In queste settimane hanno tenuto alta l’attenzione sul tema in questione i fatti di cronaca accaduti a Roma. In particolare, la notizia di una donna, una dipendente del Ministero della Pubblica Istruzione coinvolta in delle indagini che hanno portato ad atti di ricerca della prova (quali le perquisizioni) e che è stata travolta dall’onda mediatica. Il nome ed il cognome sbattuti in prima pagina in molti quotidiani e servizi televisivi pubblici e privati. Una tempesta mediatica che ha colpito tanti: la notizia delle indagini. La notizia di una Procura che ha svolto e/o sta svolgendo una attività d’indagine legittima e doverosa. Alla base c’è una notizia che, in genere, promana direttamente, dagli ambienti della Procura e che dilaga nelle sedi dei quotidiani nazionali e/o locali e nelle redazioni delle TV (più o meno note). La notizia di una indagine è, già di per se, un fatto che non dovrebbe essere conosciuto da nessuno (ma ciò accade, puntualmente). Non perché si ritiene giusta una forma di cesura, ma perché le indagini sono sottoposte al c.d. “segreto istruttorio” che ha una ragione sostanziale ed una processuale. Il segreto istruttorio ha un senso se resta tale, mentre ne ha molto meno se a violare tale segreto (per primo) è il Pubblico Ministero (magari, con una conferenza stampa).
Non vogliamo entrare in tecnicismi che ci porterebbero via tempo e concentrazione, ma una cosa la vogliamo dire: esiste una direttiva (anche più di una per il vero) che prescrive ai PM di non “pubblicizzare” le inchieste, di non esporre mediaticamente se stessi. La storia e la cronaca ci mostrano l’esatto contrario. Vi è uno strano ed abnorme connubio tra uffici della Procura ed ambienti dell’informazione. La conferenza stampa su arresti e/o indagini più o meno eccellenti è, talvolta, l’unica informazione che viene data. I Pubblici Ministeri più noti sono proprio quelli che danno le veline ai giornalisti (e se lo fanno violano il segreto istruttorio). Sono gli stessi giornalisti che scrivono le notizie delle indagini, ma (quasi mai) quelle del processo e (quasi mai) quelle della sentenza (specie se di assoluzione). La notizia che filtra di una indagine va data? Posto che, come detto, non dovrebbe filtrare e ciò eviterebbe anche a chi scrive di scrivere, se la notizia filtra ed è vera, con tutto il dovuto rispetto per le parti coinvolte (parti offese ed indagati), riteniamo che vada data, sebbene nasca da un comportamento illecito (quello di colui che ha violato il segreto istruttorio). Si tratta, in ogni caso, di cronaca giudiziaria. Ma il punto è in che modo vada data e quale valenza sociale abbia (o dovrebbe avere) una notizia di tale genere; la notizia di una indagine in corso.
Il modo con cui andrebbe data è quella della oggettività e con espressioni che non stigmatizzano la “colpevolezza” del soggetto coinvolto, ma l’impostazione accusatoria che poi (nel processo se ci sarà) verrà contrapposta dalla impostazione difensiva. Le modalità, essenzialmente, non celebrative delle gesta delle Procure e della Polizia perché viviamo in uno Stato di diritto dovrebbero essere la regola. Anche su questo aspetto rimarchiamo la piena necessità di una reale, rapida e concreta separazione delle carriere tra magistrati requirenti e giudicanti. Tutto ciò premesso, bisogna porci una domanda: che valore sociale ha la notizia di una accusa a carico di una persona? Questo, riteniamo, sia il punto focale su cui concentrarsi. Dal tragico periodo di “Mani Pulite” ad oggi l’essere destinatario di un “avviso di garanzia” (termine giornalistico ed improprio) equivale ad essere additati come colpevoli dell’accusa mossa. E questo accade, non tanto per via della “fuga” (pilotata) delle notizie relative ad una indagine, ma perché l’informazione (che ha una colpa immensa in tutto questo) non va oltre al clamore delle indagini, della perquisizione, del sequestro e (magari) dell’arresto. L’informazione seria che mette alla berlina un soggetto avrebbe il compito e l’onere di andare a seguire l’intero processo e poi riportare l’esito giudiziale. In una parola molto chiara: dovrebbe “controllare” l’esattezza delle accuse al vaglio del processo.
Non essere la cassa di risonanza del primo atto: l’indagine. Tutto questo non accade quasi mai ed è rimesso alla serietà del giornalista. L’informazione (in molti casi) è prona rispetto al potere giudiziario ed al potere delle Procure, in modo particolare. L’informazione, in genere, e l’informazione giudiziaria in particolare ha, ormai da 30 anni, smesso di fungere da organo di controllo (il famoso quarto potere) ed è diventato strumento di amplificazione di messaggi. La magistratura delle Procure, svincolata da un controllo degli esiti delle indagini, partorisce notizie “formidabili” ed immediatamente percepibili, ma che poi (molto spesso) perdono la loro luce cammin facendo. Tutto ciò è testimoniato dai milioni di euro pagati dallo Stato per l’ingiustificata detenzione. Il punto, crediamo, sta in un equilibrio tra diritto di cronaca (sacrosanto) ed un diritto del rispetto della persona coinvolta (persone offese ed indagati). Se è la stampa a dare il senso di una definitività ai provvedimenti delle indagini non possiamo pensare che il cittadino comune possa cogliere la differenza; non ha gli strumenti e si lavora per semplificare quello che semplice non è: il diritto. In questo Paese bisogna smettere di pensare che il diritto sia una materia che possono maneggiare tutti. Alla stessa stregua delle altre scienze deve essere applicata solo da chi ha gli strumenti e certe banalizzazioni, o peggio, mistificazioni creano disinformazione.
Lo sforzo va fatto a livello di magistratura ed a livello di informazione perché una cattiva informazione giudiziaria ingenera quello che si può definire un “corto circuito della fiducia”, un corto circuito tra cittadino e Giustizia. La Giustizia non è spettacolo, la Giustizia è sofferenza e dove si soffre non c’è spettacolo, salvo che non si sia degli sciacalli. La Giustizia è impegno ed è il precipitato tecnico di due valori cardine della democrazia: l’uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge e la libertà come valore assoluto. Le indagini sono e restano l’embrione di un procedimento che, forse, avrà la luce in un processo e non possono mai essere considerate verità assoluta. La collettività deve virare verso una più attenta e completa informazione giudiziaria che esca dai canoni del giustizialismo e del sensazionalismo. Ancora una volta, come in altri temi afferenti la Giustizia, il punto vero è il rapporto con la società civile, con quel popolo, in nome del quale, si pronunciano le sentenze. Un rapporto che i recenti fatti afferenti il CSM allontanano sempre più dalla gente. Il potere giudiziario, oggi, è visto come un potere, altamente, inquinato da particolarismi, da interessi di casta e da molto di più. L’unica via è la chiarezza, è l’umiltà di porre dei problemi nudi di fronte all’opinione pubblica. Abbiamo tutti – gli avvocati per primi – bisogno di una magistratura libera ed indipendente anche da “strani” giochi interni ad essa.
Situazioni e complessi reticoli di relazioni come appalesano in modo molto articolato, complesso ed inquietante i casi “Palamara” ed “Amara”. Stiamo vivendo il più critico e difficile momento per la Giustizia e per la Magistratura dal periodo del ventennio (1920-1940). Dobbiamo, tutti insieme, realizzare e determinare quella inversione di tendenza che appare, assolutamente, necessaria. Il rapporto società e mondo della Giustizia è un punto focale e determinante del vivere civile. Forte e decisa deve essere, a tal proposito, l’azione dell’avvocatura.