In teoria, da qualsiasi prospettiva lo si guardi, ogni aspetto del nostro vissuto andrebbe contestualizzato. Di conseguenza, partendo dal presupposto che l’arte nasce dalla vita e non il contrario, ogni scena musicale è figlia dei suoi tempi e della sua condizione urbana. Concetto filosoficamente banale, ma quanto mai pragmatico e sempre d’attualità.
Oggigiorno, la comunicazione di massa, filtrata attraverso smartphone e PC, non può prescindere dall’utilizzo dei social network, diventati veri e propri campi minati. Diciamolo serenamente: comunicare sui social non è affatto facile. Oltretutto, il periodo di pandemia, tra restrizioni geografiche, smart-working, distanziamento sociale, mascherine chirurgiche e fai-da-te, varianti virali provenienti da ogni latitudine ed embargo pressoché totale su qualsiasi forma di manifestazione live in presenza di pubblico, non ha di certo aiutato e migliorato il mondo della connessione digitale. Semmai, ha contribuito ad aumentare la forza di rottura e ad aggravare e inasprire l’interscambio interattivo, facendo uscire il lato peggiore di tutti noi. Altro che lo slogan “ne usciremo migliori”.
Nel corso degli anni, dunque, la rete si è trasformata in un labirinto di vicoli ciechi e linguaggi convulsi che, obtorto collo, sono finiti per sbattere contro il muro del nonsense, delle patetiche risse digitali e del relativismo assoluto, ignorando anche le evidenze più oggettive pur di mantenere intatte alcune convinzioni assurde, fino a mettere in discussione ogni aspetto della nostra esistenza. Tutti automatismi mentali che hanno evidenziato e amplificato bias cognitivi di ogni genere.
Ma mettiamo per un momento in standby questa breve disquisizione di carattere sociologico e facciamo un piccolo passo indietro. Negli anni ’80, come ha ricordato Federico Fiumani qualche giorno fa proprio con un post su facebook, c’erano diverse scene musicali sparse per tutto lo stivale: da Torino a Milano, da Bologna a Firenze, da Roma a Catania. Tutti medio-piccoli focolai che, da un lato, stavano crescendo di popolarità grazie al traino emotivo e culturale dei movimenti britannici e statunitensi, e dall’altro manifestavano un certo malessere nei confronti della tradizione musicale italiana e di quella mentalità bigotta imposta dalle istituzioni e dagli adulti.
All’inizio degli anni ’90, quello stato di agitazione che stava investendo la nuova generazione, nonostante provenisse da radici eterogenee e diverse realtà territoriali, sarebbe convogliato sotto un unico ideale, quello del “rock delle libertà”, trasformandosi, al contempo, in un modello di controcultura sociopolitica che guardava anche oltre i propri confini geografici. Quelli erano anni in cui la musica dovevi ancora “cercartela” (non c’erano le piattaforme streaming), sia che fosse finalizzata all’ascolto casalingo, oppure alle esibizioni dal vivo. Anni in cui la chitarra (leggermente defilata nel circuito commerciale degli anni ’80) si stava riprendono il centro della scena pop e i riflettori del music business. In quel periodo, tutti volevano alzare i decibel dei propri amplificatori ed enfatizzare il suono distorto della parte ritmica, rifiutando l’etica del virtuosismo e dando vita a quello che si sarebbe affermato come “alternative rock”.
Il rock alternativo trovò terreno fertile anche in Italia. Erano molte le band nostrane impegnate a cavalcare quell’onda musicale non convenzionale. La musica rock tricolore, seppur fortemente debitrice verso tutto ciò che era di matrice anglofona, ha avuto il suo momento di sovraesposizione nazionalpopolare proprio negli anni ’90, soprattutto grazie all’avvento di canali televisivi come MTV e Videomusic.
Purtroppo, quell’interesse mediatico, discografico e sociale attorno al rock tricolore si consumò nel giro di poche stagioni: una miccia troppo corta che, in breve tempo, avrebbe esaurito il suo potenziale esplosivo. Sfortunatamente, fu una breve parentesi, un sogno ad occhi aperti.
Nel frattempo, l’avida prospettiva del capitalismo e del consumismo si stava radicando prepotentemente all’interno del tessuto collettivo di quell’epoca, portando, di conseguenza, di lì a poco, al lento declino dei valori spirituali di una società sempre più agnostica e indirizzata verso forme di comunicazione individualiste e virtuali, in cui prevalevano le esigenze del singolo a discapito del bene collettivo. Il mondo dell’arte, nelle varie epoche, in ogni sua forma espressiva, ha contribuito allo sviluppo di una controcultura alternativa che si andava a contrapporre alla bolla conformista e consumistica del capitalismo.
Oggi, a distanza di trent’anni, la sensazione è che l’interesse popolare verso la musica rock tricolore si sia completamente depauperato. Recentemente, abbiamo assistito all’ascesa di fenomeni più mediatici che affini al discorso prettamente musicale, vedi Little Pieces Of Marmalade e Måneskin. Però, da che mondo è mondo, a prescindere dal contesto storico, la pubblicità è l’anima del commercio: c’è chi può godere di importanti campagne di marketing e chi invece è costretto ad arrancare nel sottosuolo underground.
Che piaccia o meno, senza una funzionale e costante strategia di marketing digitale (eh già, oggi è così che va il mondo), conseguenze e ricadute non potranno che essere negative. Concetto basico applicabile a qualsiasi prodotto commerciale. A tutte quelle realtà musicali underground (band, artisti, etichette indipendenti, agenzie stampa, ecc.) che vivono di autoreferenzialità e autoindulgenza ingiustificate, e che si lamentano sui social network (dove sennò?) di non ricevere quei consensi e quella visibilità che invece, secondo loro, meriterebbero di avere, consiglierei di dedicarsi a una sana autocritica e, soprattutto, alla pianificazione di una strategia di marketing seria e affidabile (quantomeno provarci), anziché passare il tempo affacciati in finestra a smangiucchiarsi unghie e pellicine delle mani e denigrare le faccende altrui.
Il dato oggettivo e incontrovertibile è che il pubblico italiano, nonostante l’era di internet e le nuove tecnologie di fruizione al servizio della musica, non si è mai distaccato dalle sue radici culturali, ma ha continuato semplicemente a seguire delle mode, così come ha sempre fatto di riflesso nei decenni precedenti. Detto questo, se la cultura di massa contemporanea non prende in considerazione ciò che non è mainstream, ovviamente non sarà per responsabilità diretta dei Måneskin.
A proposito dei Måneskin (ormai sulla bocca di tutti): sulla scia dei recenti trionfi, al festival di Sanremo e all’Eurovision Song Contest al grido di “rock n’ roll never dies!”, personalmente mi è poco chiaro tutto quell’astio a loro rivolto che, ultimamente, sta infervorando il web di sponda tricolore. All’Eurovision, per loro fortuna e per il meccanismo di votazione della competizione, i Måneskin hanno potuto contare sulle preferenze arrivate dall’estero.
Allora mi chiedo: perché il popolo italiano nutre tutto questo rancore e livore nei riguardi della band romana? Possibile che siamo ancora patologicamente asserviti all’esterofilia? È normale negare qualsivoglia sembianza di campanilismo? Ci siamo davvero imborghesiti fino a questo punto? Ma non eravamo quelli dello slogan “prima gli italiani”?
Chissà se i Måneskin, o chi per loro, riusciranno veramente a dissotterrare l’interesse nazionalpopolare per la musica rock, affinché suddetto interesse non sia solamente prerogativa di alcune vecchie glorie di un genere musicale che da sempre vive di stereotipi. Come si suol dire in questi casi: ai posteri l’ardua sentenza. Persino Cristina Scabbia dei Lacuna Coil (gruppo pseudo metal italiano che ha raggiunto il massimo della popolarità grazie alla cover di un brano dei Depeche Mode!) ha speso parole in salsa di acredine: “Ora tutti hanno un animo rock and roll. Dove eravate fino a qualche giorno fa?”. Disse colei che solo qualche anno fa troneggiava dal pulpito del talent show The Voice e che oggi, invece, cavalca l’onda mediatica del momento.
Perché se l’accanimento mediatico per essersi omologati al format dei talent ha coinvolto gli Agnelli, Morgan e compagnia bella, lo stesso trattamento avrebbe dovuto essere riservato anche alla brutta copia di Amy Lee degli Evanescence. Il premio “Giuria della Critica” va a tutti quei tenerissimi boomeroni che hanno avuto, addirittura, l’ardire di contestare l’abbigliamento di scena dei Måneskin: “Ma dove cazzo vanno con quelle tutine?”. Gli stessi che si strappano capelli e diottrie per Elton John, Queen, David Bowie e mi fermo qui. Non dico tanto, ma un pizzico di coerenza non guasterebbe affatto.
D’altronde, i Måneskin, così come altri musicisti in voga attualmente nel panorama delle visualizzazioni streaming, fanno parte di un mastodontico e globalizzato ingranaggio commerciale, piegato a certe logiche di mercato e destinato a un preciso target anagrafico. Insomma, nulla di nuovo e trascendentale su questo fronte. Ma al di là di questo, chi lo ha stabilito che non ci sia comunque sacrificio e passione.
Immagino che gli stessi Måneskin sappiano che ogni tipo di accostamento a un qualunque complesso rock del passato sia a dir poco demenziale, se non addirittura ingeneroso e poco costruttivo. Così come può apparire poco costruttivo, a mio modesto vedere, il desiderio di affossare e infangare ogni genere di nuova proposta in ambito rock italiano per il fatto che si ispiri (ispirazione non significa copiare) a realtà iconiche della musica rock internazionale, oppure per mancanza di originalità o anche per il semplice fatto di aver intrapreso un percorso professionale compromissorio.
Certo, va detto che, di questi tempi, ricercare originalità nel vasto scenario musicale, così come in altre forme dell’arte, è una pratica alquanto irrealistica. Un po’ come sperimentare nuove posizioni nel sesso. Da noi, ad esempio, vengono osannate band come gli statunitensi Royal Blood: gente che esegue lo stesso riff in copia carbone da almeno dieci anni, oltretutto copiando spudoratamente Garbage e Queens Of The Stone Age.
Diciamo che, in linea di massima, ci vorrebbero analisi più ragionate e soprattutto un po’ più di equilibrio nelle critiche, perché dopotutto è un attimo scivolare nelle voragini del pregiudizio. Molti rocker resilienti (avete presente quelli che scrivono con il caps lock attivo e mettono tutte le emoticon da rocker?) ci ricordano quotidianamente che “il rock è uno stile di vita” o, meglio ancora, un’attitudine (pessima traduzione dall’inglese del termine “atteggiamento”). Eppure, in giro, di individui che coniugano il rock al proprio stile di vita se ne vedono sempre meno, per non dire nessuno. Purtroppo, checché se ne dica, il fan medio della musica rock non è altro che un conservatore legato al passato e convinto di appartenere a una cerchia ristretta: una specie di razza ariana della musica rock. Ecco, dunque, dove fermenta, ribolle e si autoalimenta il pregiudizio.
Ma, in fin dei conti, queste sono tutte conseguenze derivanti da una causa comune. Ovvero che l’essere umano, per indole e per l’insegnamento che riceve durante il suo percorso formativo, è cattivo. È così. L’essere umano è cattivo.