Il 20 maggio del 1996 c’era caldo. La giornata cominciava nel solito modo, un orecchio allo scanner collegato con le frequenze delle forze dell’ordine, il caffè in agenzia, la consapevolezza di dover uscire per andare a caccia di qualche foto per riempire i quattro quotidiani e le tre agenzie di stampa che allora servivamo. Una normale e tranquilla mattina a “Studio Camera”.
Di colpo tutto cambiò. Dalla radio della polizia arrivava un vociare concitato, euforico. Non capivamo, ci siamo avvicinati bloccammo il canale per carpire più informazioni possibili. Un omicidio? Una strage? No, troppe voci si accavallavano e poi mancava l’interloquire delle “volanti” che si portavano sul posto. Qualcosa di grosso era accaduto, lo sentivamo. Il mio socio Michele Naccari si fiondò in questura. Da li mi chiamò e mi diede la notizia bomba. Giovanni Brusca era stato arrestato! “corriamo sul posto” gli dissi. Troppo lontano, rispose, Agrigento, Non rimaneva che mettere le tende a piazza della Vittoria, davanti la Questura aspettando l’arrivo dell’arrestato. Passava il tempo, e la nostra eccitazione era alle stelle. Quel pomeriggio afoso c’era uno strano silenzio. Le ore passavano e si fece sera. Fu allora che in lontananza udimmo le sirene e tanti clacson strombazzare. Il lungo corteo che accompagnava i due latitanti catturati (nel frattempo sapemmo che anche il fratello del “verro” era stato catturato. Enzo Salvatore Brusca), passò da piazza delle Stimmate, la sede del Nucleo Operativo dei Carabinieri, una goliardata voluta da quei ragazzi della “catturandi” che volevano riprendersi dopo aver perso il primo round con dall’arresto di Totò Riina da parte dei cacciatori dell’arma capitanati dal capitan Ultimo. E poi arrivarono, a sirene spiegate e a folle velocità.
Rischiammo di essere arrotati quella sera! Scattammo a più non posso, ma poco riuscimmo a vedere dei due mafiosi. Si fecero Agrigento Palermo letteralmente sotto il deretano dei ragazzi della catturandi con le manette ai polsi dietro la schiena. A Giovanni le mise Luciano Traina, un poliziotto che aveva perso il fratello Claudio nella strage di via D’Amelio. Traina gliele strinse forte, all’ultimo scatto. Non si sa come, ma la chiave fu gettata via. No, non in senso figurato, volò davvero dalla finestra della villetta dove i fratelli trascorrevano la propria latitanza. Dovettero chiamare i pompieri quella sera alla mobile per toglierle. Il vigile del fuoco arrivò con due grosse cesoie, io lo vidi distintamente che entrava e dopo pochi minuti, usciva. Michele Naccari come sovente faceva , riuscì ad intrufolarsi dentro la squadra mobile, lui li era di casa, come adottato dai poliziotti. Aspettava il momento giusto per fare una bella foto. Nel frattempo io chiesi a Peppino, un ispettore della catturandi di avere la “testina segnaletica” di Brusca. Mi disse che la Polaroid si era guastata e che l’amministrazione non aveva destinato fondi per ricomprarla. Tornai in agenzia e ne presi una. Era nuovissima, era il modello “600” si e no aveva “strippato” tre fotografie.
Gliela regalai, ma strappai la promessa che la prima segnaletica doveva darla solo a me e subito. Promessa mantenuta! Ce l’avevo! Avevo l’esclusiva anche se per poche ore. Poche ora che fanno la differenza in un mestiere dove il primo che consegna la foto viene pagato mentre gli altri no. Venne la notte, ricordo il momento più drammatico. Una giovane donna con un bambino sui quattro anni entrarono in caserma. Era Rosaria Cristiano, la compagna di Giovanni Brusca con il figlioletto. Ci raccontarono che fecero vedere il piccolo al padre e che un funzionario gli disse “guardalo bene questo bimbo perché quando uscirai, se uscirai, non lo riconoscerai più avendo egli almeno 40 anni”! Tornai nel mio studio che era notte fonda, le due circa e sviluppai e stampai tutte le fotografie che avevamo scattato. Il giorno dopo dovevamo distribuirle a tutti i giornali. Nel frattempo per Naccari, che dentro la squadra mobile era rimasto, arrivò l’occasione. Chiese che Brusca facesse un passaggio davanti la fotografia di Falcone e Borsellino che il fotografo Tony Gentile rese famosa. Lui era li. Fermo per pochi secondi, pochi secondi che consentirono al fotografo di immortalare un pezzo di storia: Il boss sconfitto davanti la foto delle sue vittime. La mattina dopo davanti a decine di fotografi ed operatori l’uscita dell’arrestato. Un rito quasi pagano che ricordava i giochi gladiatori dentro l’arena nell’antica Roma. Si, quella era la scena: la bestia catturata resa inoffensiva e offerta al pubblico sacrificio. Le urla e le invettive di centinaia di poliziotti e la tensione palpabile li ricordo ancora adesso e mi viene la pelle d’oca. Anche se libero li ricorderà anche Brusca, il “verro”, così chiamato sin da ragazzino per quella sua statura tracagnotta che ancora oggi ricorda quella di un maiale.
Foto: Lannino e Naccari/Studio Camera