Ventitrè maggio millenovecentonovantadue, ore diciassette e cinquantasette minuti, l’aria tiepida di un pomeriggio siciliano, nei pressi dello svincolo autostradale di Capaci, viene squarciata da un enorme boato frutto della deflagazione di quasi cinquecento chili di tritolo. In quel preciso istante stava transitando il piccolo corteo di macchine che faceva la scorta al giudice Giovanni Falcone, accanto a lei la moglie Francesca Morvillo e attorno gli agenti di scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro. Tutti deceduti e poi ancora ventitrè feriti fra i quali gli agenti Paolo Capuzza, Angelo Corbo, Gaspare Cervello e l’autista giudiziario Giuseppe Costanza. Siamo nel periodo in cui l’attacco diretto al cuore dello stato da parte della mafia, raggiunse uno dei livelli di maggiore ferocia e livore. Era la strategia delle bombe voluta, secondo gli atti giudiziari e le sentenze, da Salvatore Riina, Bernardo Provenzano, Giuseppe Madonia, Benedetto Santapaola che prevedeva l’attacco alla magistratura, a uomini politici e personaggi pubblici, alle forze di polizia, al patrimonio culturale italiano, allo scopo di indebolire e ricattare le istituzioni per creare le condizioni di una trattativa stato mafia.
Ma facciamo un passo indietro: perché in quel frangente, tra i tanti potenziali obiettivi, fu scelto proprio il giudice Giovanni Falcone? Per avere una risposta basta ricordare alcuni fatti salienti della carriera del giudice. Il ventinove luglio millenovecentottantatré il magistrato Rocco Chinnici, a capo della squadra di magistrati di cui fanno parte Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, viene ucciso con la sua scorta in via Pipitone Federico a Palermo, è evidente che i capomafia avevano intuito il pericolo che stava nascendo, dalla cooperazione di quel gruppo di magistrati. Lo sostituisce Antonino Caponnetto, il quale conferma di volere favorire l’efficacia della lotta alla mafia, mantenendo in vita il pool antimafia, nato anche grazie alle esperienze maturate nel decennio precedente sul fronte della lotta al terrorismo politico in Italia. Giovanni Falcone si distingue per impegno, dedizione e risultati: raccoglie le importanti rivelazioni di Tommaso Buscetta, considerato uno dei primi pentiti di mafia, ma che in realtà è giusto definire dissociato, in quanto non si riconosceva nel nuovo modo di essere criminali dell’organizzazione mafiosa; è tra i primi magistrati a comprendere la struttura unitaria e verticistica della mafia; crea un metodo investigativo basato sulla rigorosa ricerca delle prove, sulle indagini patrimoniali e bancarie e i relativi sequestri. Un grande lavoro individuale e di squadra che permise di istruire il primo maxi processo a cosa nostra, con quattrocentosettantacinque imputati, oltre duemilaseicento anni di reclusione comminati, diciannove ergastoli, in primo grado. Un dibattimento che può essere definito il più grande processo penale al mondo del quale riporto alcune parole dalla requisitoria del pubblico ministero Domenico Signorino: “Ciò che vi chiedo in sostanza non è la condanna della mafia, già scritta nella storia e nella coscienza dei cittadini, ma la condanna dei mafiosi che sono raggiunti da certi elementi di responsabilità”. Giuseppe Ayala l’altro pubblico ministero aggiunse a conclusione della sua requisitoria: “Io spero che noi accusando abbiamo in fondo difeso, da magistrati palermitani, in un processo che si celebra a Palermo, davanti alla Corte d’Assise di Palermo, i valori più autentici della nostra terra nei quali tutti noi dobbiamo continuare a credere e a riconoscerci […] E vi devo infine dire con grande sincerità, che il collega Signorino ed io siamo non certi, siamo certissimi che la vostra sentenza, signori giudici, sarà un’autentica affermazione di giustizia. Così solo, senza lotte, il diritto vince sul delitto, la democrazia e la civiltà sulla barbarie. Grazie”.
Successivamente al colpo inferto alla mafia il crepitare di armi, le esplosioni, i tentativi di depistaggi, le lupare bianche, le sgommate e le sirene spiegate non smisero di caratterizzare, le cronache del capoluogo siciliano e soltanto due mesi dopo il già descritto attentato al giudice Giovanni Falcone vengono uccisi, in via D’Amelio, il giudice Paolo Borsellino e la sua scorta. Da qui l’invio di reparti dell’esercito per dare vita all’Operazione Vespri Siciliani: Palermo come Beirut qualcuno azzardò all’epoca e posso testimoniare che la città viveva in una tensione che si poteva tagliare a fette. La paura che si contrapponeva alla voglia di rialzare la testa, di scendere in strada per chiedere giustizia, al desiderio di dire basta alla mattanza.
Quel giorno di ventinove anni fa Palermo si fermò e non fu l’unica volta. Mi chiedo cosa può essere cambiato nel nostro immaginario collettivo dal tempo delle stragi mafiose, in particolare quelle riferite alle morti dei giudici Falcone e Borsellino. La gente ha ancora paura? Si sente ancora minacciata dalle ritorsioni mafiose e teme che possano ancora accadere misfatti di quel genere? Ho posto queste domande alla psicologa palermitana Rosangela Piazza: “Intanto bisognerebbe fare un’indagine capillare a partire dall’uomo della strada e parlare, elaborare, cercando di capire cos’è rimasto di quelle esperienze terrifiche nella testa dei palermitani. Sicuramente nella gente di una certa generazione, ormai matura, perché i giovani che non hanno vissuto le tragedie, hanno visto comunque le conseguenze politiche di quelle stragi e dei cambiamenti, veri o falsi, che sono accaduti dopo. Sicuramente il senso d’indignazione a quell epoca fu grande ed esteso a tutta la popolazione, in tutti i ceti. Si ebbe la sensazione che la morte di quei due eroi decretasse la fine di un atteggiamento e di una classe di potere, ma vero poi non fu . Vero sembra che la gente oggi ha meno timore che possano accadere ancora eventi di questo tipo perché comunque gli autori delle stragi oggi sono defunti, ma io credo che l’immaginario archetipico collettivo a livello inconscio si sia abituato a una sorta di paura acquisita che è puro frutto di un atteggiamento “mafioso” di sopraffazione e sopruso che non riguarda il mondo dei capimafia, ma che fa parte integrante di una cultura sicula dove il panormita fa le cose che si devono fare, per acquisire un senso di appartenenza e identità, anche negative e diverse dal resto della penisola. Palermitani non si nasce, si diventa”.
Nell’anno duemilaventuno qual è l’eredità lasciata da Giovanni Falcone e in quale fronte si continua a combattere la mafia? Secondo il mio parere oggi più che mai bisogna concentrarsi sul tentativo di fare luce sulla trattativa stato mafia che, come già scritto, era l’obiettivo principale della stagione delle bombe. Inoltre è necessario dare maggiore vigore alle indagini, alla ricerca delle prove, alla cattura dei latitanti, all’istruzione dei processi. Ritengo che la lotta al sistema mafioso non debba essere asservita a logiche politiche e mai finalizzata all’annientamento dell’avversario politico. Insomma soltanto con uno stato unito e con le istituzioni in piena sintonia, si può tentare di dare una spallata decisiva alla mafia, così come è successo con le brigate rosse, organizzazione terroristica di fatto smantellata e annientata. E fa rabbrividire l’idea che non si riesca a sconfiggere la mafia non soltanto perché è l’espressione di una profonda e radicata subcultura che fa ancora breccia in alcuni segmenti sociali, ma anche per il fatto che storicamente cosa nostra preferisce nascondersi tra le pieghe delle istituzioni laddove sono disposte alla connivenza.
Salvatore Calleri, presidente della Fondazione Antonino Caponnetto, in occasione della recente Giornata in ricordo delle vittime innocenti delle mafie, che si celebra il ventuno marzo in una dichiarazione pubblica ha esaminato così la situazione attuale: “Oggi è il momento più difficile nella lotta contro la mafia da trent’anni anni a questa parte. Ciò che chi combatte realmente la mafia, noi insieme ad altri, temevamo è puntualmente avvenuto: la fine del cosiddetto doppio binario, quell’insieme di norme antimafia speciali nate con il sangue delle vittime. In parole povere la mafia viene trattata peggio dei criminali comuni. Oggi in nome di una sorta di buonismo pro mafia volontario, indotto oppure involontario, consapevole od inconsapevole, abbiamo de facto eliminato il doppio binario. Eppure oggi la mafia è forte”. Per Calleri “oggi in Italia si stanno perdendo pezzi per strada della normativa che a livello internazionale ci invidiano. Le norme sulle interdittive e white list, vengono messe in discussione. Le norme sullo scioglimento dei comuni anche. Siamo arrivati al punto che non è sufficiente che il Consiglio di Stato dica che determinati Comuni vadano sciolti, si prende tempo e si mira ad abolire la normativa. Per chi combatte la mafia è l’ora più buia”. L’allarme lanciato più volte dall’Europol, dalla Dna, dalla Dia e da tutte le forze dell’ordine – aggiunge – sull’attenzione da porre prima dello stanziamento dei recovery fund potrebbe essere un fulgido esempio di antimafia del giorno prima, ma temo rimarrà un grido nel vuoto. La sensazione è che in modo silente si sia scelto di riconvivere con la mafia. Se i cittadini per bene non batteranno un colpo – conclude – lo Stato perderà, la lotta alla mafia deve ritornare tema fondante nella vita democratica del Paese”.
Non posso che chiudere questa mia breve disamina, che prende spunto dalle celebrazioni del ventinovesimo anniversario della strage di Capaci, ricordando tutte le vittime delle organizzazioni criminose, che continuano ad anteporre i propri interessi illegali alla vita degli uomini, ed è anche per questo che vanno estirpate. Il sacrificio del giudice Giovanni Falcone ha rappresentato l’inizio di una nuova coscienza che si sta diffondendo soprattutto tra i giovani e nelle scuole, anche se i segnali restano contraddittori e lontana sembra essere l’affermazione totale e definitiva della legalità.