Bilogia: una bifora letteraria sulla vita che scorre

Articolo di Pietro Salvatore Reina

Lo straordinario intreccio di Letteratura – come «segno» della parola scritta – e di Vita costruisce l’ultima, in ordine di tempo, prosa narrativa dello scrittore e giornalista Sergio Sozi chiamata, dallo stesso autore, Bilogia.

Bilogia (in libreria dallo scorso 30 settembre) edito da Nino Bozzi Editore è, in primis, un neologismo inventato dallo stesso romanziere per cucire, unire, fondere due opere: Massimilla MCMLXXV e Sottosopra. Bilogia è una finestra, una bi-fora, letteraria che l’immaginifica e raffinata penna di Sozi è riuscita a ri-copiare dal libro della sua memoria, una memoria aperta da sempre alla ricerca linguistico-letteraria e che realizza un «personalissimo divertissement» dove si mescolano, con ironia, realtà e fantasia.

Sergio Sozi, nato a Roma nel 1965, vissuto a Spello e poi a Perugia, dal 2000 vive nella città di Lubiana. È un giornalista culturale, recensore per vari quotidiani e riviste. Traduttore letterario dallo sloveno all’italiano e organizzatore e fondatore, dal 2020, del gruppo Facebook La Piazzetta Letteraria (https://www.facebook.com/groups/2894533567322120/about).

Bilogia è una costruzione cardine che fonde in unità il breve romanzo Massimilla MCMLXXV che racconta la visione del mondo (Weltanschauung) di una giovane ragazza metropolitana della metà degli anni Settanta, Massimilia Aguri, alle prese con destini e avvenimenti inaspettati che finiranno per convergere nella vita della protagonista. Un breve romanzo segnato e percorso da un ritmo vertiginoso che trae energia da una lingua odorosa, variopinta, sonora, vibrante. E Sottosopra, l’«altro» romanzo che si tinge di giallo ma che soprattutto ricorda Gadda, Queneau e I soliti ignoti. Una storia di un disoccupato cronico trentenne, Giacomino Forsyte, travolto da sorprese, da enigmi, avventure ma soprattutto da una valanga di giochi di parole che disegnano una storia e una vita al di sopra delle righe.

D: Sergio Sozi, la Letteratura è un grande albero, è un’immagine delle vite alla deriva tra spazio, tempo, anime, amori. Lei con ironia ed intelligenza ficca non solo il naso ma dona alle storie che racconta ed intreccia un’intensità, un desiderio (Sehnsucht) straordinario e nuovo. Qual è la fonte, l’energia della sua produzione letteraria?

R. Molto è compreso nei miei sogni – il campo in cui, si sa, scorrazzano liberamente i desiderata di tutti noi: “desiderata”: assai bello questo neutro latino rimasto nella lingua italiana a dimostrare un rapporto che mai si è concluso! – e molto altro risiede nelle letture e nell’animo che ho ereditato dai miei genitori, entrambi letterati di una generazione, quella nata negli Anni Trenta, che tanto ha dato all’Italia (e a me sin da piccolo: papà mi raccontava novelle di Sacchetti, Boccaccio e Malerba reinventate e integrate con personaggi di sua propria invenzione; l’ausilio di mamma mi ha salvato da molte insufficienze in Greco). L’energia comunque è un elemento della vita che ho per natura, anche quando faccio la pizza, mi gratto la pancia o parlo con amici e familiari, non un mio merito, o almeno non più di quanto possa essere merito di un uomo il suo avere predisposizione per un’arte, o per una qualsivoglia altra disciplina. Inoltre… be’… semplicemente posseggo, sento, capto, nutro e semino dentro l’anima molti germi e fermenti, perciò ho da dire una vasta congerie di cose che mi viene spontaneo esprimere con le parole scritte, tutto qua. In una sintesi alla Bertoldo: ho da dire molto e molti strumenti per dirlo, dunque lo faccio, altrimenti sarei un fesso.

D: In questo tempo malato e «liquido» il linguaggio, la parola, le parole dette e scritte sono sempre più semplificate, turpi, povere, ecc. La sua scrittura è, invece, colta, armoniosa, brillante, mai scontata. Cosa pensa di questo imperante strame di linguaggio che viviamo?

R. Penso che sia uno dei linguaggi di questi tempi: oltremodo tirannico, dispotico, prepotente, plebeo, tuttavia non ANCORA l’unico esistente, poiché esso detta legge, ma esiste l’opposizione (della quale mi onoro di far parte). Ecco. Esiste da un paio di decenni un vasto numero di persone che confondono la democrazia (parola dei sistemi sociopolitici, non delle arti) con la meritocrazia: gente malata di protagonismo che reputa facile e facilmente raggiungibile il successo letterario.

Invece, contattare gli editori importanti, per un singolo autore, è pressoché impossibile e nemmeno un ottimo agente può importi a nessuno di loro, se tu scrivi in maniera diversa da quanto essi cercano. L’editoria medio-grande del 2021, infatti, scarta due tipologie di manoscritti inediti: quelli “troppo” originali e letterari, cioè scritti rispettando le regole grammaticali (assurdo ma così è: ti trattano da nobile snob) e quelli “mal” scritti rispetto alla moda del momento. Sta a dire che è la moda a comandare dentro le case editrici, non la cultura in senso stretto. Un esempio banalissimo: se un giorno si affermasse il vezzo di scrivere “qual è” con l’apostrofo, l’editore ti rifiuterebbe per averlo scritto senza. E il miglior romanzo rosa, thriller, giallo, distopico o storico, intimistico, filosofico (ecc.), il miglior poema religioso o epico non passerebbe al vaglio degli editoroni se non fosse perfettamente e remissivamente obbediente ai dettami della vulgata corrente, punto per punto, o se questi generi fossero poco apprezzati dal pubblico. Nella società di massa l’irrazionalità e l’incultura, la mancanza di canoni e schemi fissi provenienti dal passato sono la norma, folle e degenerativa, ma pur sempre la sola norma dell’agire di chi deve far denaro vendendo libri. Qualche furbacchione, poi, la deinisce “spirito pragmatico”, questa dittatura della moda più ammorbante e stupida, o smaccatamente vuota di idee e sentimenti. Una moda priva di senso del pudore e umiltà – i parvenu non ne hanno mai, vedi Trimalcione. Ecco. La banale semplicità del dettato travestita da “novità” è quel che serve agli editori e a molti lettori, non il rigore e la novità fine, elegante, profonda, e neanche il gioco per intenditori alla Queneau o alla Calvino, o quello del Campanile delle “Tragedie in due battute”. Ebbene, per cambiare le cose non si tratta, credo, di prendere a contestare l’esistenza del commercio di libri, i flussi di denaro in sé, ma di contestarne le modalità che ho appena enunciato. Il commercio potrebbe essere attività egregia, se vendesse libri di gente come Gadda e Bufalino. Spingerlo in tal senso spetta a tutti noi, in primis acquistando SOLO libri buoni, secondariamente proponendo rimedi di legge e altri correttivi per limitare lo strapotere di certe categorie rispetto ad altre (oggi guadagna denaro ed influenza l’editoria più un distributore che, messi insieme, un editore, un agente e uno scrittore).

D: In questo settecentenario dalla morte di Dante, quale messaggio ha ricavato e vive dalla lezione del Sommo Poeta? Qual è la terzina e/o il personaggio che ha segnato e segna la sua formazione di uomo, giornalista, scrittore?

R: Emblematica credo sia la risposta di Cacciaguida (trisavolo di Dante) alle perplessità del Sommo, nel diciassettesimo canto del Paradiso, che così enuncia (vv. 97-99): “Non vo’ però ch’a’ tuoi vicini invidie / poscia che s’infutura la tua vita / vie più là che ‘l punir di lor perfidie.” Qui Cacciaguida – tramite il neologismo di conio tutto dantesco “infuturarsi” – esorta Dante a non portare odio verso i suoi concittadini benché essi un giorno lo esilieranno da Firenze. E apprezzo anche i seguenti passi, poco più avanti (vv. 124-132), sempre proferiti da Cacciaguida e riguardanti la missione del poeta che, diremmo noi, non deve guardare in faccia a nessuno, essere se stesso nella sua scoperta delle verità eterne ed esprimerle con la sua arte, nonostante l’incomprensione di certa gente cui esse risultino scomode o incomprensibili: “indi rispuose: «Coscienza fusca / o de la propria o de l’altrui vergogna / pur sentirà la tua parola brusca. / Ma nondimen, rimossa ogne menzogna, / tutta tua vision fa manifesta; / e lascia pur grattar dov’è la rogna. / Ché se la voce tua sarà molesta / nel primo gusto, vital nodrimento / lascerà poi, quando sarà digesta.” È la sacralità della missione del poeta nel mondo, la sua irrinunciabile funzione: benché di primo acchito egli non venga compreso, dice Cacciaguida, poi, appena verrà “digesto” (digerito) darà “vital nodrimento” (vitale nutrimento… spirituale). Io, misero uomo moderno, direi che uno scrittore dovrebbe scrivere e punto, fregandosene di tutto il resto: a chi è destinata la sua opera, se venderà copie, se verrà mal criticata ecc. No. Bando ai dubbi collaterali. Lo scrittore studi le lettere ed obbedisca al proprio Cacciaguida e… se non ne avesse uno nel proprio albero genealogico, c’è sempre quello di Dante a disposizione di tutti. Scartiamo i nanetti arroganti e onoriamo i classici: potremo solo crescere e maturare. Nell’arte e nella civiltà che dall’arte promana.

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