Al di qua del faro è lo studio che ri-prende, ri-calca, ri-evoca la raccolta Di qua dal faro (1979-1999) dello scrittore Vincenzo Consolo (1933-2012). Ma in luogo della staticità della locuzione «di qua dal faro» il professore Dario Stazzone – italianista dell’Università degli Studi di Catania e Presidente del comitato catanese della Società Dante Alighieri – ha preferito il titolo Al di qua del faro «per rendere l’idea del movimento dei viaggiatori impegnati nel Grand Tour. Il sottotitolo fa riferimento al tema-topos del viaggio che già si rivela chiaramente e meravigliosamente nella terzina dantesca ad esergo della raccolta:
E la bella Trinacria, che caliga / tra Pachino e Peloro, sopra ’l golfo / che riceve da Euro maggior briga […]
(E la bella Sicilia [Trinacria], che si vela di caligine [caliga] fra il capo Pachino e il capo Peloro, presso [sopra] il golfo di Catania, che sostiene il più forte assalto [briga] dallo Scirocco [Euro]
Al di qua del faro ha come «centro» la scrittura manieristico-barocca, raffinata e colta di Vincenzo Consolo (1933-2012). Al di qua del faro è un titolo iconico e tematico in quanto evoca il «faro» come «ideale confine tra la Sicilia e ciò che ne stava al di fuori».
È una monografia, un «polittico» letterario incernierato dalla memoria e dal viaggio. La memoria e il viaggio sono i due poli interscambiabili della tessitura e dell’affabulazione di Consolo al «telaio-officina» della Sicilia intesa come universale metafora.
Un saggio che attraversa l’opera consoliana illuminandone i nuclei ispiratori, i significanti, i motivi del nóstos e della nostalgia, il valore della memoria. La ricerca e lo studio del professore Stazzone è tessuta con gli «aghi» della grande generosità e di un sincero senso dell’amicizia che ha legato in vita lo studioso con lo scrittore.
Un edificio saggistico-letterario che a noi lettori offre un viaggio (interiore ed esteriore) lungo sei tappe: Il ritorno all’isola di «violenza e inganno, di utopie e distopie»; Retablo, ovvero Le voyage pittoresque del cavaliere Clerici; La Sicilia dell’olivo e dell’olivastro; di un ritorno impossibile, ovvero dello Spasimo di Palermo; Viaggiatori al di qua dal faro; Il «luogo ritrovato dell’ispirazione e della poesia»: Guccione e il felice ritorno alla petrosa Itaca.
Pagine come porte, finestre, metafore dischiuse verso l’infinito che hanno l’ardire di comunicare, trasmettere «la conoscenza del Luogo, del sempre conosciuto, misterioso luogo, bellissimo e tremendo che si chiama vita».
Nel primo capitolo, Il ritorno all’isola di «violenza e inganno, di utopie e distopie», lo scrittore Vincenzo Consolo riflette sul motivo letterario dell’isola, rappresentata come locus amoenus o locus terribilis. Vincenzo Consolo ri-legge la vicenda biografia di Giovanni Verga e di Elio Vittorini, i romanzi di Vitaliano Brancati e di Stefano D’Arrigo:
«Isola. L’archetipo omerico delle isole fantastiche, isole di violenza e inganno, di utopie e distopie, di deserti e di silenzi, di linguaggi sorgivi ed ermetici, è scivolato per tutta la letteratura occidentale, è passato per tutti i grandi poeti e scrittori dall’antichità fino ad oggi. Non è questo l’archetipo che qui ci interessa, ma l’altro, quello più importante, dell’Odissea, di questo nostro grande poema della nostra civiltà: l’archetipo del nóstos del ritorno. Del ritorno in Sicilia dei narratori moderni.
Ma non è più ora, la Sicilia, la fantasmatica isola della primordiale natura minacciosa e devastante, non è più il suo isolamento, nella terribilità di quel suo stretto passaggio. Ora l’isola […] è ricca di frantumi di civiltà, di frammenti linguistici, è composita culturalmente, problematica socialmente. Tutto questo ha fatto sì che nel tempo, paradossalmente, quel breve braccio di mare che la staccava dal Continente si ampliasse a dismisura e la rendesse più estrema rispetto a un centro ideale, la relegasse, a causa della sua eredità linguistica, della sua dialettalità, ai margini della comunicazione.
Da qui la necessità, l’ansia negli scrittori isolani di lasciare il confine e d’accentrarsi, di uscire dall’isolamento e di raggiungere i centri storici, culturali, linguistici.
Primo fu Verga, nella letteratura siciliana moderna, a compiere il viaggio, a lasciare Catania e ad approdare a Firenze.
Il tema del viaggio segna gli esordi della scrittura di Vincenzo Consolo, La ferita dell’aprile, pubblicato nel 1963 e ed è presente anche in opere all’apparenza più statiche come Il sorriso dell’ignoto marinaio, il romanzo del 1976 che ha consacrato l’autore imponendolo decisamente al canone letterario del Novecento. Tra i primi lettori e recensori de Il sorriso dell’ignoto marinaio figura Leonardo Sciascia.
In questo viaggio inteso come attraversamento, come discesa in un mondo di oscura sofferenza Vincenzo Consolo si identifica, volta per volta, con l’antropologo Antonino Uccello che percorreva le campagne siciliane per recuperare i labentia signa di un mondo contadino ormai prossimo a scomparire – labentia signa, una «luminosa»» e splendida espressione che usavano i poeti latini per definire le stelle cadenti; ma anche le relazioni, i viaggi, gli amori possono essere dei labentia signa che brillano come stelle ma che si spengono come le stelle cadenti nella loro discesa, che lasciano il ricordo di come hanno brillato – o nell’indovino Tiresia costretto a guardare indietro, ad immergersi profondamente nelle spire, nei legami della memoria, per poter, a volte, anti-vedere ed acquisire capacità profetica.
Il capitolo secondo è dedicato a Retablo – un racconto, per dirla con Leonardo Sciascia, che è un miracolo. Centro e «cuore» di Retablo – scrive con sagacia Stazzone – è l’iter siculum settecentesco del cavaliere lombardo Fabrizio Clerici che « fuggendo l’amore infelice per Teresa Blasco, muove da Milano per giungere in Sicilia, in quest’isola lontana, in questa terra antica degli dei, delle arti, delle conquiste e dei disastrosi avanzi, con lo scopo di trovare, nella rappresentazione pittorica dell’antichità, un antidoto alla delusione d’amore, e più in generale allo «scontento del tempo che viviamo». Con questo racconto Vincenzo Consolo rende un omaggio ad Alessandro Manzoni, il padre del romanzo italiano e ricorda il Viaggio per l’Italia, pubblicato in italiano, di Johan Caspar Goethe padre dell’autore del Werther, dell’Italienische Reise, del Faust:
L’Italia è la terra dove si parla la dolce lingua […] è la patria della cultura e dell’arte, della grecità, della romanità, del Rinascimento e del Neoclassicismo; è la terra della luce e infine – occorre ricordarlo? – la terra dove fiorisce, in piena terra, il limone, dove fiorisce l’arancio.
Il viaggio in Sicilia immaginato, composto, tessuto da Consolo è la «presa di coscienza di una condizione di inquietudine e peregrinazione esistenziale» propria, caratteristica dell’Uomo prima ancora che all’artista e all’intellettuale.
Nel terzo capitolo del saggio si analizza la «caduta dell’utopia» rappresentata nella scrittura e pubblicazione, nel 1994, de L’olivo e l’olivastro. Nelle pagine de L’olivo e l’olivastro il viaggio siciliano subisce una metamorfosi, si fa «discesa all’Erebo»: Itaca diventa Troia. Il narratore odissiaco de L’olivo e l’olivastro – scrive Dario Stazzone – deve affrontare un’infinita di prove. Deve superare metaforicamente il passaggio attraverso i due gorghi fatali di Scilla e Cariddi, posti a guardia dello Stretto di Messina, rappresentati da Consolo come il difficile varco tra la vita e la morte, tra la natura e la cultura: esso è il bivio di fronte al quale si trova ciascun uomo che deve scegliere tra l’utopia feacica e l’amara Itaca della realtà. Un romanzo al bivio tra un passato di cultura (ad esempio l’arrivo di Caravaggio a Siracusa, la celebrazione catanese degli ottant’anni di Giovanni Verga) e il presente di rovina (un’isola devastata dal cemento, dall’industrializzazione). Una terra lontana da quella cantata da Teocrito e Virgilio, una terra ove Consolo scorge i primi segni, i primi segnali di una xenofobia.
Nel quarto capitolo – il saggista Stazzone – approfondisce il continuum narrativo de L’olivo e l’olivastro che definisce e dà la forma al romanzo Lo spasimo di Palermo, pubblicato nel 1998. Lo Spasimo è caratterizzato da una complessa articolazione dei piani narrativi che pongono in rapporto la figura dell’anziano scrittore Gioacchino Martinez, ospite in un piccolo albergo parigino, col suo doppio giovanile Chino. Un romanzo che è un viaggio a più «livelli». Quello dell’anziano scrittore verso Palermo – un viaggio in treno e in nave come i viaggiatori del Grand Tour -. Un viaggio che segna la tappa finale del trittico consoliano (Sorriso dell’ignoto marinaio, sul Risorgimento incompiuto; Nottetempo, casa per casa, segnato dalle violenze fasciste). Lo spasimo di Palermo, raccoglie e riafferma la lezione intellettuale e morale di Leonardo Sciascia. Lezione che trova una sua tensione nelle ultime pagine del romanzo quando è lo stesso Martinez a morire nel tentativo di salvare il giudice Borsellino. Un romanzo che si conclude con la morte dell’anziano scrittore e del magistrato Borsellino.
Nell’ultimo capitolo, il professore Stazzone, segue, delinea, traccia e dona forma narrativa e saggista al nóstos di Piero Guccione, che alla fine degli anni Settanta, decide di ritornare nella sua Itaca-Scicli ove ricominci a «a disegnare nella nuova luce (“d’oriental zaffiro”) con nuovo linguaggio, nuova sintassi». Pietro Guccione nella sua terra d’infanzia ritrova «la sua luce, i suoi campi, il suo cielo, il suo mare». Quello di Guccione – scrive Consolo – è il luogo ritrovato dell’ispirazione, della poesia. Un nóstos colmo di speranza che in questo confuso, «malato», «liquido» tempo presente possa essere e rappresentare un segno – in un’epoca priva di segni – poetico ovvero di produzione di humanitas.