Il Guerrin Meschino entrò a far parte della produzione bufaliniana nell’anno di grazia 1991 seguendo dinamiche diverse da quelle consuete; il libello, infatti, venne pubblicato in un’edizione non venale, a tiratura limitata, presso Il Girasole, piccola casa editrice diretta dal compianto poeta-editore Angelo Scandurra. Probabilmente Bufalino voleva limitare la fruizione dell’opera entro un circuito chiuso che non ricusasse aprioristicamente il vezzo di uno scrittore che, varcato da tempo il fosso dell’anonimato, era perennemente ligio ai dettami dell’incertezza. A questa prima edizione ne seguirono altre due: la seconda edizione, con consistenti modifiche, edita da Bompiani nel 1993; infine una terza con l’introduzione di Alberto Cadioli, postuma, riedita da Bompiani, del 1998, e sancisce l’entrata del romanzo nel novero dei “Grandi Tascabili Bompiani”. Una nuova ristampa Bompiani, del 2019, priva di introduzione e riproducente le fattezze della prima edizione, si fregia di una copertina all’ultimo grido che riporta il dipinto di Renato Guttuso La crocifissione.
Assolto il doveroso elenco computistico, possiamo addentrarci nel percorso creativo, precisando innanzitutto che la decisione di usare una materia distante dal microcosmo di Bufalino (inedita per il panorama letterario dell’epoca) risponde al tentativo di raccontare una passione che ha fatto breccia nei ricordi polverosi del passato, dove il ragazzo di ieri ha rievocato nell’uomo di oggi l’atmosfera magica dell’opera dei pupi. Un passato – quello di Bufalino – rimestato dalla memoria e condiviso con il lettore, che da ignoto scrutatore si fa orecchio attento e occhio ammaliato, immaginando che quel fondaco d’ombre improvvisamente si animi.
L’appassionato Bufalino, ripescando dalla memoria il palpitante bambino che fu, trae dalla famosa leggenda solo la cornice: il famosissimo (o almeno un tempo lo fu) cavaliere Guerrino prenominato Meschino, di ignote origini, andava alla ricerca dei propri genitori affrontando una miriade di peripezie, da paurosi abissi a mostruose belve, in un lungo viaggio che lo riportava ai confini della terra. La conclusione dell’avventura prevedeva la felice scoperta dei nobili genitori, caduti in disgrazia, e delle origini cristiane di Guerrino. Fu così che lo scrittore comisano, modificando con la sua “tavolozza” sublime l’impianto, fece di Guerrino un pupo a filo, come quelli visti da bambini durante le feste di paese, e disegnò una parabola che, troncata dalla stanchezza dell’oprante, non conosce un finale, se non un definito senso di vaghezza indefinita.
La scelta di accostarsi a una revisione del classico copione dell’Opera dei Pupi consente allo scrittore siciliano una maggiore possibilità di plasmare la scena a suo piacimento. Il percorso intrapreso è un’evoluzione che riunisce più storie (quella umana dello scrittore, quell’artistica del puparo, e quella fantastica del pupo), condensate in un’unica, dirompente, narrazione, per la quale già meriterebbe una lunga riflessione l’epigrafe iniziale tratta da Arthur Rimbaud “O saisons, o chateaux”, un passe-partout che inaugura il viaggio a ritroso tra le crisalidi della memoria, schiuse al fiorire di quel turbinio colorato sugli sportelli dei carri e sugli scacchi dei cartelloni.
Che anche il romanzo debba prestarsi ad un’analisi inconsueta, è segnalato dall’esordio, che evidenzia i ghirigori del prosimetro, scandendo il tempo con un incipit poetico noto come “Lamento del vecchio puparo”; in questi versi il puparo – nei panni del quale è adombrato lo scrittore – ricorda nostalgicamente i segni di una gioventù perduta. La giovinezza è paragonata all’inconsistenza di un tenue sogno, le cui immagini si dissolvono e svaniscono; la vecchiaia, invece, ha le stesse sembianze di un nugolo di nuvole nere, pronte ad annunciare una catastrofe, difatti leggiamo:
“Non si dovrebbe diventare vecchi.
mi stropiccio le mani l’una con l’altra.
sono due ghiacci ed erano due bestie calde,
sollevavano il fuscello e l’incudine,
carezzavano, facevano male.
Io non so chi mi ha tolto quelle mani.
Annaspano ora, imbrogliano i fili,
i pupi cascano da tutte le parti.”
Da questo verso e da una narrazione che, come vedremo più avanti, non rifugge a incursioni nella realtà contemporanea è possibile definire l’opera una metafora, in cui il teatro dei pupi è la vita, e puparo, autore e pupo sono la stessa persona. La scrittura di Bufalino permette di cogliere queste sfumature nel Guerrin Meschino, di penetrare l’intima essenza delle cose attraverso un lessico che accoglie la lezione dei simbolisti francesi, escogitando un modus scribendi iperletterario, che esibisce la propria distanza dal linguaggio comune. Come sosteneva il professore Zago, direttore scientifico della Fondazione Bufalino, la sperimentazione linguistica, non asseconda una predilezione gargantuesca della parola, ma è al servizio di un autentico strazio esistenziale, di un sentimento della vita così complesso.
Non si può sottovalutare anche la stratificazione di un altro linguaggio, compendiato dalla dimensione teatrale dell’opera. La suddivisione organica del testo avviene in cartelli, i quali si riferiscono chiaramente ai cartelli utilizzati negli spettacoli; questi come ricordava il grande etnologo palermitano Giuseppe Pitrè “dipinti ad acquarello ritraggono varie scene della storia in corso di rappresentazione, e servono a chiamare l’attenzione de’ ragazzi, i quali si fermano a bocca aperta a contemplarli e spiegarli”. Ragion per cui il romanzo presenta l’avvicendamento di quattro cartelli; sotto di ognuno di essi figurano le illustrazioni tratte dalla cosiddetta “bibbia dei paladini” di Giusto Lodico, pubblicata a metà dell’Ottocento, tutte le edizioni Bompiani hanno rispettato l’ordine delle decalcomanie stabilito da Bufalino e attinto da quest’antica opera.
Articolando una dimensione sinottica dell’opera ricordiamo che nel Primo Cartello la prosa di Bufalino è assimilabile alla pittura; egli mischia i colori della fiaba alle labili coordinate temporali. L’atmosfera creata è sublime, e la continua associazione di parole e immagini è un passaggio estatico. Con la stessa sensibilità della musica profusa dai polpastrelli delicati di un pianista, il lettore è accompagnato in un paesaggio da sogno: “Le stagioni non usavano ancora mischiarsi, ma ciascuna aveva per stemma un colore e un animale diverso: la primavera l’allodola celeste; l’estate un toro di bronzo infocato; l’autunno, una tortora grigia; l’inverno un lupo di pelo nero che raspa dietro la porta…”. Nascita, infanzia, gioventù e conquiste di Guerrino si alternano di pagina in pagina a una dimensione psicologica che lascia trasparire la fragilità umana del personaggio, una profondità psicologica ben lontana dal mondo medievale (ripenso al monologo del nostro cavaliere che nelle sue parole unisce la gioia di essere libero e la tristezza di essere solitario nel mondo: “Poiché veramente è stata meschina sorte, la mia, di soffrire, non so per quale accidente o malizia, l’oltraggio maggiore di cui abbia a dolersi creatura mortale, cioè di non conoscere carezza di madre, affettuoso rimbrotto paterno, amistà di fratelli o sorelle”). Guerrino, pertanto, vagheggia l’incessante idea di ritrovare le sue origini attraverso un lungo viaggio: un leitmotiv destinato ad avere successo fin dai tempi del romanzo greco.
Nel Secondo Cartello hanno inizio le avventure di Guerrino dopo la sua dipartita da Costantinopoli. Le vicende raccontate racchiudono echi medievali, e inoltre traspare un marcato e ossequioso cattolicesimo secondo quell’antica dicotomia tra cristiani e saraceni, identificati rispettivamente in fedeli e infedeli (o buoni e cattivi). Una breve poesia, intitolata Intermezzo, interrompe il susseguirsi delle avventure di Guerrino, proseguendo nel solco del prosimetro. All’interno del romanzo possiamo definire l’Intermezzo come una pausa del puparo, un netto stacco dalla narrazione simile a un braccio che asciuga una fronte imperlata di sudore. In questa riflessione poetica individuiamo che da un’iniziale “estraneità” fra l’eroe e il narratore si perviene a una identificazione, cosicché il dubbio, proiettandosi dall’eroe all’io narrante, diventa più grande, più difficile da comprendere:
“Come se fossimo più veri
dentro i nostri gusci di carne,
trinciando gesti a vanvera nell’aria…”
e perciò estensibile agli uomini, che confluiscono metaforicamente nell’uso del plurale maiestatis:
“Noi come lui nel ventre della balena,
infiniti Pinocchi”.
Il Terzo Cartello presenta un nuovo personaggio che entrerà a far parte della diade originaria costituita da Guerrino e Macchiabruna, “abbastanza carico d’anni e macilento di membra”, che genera stupore in Guerrino, poiché parla un idioma incomprensibile, e scoramento, perché i disegni fatti da Guerrino su un mucchio di cenere – che rievocano curiosamente l’episodio biblico della torre di Babele – non diradano le perplessità sulla stabilità di quest’uomo. Appurata la sua pazzia, Guerrino si risolve a nominarlo scudiero e a battezzarlo con il nome, guarda caso, di Babele. Giovanni Tesio in una vecchia recensione sul Guerrin Meschino, si soffermò su questo curioso personaggio definendolo come “una creatura fraterna del Guardulù” di Calvino. Proprio lo scudiero Babele ascolta in seguito una lunga confessione di Guerrino. L’eroe ha trovato un compagno con il quale dare libero sfogo al disincanto e all’amarezza del suo animo, dacché presagisce una sempre più opprimente “impazienza di tornare indietro” . Lo sfogo culmina quando Guerrino, nella sua esistenza di uomo pieno di sogni e sentimenti, si augura di “divenire morendo uno spauracchio di cartone, di cui fra mille anni taluno dipingerà le inutili glorie su uno sportello di un carro o un cartellone di pupi”.
Onirismo e magia culminano nel momento in cui Guerrino “raggiunge” il Castello senza Tempo e libera dal sortilegio gli Immortali, gli uomini più antichi scampati al diluvio, “i quali vivono senza tempo, per essere stati creati quando ancora non c’era il tempo. Costoro non invecchiano mai, non si corrompono mai, bensì la loro condizione è la noia”. Il racconto, nato dal verosimile, muore in un sogno: “Guerrino aprì gli occhi viscosi di sogno, li richiuse, li riaprì”. Il discrimine tra autore, puparo, e protagonista diventa sempre più labile, e riflette su di essi l’accecante sole della realtà che comincia a dissipare il barbaglio dei sogni. Alla fine del Terzo Cartello è presente il secondo e ultimo Intermezzo, nel quale si ripresenta il distacco dalla narrazione, come se con un brusco colpo di tosse il puparo rientri a piè pari nella realtà, dove, ottenuto il consenso degli “sbirri”, si appresta a continuare, sempre più incredulo, la sua storia di “draghi ed eroi”, nonostante il progressivo disincanto che lo condurrà a terminare questo viaggio.
Nel Quarto Cartello, l’ultimo e più tormentato, Guerrino continua a viaggiare senza sosta per raggiungere gli Alberi del Sole, meta originaria del suo viaggio. Giunto nel deserto di Lop riesce, “fra spaventi e speranze”, a uscirne indenne. Avvicinandosi alla meta, proprio quando comincia a sentirsi smarrito nella sua solitudine di eroe, entra in una buia caverna. Dopo un lungo peregrinare, avviene il fortunoso incontro con il serpente Macco, un tempo spietato predone fra quelle gole. L’impressione generata nella mente del lettore è di un apparente collegamento alla Commedia dantesca. Guerrino ha dinnanzi un peccatore che gli racconta la sua tragedia e la pena che egli espia in quest’oscuro budello pieno di “vene e caverne”. Un paragone – quello con Dante – tutt’altro che fantasioso, giacché Guerrino superando l’abisso penserà che quello sia l’Inferno.
Proprio quando il nostro eroe si trova nei pressi del ciglione e guarda tremando l’abisso, lo scrittore, in un moto di disgusto e amarezza improvvisa, inserisce il componimento Chiuso per lutto. La poesia fu concepita nel Maggio del 1993, cinque mesi prima della pubblicazione della seconda edizione presso Bompiani. “L’appartato e reticente” Gesualdo Bufalino chiese spazio su un giornale, Il Corriere della Sera, per dare voce allo sconforto derivante dalle stragi di mafia, che causarono le morti dei magistrati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Il brano s’intitolava Fuori scena del vecchio Puparo. Versi per un anniversario. Ne riporto obbligatoriamente un piccolo lacerto testuale:
“Lasciamo Guerrino per un bel po’
a sbrogliarsela con le tenebre
sul ciglione dell’abisso.
Gli farà bene vegliare anche lui
in questa Notte d’Ulivi della Sicilia…
Sicilia santa, Sicilia carogna…
Sicilia Giuda, Sicilia Cristo…
Battuta, sputata, inchiodata
palme e piedi a un muro dell’Ucciardone,
fra siepi di sudari in fila
e rose di sangue marcio
e spine di sole e odori,
sull’asfalto, di zolfo e cordite…
Isola leonessa, isola iena…
Cosa di carne d’oro settanta volte lebbrosa…”.
La gravità del fatto invade la preziosa riscrittura di questa fiaba cavalleresca, la ammanta del buio abissale che cinge Guerrino e non basterà la protezione del Nazzareno, né alcuna preghiera. Non c’è rimedio, né speranza, né parvenza di giustizia, e altre infinite negazioni seguirebbero questo triste corteo, questa ignominiosa pagina della nostra storia, che a volte sembra, nella nostra ingiustificata verecondia, aver dimenticato troppo presto o ricordarsene quando fa comodo. Questo grido, in un silenzio sovraumano, polverizza baracca e burattini; non verrà nessuno a salvare la Sicilia.
La narrazione prosegue e il nostro eroe, giunto ai fatidici Alberi del Sole, sente le parole tanto agognate: “Il tuo vero nome è Guerrino. E sei stato battezzato due volte. Tuo padre è un barone cristiano, tu sei di schiatta reale”. Sempre la stessa voce gli annuncia: “Vivono entrambi in due posti disgiunti di una medesima isola. […] tre incontri, tre prove dovrai affrontare: vincere le parole del Veglio; farti vincere dalle parole dell’uomo; insegnare la tua parola a quel bambino”. Guerrino in questo turbinio di emozioni si avviluppa all’interno della spirale del dubbio, lo stesso che determinerà il ricongiungimento di pupo e puparo.
La malinconia di Guerrino è la stessa di Bufalino, o meglio dire, più cordialmente, di Gesualdo. Il ragionamento con il Veglio della Montagna coincide con l’approssimarsi della fine dell’avventura. Il nostro eroe è di colpo invecchiato, “fatto più simile ad un ladrone che a un paladino”. Il Veglio – incarnazione di un saggio che ha capito il giuoco – vuole fare di Guerrino un suo adepto, gli offre una bevanda prodigiosa, lo blandisce con parole dolci, ma nulla scuote l’animo impavido del cavaliere. Con la forza dell’indignazione Guerrino rifiuta ogni servigio, e mentre vacilla la sua forma di personaggio letterario, ecco nelle sue parole d’addio un impercettibile scricchiolio di fili, ecco come un lungo dei fanciulli stupore che l’elmo, il pennacchio, la cotta, la spada, si materializzano dalle pagine. La sua consistenza si dissolve, il puparo prepotentemente si riappropria della scena, e due parole in calce segnano la fine: “Per la stanchezza dell’Oprante, l’Opra finisce qui”.
L’eroe dunque non arriva al ritrovamento dei genitori, Guerrino “dubiterà persino di averli voluti trovare”. Più la dimensione spaziale in questa duratura ricerca si dilata, lambendo gli estremi meridiani, più quella umana di Guerrino si restringe sino a svanire condensandosi in una perdita di identità. In questa ineluttabile decisione di calare il sipario, Bufalino compone il Congedo del Vecchio Puparo. Guerrino è smascherato e l’Opra è conclusa:
“Morendo anche io, muore anche lui,
risposi e lo staccai dal muro,
gli ruppi con due dita la noce del colle.
Che fa non l’avevate capito?
Sono io, Guerrino il Meschino”.
Non rimane che chiederci se siamo pupi o pupari.