato. Ho sempre scritto cose che tutti potevano capire, se questo vuol dire esser moderno, quello sono, ma con la Grecia antica in fondo al cuore. Non son certo un avanguardista, neppure esteta, son poeta immaginifico, erotismo e vita, sentimento e morte, sensi e realtà, scrivo per chi verrà, tutto sommato. Rika avrà un po’ di lavoro, ma alla fine un libro verrà fuori, due anni dopo che son morto, 154 poesie, son tutte belle ha detto qualche critico, son dei capolavori, troppo buoni, spero solo che le leggerete e che pensiate un po’, di tanto in tanto, che le candele spente della vita son tutto quello che avete seminato. 

Candele

Stanno i giorni futuri innanzi a noi
come una fila di candele accese –
dorate, calde, e vivide.

Restano indietro i giorni del passato,
penosa riga di candele spente:
le più vicine danno fumo ancora,
fredde, disfatte, e storte.

Non le voglio vedere: m’accora il loro aspetto,
la memoria m’accora del loro antico lume.
E guardo avanti le candele accese.

Non mi voglio voltare, ch’io non scorga, in un brivido
come s’allunga presto la tenebrosa riga,
come crescono presto le mie candele spente.

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