Utilizzando un aggettivo che, in questi tempi, è di stretta attualità, Maria Gestri dovrebbe essere a buon diritto inserita nella categoria dei “resilienti”.
Sono le parole con cui inizia la prefazione di Pablo Gorini a questo libro di poesie, “scritto e assemblato” in tempo di pandemia, dove l’autrice, lungi dal rassegnarsi, ha cercato stimoli per giungere ad una maggiore conoscenza di se stessa e del mondo.
Maria Gestri non è una “professionista” della poesia, ma non è neppure una neofita; ha cominciato a scrivere, in prosa e in versi, fin da giovanissima, arrivando a pubblicare solo adesso, una volta raggiunta la piena maturità anagrafica cui fa da supporto una analoga di tipo stilistico ed emotivo.
Suggestivo il titolo della silloge: “Infinito inseguire”, in cui si dipana una concezione esistenziale in cui, spesso, sembra che ad emergere sia soprattutto una sorta di “pessimismo della ragione” che porta a credere che, in un mondo devastato dalle guerre e dove si aggira lo spettro della morte, prevalgano odio, egoismo, paure.
Ma, proseguendo la lettura, ci si accorge che il richiamo alla morte è in realtà un inno alla vita, dove c’è spazio per l’amore e per la speranza.
In quell’ “Infinito inseguire” è racchiuso il vano e ineluttabile affannarsi dell’essere umano che, per tutta la vita, corre dietro al miraggio di qualcosa cui non riesce a dare neppure un nome.
L’uomo di Maria Gestri però “guarda sempre, istintivamente, verso il sole” e non gli sfugge che, pur in presenza di un destino imperscrutabile, non ci sarebbero la luce senza le tenebre e la vita senza la morte.