“Gli amici che abbiamo perduto non riposano nella terra, sono sepolti nel nostro cuore; è Dio che ha voluto così perché li avessimo sempre con noi”. Alexandre Dumas ha lasciato questa massima che sembra scolpita proprio per la storia che sto per narrarvi. Una storia di affetto e di amicizia. Un legame per un grande dentista e docente universitario, il professor Glauco Marino, scomparso a 92 anni ma che ha vissuto intensamente ogni anno della sua esistenza con umiltà ed umanità.
Un vero Maestro per tanti dentisti italiani che lo hanno pianto e ricordato, per come hanno potuto in questo periodo di emergenza pandemica, in cui anche i funerali sono un problema, ma anche per tutte le persone che hanno avuto il privilegio di conoscerlo o che almeno per una volta hanno avuto rapporti con lui.
Io l’ho conosciuto quando ero ancora bambino. Era un buon amico di mio padre. Io ero piccolissimo e lui mi sembrava altissimo. Sigaro sempre in bocca, e coppola estiva o invernale, che non mancava mai sulla sua testa. L’ho conosciuto nella città dove lui è nato, Licata in provincia di Agrigento, luogo a cui era attaccatissimo e dove tornava quando poteva cercando di restare quanto più tempo possibile tornando dall’estero o da tour forsennati per l’Italia, dove formava centinaia a centinaia di dentisti. Glauco Marino era laureato in Medicina e Chirurgia all’Università di Palermo, nel lontano 1953, e due anni dopo aveva conseguito il diploma di specializzazione in Odontoiatria e protesi dentaria presso l’Università “La Sapienza” di Roma. Per 13 anni ha prestato la sua opera come medico specialista presso il servizio odontoiatrico del Comune di Roma, dal 1955 al 1968, quando poi ha iniziato la libera professione. Nella capitale iniziano a comprendere le sue qualità e le sue capacità. Comincia a portare la sua esperienza negli ambienti accademici prima come Professore a Contratto presso l’Università di Sassari nell’86/87. Poi il concorso come Professore Associato, che vince nel 1984 e come Ordinario nel 1997. Una carriera brillantissima, che lo porta ad essere titolare presso la cattedra di Protesi Dentaria prima all’Università de L’Aquila e poi a Chieti.
Nel frattempo, in tutto il mondo si accorgono della sua bravura. Lui sperimenta protesi dentarie che tutti possono permettersi. Una rivista americana gli dedica una copertina riconoscendo le sue indubbie capacità. Un giorno mi fece vedere questa rivista scientifica prestigiosissima. “Guarda Franceschì – così mi chiamava anche se avrebbe voluto sbrigarsi con un più siciliano Ciccio, ma sapeva che lo odiavo – ti regalo sta rivista. Ma ti sembra possibile che si siano occupati di me con tutti i dentisti e i professori universitari che c’erano nel mondo?”
In questa frase c’era tutta la sua umiltà e la sua forza. Un giorno andai da lui per proporgli un progetto editoriale. Volevamo pubblicare un libro di poesie di suo papà il grande Nino Marino “Libriceddu di paisi”, una raccolta che riuscimmo a pubblicare, grazie al suo supporto, per i tipi de “La Vedetta”, il mensile licatese diretto dal professor Calogero Carità, che ha ripubblicato importanti testi di storia e cultura locale. Era orgoglioso di suo padre il professor Marino, così come era orgoglioso dei suoi figli che avevano seguito la sua professione e gli avevano dato questa grande gioia, Antonio ed Alessandra, che adorava come la moglie strasimpatica e affettuosissima Daniela.
Era un uomo che non doveva chiedere davvero nulla alla sua vita. Era stata piena di successi, di amore ricevuto e dato. Ma era stata anche una vita in cui aveva donato tutto sé stesso. Era sempre a disposizione. La sua generosità era incredibile, la sua onestà, correttezza, la sua educazione davvero indimenticabili.
Non lo vedevo da tempo. E ho un grande rammarico per non aver trascorso ancora qualche pomeriggio seduto nel bar del centro a Licata a sentire le sue incredibili storie o a rispondere alle sue incredibili domande. O a ridere a crepapelle con le sue battute originali e fendenti.
Era un uomo straordinario. A lui mi legano ricordi bellissimi. Spesso mi chiamava come mio padre Gino, e poi si riprendeva subito e mi diceva: “chissà come sarebbe contento tuo padre di vedere che hai fatto strada. Gli somigli molto”. Erano momenti in cui tirava fuori tutta la sua dolcezza e tutta la sua umanità.
Tutto della sua Licata gli piaceva: il cibo, il mare, la squadra di calcio, e tutto quello che profumava della sua terra. Sono certo che se oggi riuscissi a parlare con lui anche un solo attimo forse mi direbbe: “Franceschì il mio l’ho fatto!” o magari insisterebbe citandomi Lev Tolstoj: “La vita è un sonno, la morte è il risveglio”