Nel pomeriggio d’estate del 26 agosto 1950 Cesare Pavese prende una stanza nell’Albergo Roma di piazza Carlo Felice a Torino. Una stanza al terzo piano. Per effetto di una dose eccessiva di sonnifero fu trovato, disteso nella morte, la sera del giorno successivo, il 27 agosto. Cominciarono subito – scrive con saggezza il critico letterario Giulio Ferroni – i pettegolezzi, le interpretazioni e le condanne ideologiche e moralistiche del suo gesto, le curiosità morbose sulle sue motivazioni.
Per oltre mezzo secolo, da quella domenica sera di fine agosto del 1950 il foglietto dalla grafia di colore violetto, annotato a matita sul retro di una comune scheda di prestito bibliotecario, non è mai stato divulgato: «Perdono tutti a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi. Cesare Pavese». E in tutto questo tempo è stato custodito gelosamente da Maria, la sorella dello scrittore che nel 1980 lo regala, in segno di stima e d’amicizia, a Franco Vaccaneo, organizzatore e direttore del Centro studi pavesiano di Santo Stefano Belbo: «il più bello di tutti i paesi». Un foglietto, che grazie al consenso delle eredi, le nipoti Cesarina e Maria Luisa, le figlie di Maria Pavese, nell’anno 2005 si è deciso di far conoscere. Un foglietto che, sia pure nella sua brevità, è un documento che può essere considerato «un vero testamento umano, spirituale e letterario», risalente con ogni probabilità ai giorni precedenti il suicidio. Un foglietto rinvenuto sul comodino a fianco del letto, fra le pagine dei Dialoghi con Leucò su cui Pavese scrisse le sue ormai celeberrime parole d’addio: «Perdono a tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi».
L’uomo, lo scrittore, poeta, intellettuale Cesare Pavese – scrive con acume Giulio Ferroni – ha svolto un ruolo essenziale nel passaggio tra la cultura degli anni Trenta e la nuova cultura democratica del secondo dopoguerra. Pavese vive sulla «sua pelle» la ricerca e le contraddizioni del «mestiere di vivere» il «mondo della Letteratura» con cui il suo «io» non riesce mai a conciliarsi ma che nello stesso tempo cerca di affermare, con profondità, nella sua scrittura (Ferroni). Una scrittura che è documento, manifesto di impegno intellettuale e disperata solitudine. Uno «scavo nella quotidianità» (Italo Calvino) d’un mondo povero e grigio. Uno «scavo» dal quale emergono immagini indelebili che Pavese, con innato e maturo stile, fissa nelle sue poesie.
Cesare Pavese nasce nel 1908 a Santo Stefano Balbo (Cuneo). Frequenta, a Torino, il Liceo classico «Massimo D’Azeglio» con i compagni Leone Ginzburg, Massimo Mila, Noberto Bobbio, Federico Chabod. Pavese è allievo di Augusto Monti, docente di Lettere, maestro di coscienza civile ed autonomia intellettuale. Si laurea in Lettere, nel 1930. La sua Tesi di laurea è sulla poesia del poeta statunitense Walt Whitman (1819-1892). Entra presto in relazione con i circoli intellettuali antifascisti torinesi. È tra i collaboratori della rivista «La Cultura» ma soprattutto si afferma come consulente e prezioso animatore dell’allora nascente casa editrice Einaudi.
Esperto conoscitore della Letteratura anglosassone, Pavese, intraprende dal 1930 un assiduo lavoro di traduzione (assieme a Elio Vittorini) che rinnova la nostra moderna prosa narrativa. Traduce Moll Flanders di Defoe, David Copperfield di Dickens, Moby Dick e Benito Cereno di Melville. Nel 1935, per le sue amicizie politiche antifasciste, viene arrestato e sconta un anno di confino a Brancaleone (Reggio Calabria). Ma già nel 1936 rientra nel capoluogo piemontese. Dopo la Liberazione per testimoniare il desiderio di adesione al nuovo clima di rinnovamento socio-politico si iscrive al Partito comunista entrando in rapporto con la redazione del quotidiano «l’Unità» assieme al giovane amico, dai tempi del liceo, Italo Calvino.
L’opera e produzione narrativa di Pavese percorre le vie del «realismo» e del «mito». I ventisette brevissimi racconti in forma dialogica Dialoghi con Leucò (1947) sono l’opera dove la componente introspettiva, esistenziale, mitica è maggiormente accentuata. La bella estate (Premio Strega 1950) è una raccolta di tre romanzi brevi (appunto La bella estate, Il diavolo sulle colline e Tre donne sole), nella quale la tematica psicologico-realista si accentua. Nel 1950 pubblica il romanzo La luna e i falò. Un romanzo che racconta il «mito» e/o i «miti» di Cesare Pavese. Il poeta e l’intellettuale Pavese («l’uomo solo che si preme nel cuore il ricordo», Rivelazione v. 7 in Lavorare stanca) individua nel «mito» uno strumento conoscitivo capace di risalire alle radici dell’inconscio.
Quest’interesse, questa ricerca per il «mito» lo spinge a chiedere alla casa editrice torinese Einaudi la traduzione delle Opere di Carl Gustav Jung. La «creazione» del mito è il linguaggio fondamentale attraverso il quale l’Uomo si rapporta con il significato e con il mistero della sua vita.
All’amica scrittrice e poetessa Bianca Garufi (collaboratrice per qualche tempo anche della casa editrice Einaudi) co-autrice con Pavese del breve romanzo Fuoco grande (1959) confida: «Io ormai vivo a visiera calata con tutti, anche con te. A qualcuno mostrerò anche i baffi, ad altri soltanto gli occhi, ma il fatto è questo: di nessuno mi fido. Fin ché verrà il giorno che non mi fiderò nemmeno di me, e allora pace».