Per una riscoperta dell’Ottocento pedagogico ovvero l’elogio di Emilio Salgari

Articolo di Filippo Scimé

L’esigenza della ricostruzione o della costruzione di un canone letterario non può essere sottovalutata oggigiorno. Non si tratta di un discorso nazionalistico, ma di valorizzazione e di tutela del proprio patrimonio, il nostro appunto, che per millesimi infiniti di tempo è andato alla ricerca della pantera “questa fiera fa sentire il suo profumo ovunque, ma in nessun luogo si mostra” scriveva il sommo poeta. E nondimeno un patrimonio che, nascendo da una cospicua e miserrima moltitudine di placiti, si è innalzato sino ad erigere monumenti di perenne grandezza. Allora perché non ripensarlo ad usus delphinorum? Perché tanto discorrere e tanto affannarsi sul rilascio di doti monetarie, quando possiamo donare e riservare per i ragazzi una dote culturale? E dove pescarla? Mi verrebbe da dire: indovinala grillo! E se ripensassimo ai maggi fioriti che profumavano l’Ottocento? L’Ottocento, appunto, in quel coacervo di lingue e dialetti, presentando una polla d’acqua fresca preservata fino agli aneliti del Risorgimento, appariva, forse, il secolo capace di adunare esperienze culturali e letterarie disparate, e confluite nel santo lavacro che ebbe a testimonio il Manzoni; la cui risciacquatura in Arno segnò, inevitabilmente, un punto di non ritorno per la nostra letteratura.

Fu proprio in quel momento, infatti, che imparammo a scrivere e poi, in un secondo momento, a leggere, sebbene questo avvenisse in un’Italia ancora claudicante, da poco unita, ma divisa da sterminate latitudini culturali. Eppure grazie a una congerie di capolavori che fiorivano a piè sospinto, imparammo a unificare il nord e il sud in nome di una giovine e neonata letteratura, a innamorarci, a dubitare, a sognare e conoscere mondi lontani, ben superiori di gran lunga alle mete che qualsivoglia aristocratico periegeta poteva raggiungere nel XVII secolo con il suo Grand Tour. Non capostipite, ma padre putativo di una letteratura di viaggi e di avventure fu l’eroico Emilio Salgari, il cui accento tonico sulla penultima sillaba va rispettato in virtù dell’omonimia del cognome al salgaro, il salice di oggidì. Chissà quante volte le sue dita tremolanti nella notte, con perspicacia e abnegazione, perlustrarono gli incerti sentieri degli atlanti, quando ancora campeggiavano spazi privi di campiture e sfolgorava la dicitura: hic sunt leones. O quanti sogni si incagliarono in sabbie polverose, in mari burrascosi dove corsari di passaggio celavano chissà quale refurtiva.

O quanta cenere e quanti nuvoli di trinciato annebbiarono le sue pagine, mentre il rosolio bevuto ne prolungava i languori e le furie. Il campionario di prosa offerto dallo scrittore veronese è vasto, interminabile e difficile da catalogare, se si pensa che il Salgari postumo, che aveva spezzato eroicamente la sua penna, sia stato offuscato dagli apocrifi. Si presenta ai nostri occhi un’anima tormentata, non solo dai continui debiti anche in virtù del mancato riconoscimento letterario (il quale tarda a venire ancora oggi). Il motivo non si è mai capito; se consideriamo l’eccessiva fretta della produzione come la causa principale di una scadente qualità, cadiamo in fallo. Non possiamo di certo attualizzare con metodicità novecentesca (penso a quanto fatto da Benedetto Croce) un autore molto prolifico che si muoveva entro un ambito culturale post-unitario e oserei dire primitivo, una sorta di eden intatto che disconosceva i generi del secolo addietro. Le uniche latitudini entro le quali Salgari spaziava erano circoncise dalle pareti delle biblioteche, una babele entro cui si mosse con spirito di ricerca filologica e i cui prodotti, se avessero ottenuto lo status di minute, sarebbero stati di tutt’altra levatura: prova ne sia la consuetudine di trascrivere intere pericopi testuali, mutuate dai testi enciclopedici che appesantiscono a tratti il testo; l’intento era quello di creare una sorta di vitigno ramificato che spiegasse perché in quel dato luogo si trovasse quel dato albero e servisse al personaggio ramingo che ivi transitava: c’è sempre un succo da cavare per placare la sete, una vivanda da cogliere, un pergolato di viti sotto il quale stendersi e bearsi dell’ombra.

Pertanto l’opera di Salgari nasce come ricerca ininterrotta di fonti storiche e geografiche ed è il primo lavoro multiculturale che risente di un amalgama antropologica che non sfigura di fronte agli studi successivi del primo Novecento, recuperati solo in parte dopo la caduta del fascismo. Salgari, inoltre, era capace di creare, mai prima di allora, svariati universi narrativi, di sviluppare avventure con frequenti richiami alle produzioni antecedenti: nacque così il concetto di seguito e di produzione capace di racchiudere un ciclo, osando quantomeno un’omerica ringkomposition. Negli innumerevoli personaggi l’autore trasfonde una caratura psicologica non indifferente, se pensiamo che l’epopea del romanzo storico in Italia si affermava lentamente. Sulla base di questo aspetto il classico cliché eroe vs. antagonista è impreziosito da un novero di personaggi secondari, di taverne, di osti, di donne, non ancillari, ma riconducibili ad una narrazione europea e d’ampio respiro, emula di Jules Verne e del Conrad maturo. I medesimi personaggi risultano inseriti anche in un accurato contesto storico: il Ciclo dei Corsari delle Antille rievoca infatti le scoperte del secolo d’oro e l’era delle dominazioni inglesi, olandesi e spagnole, scandite dai primi conflitti internazionali; il Ciclo dei Corsari delle Bermude, ad esempio, si alligna alla decolonizzazione dell’America e dal Canada. La ricostruzione delle informazioni, dunque, non è astorica, né poggia su intenzioni fiabesche, è la lingua dell’uomo a smorzare la realtà, a confonderla, a respirare l’avventura qualunque cosa essa significhi. Detto ciò, per quanto sia cospicuo il suo patrimonio, non può essere dilapidato nello spazio di un breve rigo nella letteratura d’appendice. Infatti scorgiamo nelle sue pagine meccaniche semplici, la riproposizione di valori quali l’amicizia, la fiducia, la riconoscenza nei confronti dell’altro, la riscoperta delle culture periferiche, lontane allora dall’impronta europea. Senza dimenticare che la scrittura salgariana è diventata dagli anni ’20 in poi canovaccio della scrittura cinematografica.

La lettura è sana quando come unica finalità si pone l’arricchimento. Di un arricchimento simile ne voglio ricordare un breve estratto dalle pagine dei Corsari delle Bermuda, che recita: “Si narra anzi che una volta, durante la dominazione francese nel Canada, un governatore giunto allora allora dalla Francia, per conciliarsi subito le simpatie dei capi delle tribù indiane canadesi, diede una festa assai bella in un castello fatto di ghiaccio e invitò tutti i sackem assieme agli ufficiali, agl’impiegati d’amministrazione, e alle signore là stabilite. Tutti gli europei intervennero alla festa ben bene impellicciati, poiché era un inverno freddissimo; e il governatore stesso si era acconciato in modo che pareva proprio uno di quegli orsi che Testa di Pietra aveva affascinati col suo sguardo incantatore. I sackem invece vi andarono con i loro ornamenti solenni e decorativi, ma assai poco riparatori del freddo. Vedendo molti punti del corpo dei capi tribù canadesi scoperti, il governatore se ne meravigliò e chiese ad un sackem: «Ma come!… Voi non sentite freddo, ché avete la persona seminuda?» Il capo tribù sorrise e a sua volta domandò: «E voi perché tenete il viso scoperto?» «Perché esso non soffre.» «Ebbene,» soggiunse il sackem, «noi siamo tutto viso!»”. Eccolo il conciliabolo delle differenze, la riscoperta di una cultura differente dall’impronta europea: oggi non ci affanniamo forse a riproporre il concetto di rispetto o dell’importanza delle altre culture? Non subodoriamo una lezione a noi nota? Eppure Salgari ne offre un sunto prezioso, non così lontano dalla retorica moderna.

E, leggendo le sue pagine, altre primizie ancora si potrebbero scovare. D’obbligo, prima di congedarci, la menzione di altri autori ingiustamente caduti nel dimenticatoio e trascurati perché ormai figli di una retorica melensa e noiosa: parlo di Vamba, De Amicis (un tempo si leggeva persino alle elementari), Fogazzaro, Collodi (Pinocchio dovrebbe essere obbligatorio in tutte le scuole d’ordine e grado): tutti diventati l’odiosa minestra di capellini del discolo Gian Burrasca, ma “una buona e generosa minestra per chi ha uno scarso desinare sarà sempre la benvenuta” diceva Pellegrino Artusi. Non si sa per quale idea balzana si è deciso di trascurare tali sentieri narrativi. Se non forziamo l’entrata di certe ostili serrature, rimarremo perennemente all’uscio. Si avvii una riflessione: può essere attuale riproporre Salgari? Direi di sì e, parafrasando Protagora di Abdera, aggiungerei che la geografia del mondo è metro e misura di noi stessi, il perimetro della quale non può che essere sondato da chi, in primis umanamente e poi pedagogicamente, ha trasformato un tesoro di sogni in parole, in romanzi, in vita, quantunque spenta, o spezzata in questo caso, ma ristoratrice e deliziosamente attuale.

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