Tunisia: il paese musulmano più all’avanguardia del Maghreb

Articolo di Elena Beninati

La Tunisia è un Paese libero? Questo Paese rispetta le donne? Le minoranze, l’omosessualità, i diritti umani e civili? La risposta di primo acchito è SI. Ma quante sono le differenze, sostanziali, che da una punta all’altra del Paese danno la sensazione di trovarsi in luoghi lontani fra di loro?

Il Paese musulmano più all’avanguardia del Maghreb, all’indomani di una rivoluzione tanto agognata quanto temuta, si ritrova spaurito davanti al baratro di una miriade di opportunità, e soprattutto difficoltà, nuove, nell’intraprendere un percorso di democratizzazione attuabile e funzionale.

La volontà è stata forte tanto quanto la corruzione, sopraggiunta subitaneamente all’indomani della proclamazione, nel 2011, del governo di Beji Caid Essebsi. Il popolo era o non era preparato ad una rivoluzione di mentalità, oltreché politica e istituzionale?

Questa è una domanda a cui non possiamo rispondere, data la brevità dei tempi di incubazione di un processo cosi tempestivo ma poco definito. La Tunisia è stata senza dubbio spartiacque fra un prima e un dopo in termini di emancipazione nel Maghreb.

Ma ogni processo evolutivo necessita di cicli temporali di gran lunga ben più ampi dello spazio di una rivoluzione. La situazione esplosiva del 2011 portava con sé il risentimento di lunghi anni di stasi, ma anche la sicurezza di molti anni di benessere materiale.

Il bacino culturale di riferimento non è rimasto immutato e l’allargamento delle frontiere territoriali, in termini di mobilità, ha reso i rapporti con l’altro più agevoli e “socievoli”, ma ciò non è bastato a intaccare lo zoccolo duro di un modo di pensare, sentire e interagire, radicato per secoli e secoli nelle maglie, intricatissime, della cosiddetta “mentalità”.

Il lasso di tempo che si concede ad una generazione per mettere a soqquadro uno stato o un sistema sociale, non è sufficiente per metterne in crisi valori e credenze, usanze e tradizioni, tanto solide quanto fissate nell’intercapedine dura fra l’intelletto e l’esperienza privata della “persona”.

La Tunisia ha vissuto una stagione di cambiamento, e di spaesamento allo stesso tempo, dei suoi cardini più profondi. Dal punto di vista politico e istituzionale ha subito un attentato alle sue fondamenta. Fino a che punto ne è consapevole il popolo tunisino?

La matrice religiosa islamica, che in Tunisia ha sempre visto affermarsi movimenti di tolleranza, pace e apertura verso l’esterno, nutre e alimenta delle divergenze di carattere generale che pongono la popolazione, già a stretto contatto con i Paesi occidentali, in una situazione di stress emotivo non di poco rilievo.

Socialmente la parità fra uomo e donna è garantita dalla legge, ed entrambi i soggetti hanno diritto ad avere eguale trattamento davanti al tribunale della giustizia. Le donne ricoprono essenzialmente gli stessi ruoli maschili, se pur in netta minoranza.

Una consuetudine che non le vede ancora al dicastero dei maggiori ruoli di potere del Paese, ma che non ne preclude sicuramente l’accesso. In questi anni post rivoluzione il potere femminile, già indiscusso nell’ambito familiare, ha preso campo anche nei settori della società civile e sempre più donne, colte, si sono imposte ai vertici di aziende e ruoli chiave dell’amministrazione tunisina.

La piega del Paese, più livellante ma egualmente democratica, è invece la disoccupazione e la mancanza di lavoro in generale: tassi aumentati considerevolmente all’indomani del 2011, in parte a causa dell’incapacità di far fronte tempestivamente ad un sistema troppo monolitico e poco dinamico ma garantista.

I tunisini di mezza età, che hanno nostalgia della “pace romana” imposta dal presidente Ben Alì, con comprendono il gender gap, più economico che culturale, delle nuove generazioni: queste, pur mantenendo un rapporto intimo con i temi religiosi e l’educazione islamica di stato, hanno adottato altri stili di vita. L’Islam è una religione di pace e fra i valori fondanti vi è l’accoglienza e il rispetto delle persone.

Ma l’Islam non prevede l’omosessualità. La legge attuale non punisce ma non protegge. La sessualità è l’argomento ostico davanti al quale si blocca ogni liberalismo e si infrangono i buoni propositi di apertura. L’attuale Presidente, Kais Saied, è un conservatore, orientato verso soluzioni poco libertarie.  

La gioventù tunisina non rinnega ma non si schiera, né a favore, né contro. Non può comprendere appieno l’importanza di una reale rivoluzione dei costumi. I tunisini sono da sempre all’avanguardia dei rapporti paritari fra uomo e donna, e i più lungimiranti in tema di eredità rispetto ai fratelli musulmani dei paesi confinanti.

Oggi il diritto tunisino non prevede la sharia, né la poligamia, abolita nel 1957 da Bourghiba, né la sottomissione della donna all’uomo. Maschio e femmina hanno uguali diritti e il matrimonio non può essere contratto prima del compimento del 18esimo anno di entrambi gli sposi.

E tuttavia il pregiudizio che una donna debba essere illibata fino al giorno del matrimonio continua a resistere e a ordinare la società secondo i vecchi canoni secolari e non, comuni a tutte le religioni del libro. Nonostante ciò, la Tunisia oggi è il Paese islamico più rispettoso nei confronti dei diritti femminili.

Le donne tunisine cominciano a giocare un ruolo attivo già all’inizio del ventesimo secolo, distinguendosi nei movimenti nazionalisti contro l’occupazione francese. Esse ottengono un equo statuto personale già nella seconda metà degli anni Cinquanta, grazie ad un maggior sviluppo della concezione dei diritti individuali.

All’indomani dell’indipendenza la Tunisia si dota di un Codice di statuto personale ispirato a principi laici e moderni, denominato Majalla, che entra in vigore nel 1957. In tema di uguaglianza e pari condizioni, la Majalla tunisina attribuisce all’uomo ed alla donna gli stessi diritti e gli stessi doveri e, considerando gli esseri umani come singoli individui, li rende depositari di pari diritti e doveri nel vincolo del matrimonio, abolendo la poligamia e la figura del tutore legale per la sposa.

Per la prima volta in un Paese arabo, alla donna viene riconosciuta la piena responsabilità sessuale, grazie all’introduzione della contraccezione e alla legalizzazione dell’aborto. Il Codice di famiglia tunisino inoltre, modifica profondamente lo status giuridico delle donne ponendo l’accento sulla visione di un’unità coniugale, antitetica a quella patrilineare, in cui il rapporto genitori e figli occupa, finalmente un ruolo centrale e predominante.

Il vento riformista continua anche sotto il presidente Ben Alì, eletto nel 1987, tanto che l’impegno e la volontà di un’emancipazione femminista diventa prerogativa della Tunisia. Lo stesso presidente Bourghiba ricorda il tributo delle donne nella lotta per l’indipendenza in un discorso del 13 agosto 1956.

Ma il tabù principale sul tema dell’autonomia femminile è stato sfidato quando il defunto Presidente Beji Caid Essebsi, promise la parità nell’eredità e la possibilità anche per la donna di dare il proprio cognome ai figli. Ad oggi non vi è Paese musulmano in cui la donna goda del diritto alla successione dei beni al 100{4b17928d5b020eda99092df6404d8c5fed75328874c76bb9411b476d5f081a38}.

Ma al 50{4b17928d5b020eda99092df6404d8c5fed75328874c76bb9411b476d5f081a38}, come arbitrariamente cita il Corano. L’equivalente dell’8 marzo delle donne tunisine si data al 10 marzo 2018, giorno in cui, con una manifestazione nazionale fu rivendicato per la prima volta il diritto all’uguaglianza nell’eredità. Una formula oggi messa in discussione dall’attuale Presidente neoeletto Kais Saied.

La lotta delle donne tunisine, che trae spunto dall’insegnamento del filosofo arabo Averroé, che criticava la situazione di dipendenza in cui la donna non poteva esprimere al meglio le proprie capacità per poter contribuire alla vita della comunità, ha origini antiche. Oggi un omaggio va al precursore del movimento delle donne egiziane Taha Hussein, che un secolo fa sosteneva: «Solo le donne emancipate garantiranno generazioni di uomini liberi».

Una massima ampiamente disattesa, e non solo in terra di Islam. Essere sopra le parti, stare insieme nel rispetto reciproco e nella totale considerazione valoriale dell’altro, in termini di appartenenza e identità, non è un obiettivo raggiunto nemmeno nella “civilissima” Europa.

Il pregiudizio occidentale si conforta nel ritenere la cultura islamica totalmente incompatibile con i concetti di laicità, democrazia e modernità, e millanta un presunto processo di involuzione della civiltà islamica in toto, dimenticando, erroneamente, che la concezione dell’inferiorità della donna rispetto all’uomo compare in tutte e tre le fedi monoteistiche e trae origine, in primis, dalle tradizioni giudaico-cristiane.

La liberazione delle donne costituisce una premessa per la modernizzazione e liberazione delle società in generale. In realtà la querelle non riguarda la donna in sé, ma si concentra sull’assenza di progresso nelle nazioni islamiche e sulla veloce occidentalizzazione dei costumi che sfida la tradizione islamica forte di secoli. l’islam, in questo senso, non è considerato un impedimento all’emancipazione femminile.

Il nodo della questione sta, invece, nel comprendere come non sia la religione in sé a sancire l’oppressione delle donne, quanto invece una realtà sociale che, appropriandosi del sistema religioso, lo riformula a suo favore per trarne i maggiori vantaggi. Nel corso dei secoli, la religione si è fusa ad una plurisecolare tradizione maschile confondendosi con essa. Costrizioni emotive, psicologiche e di subordinazione usate per sostenere tradizioni sociali secolari.

Nella cultura islamica, essenzialmente influenzata dall’uomo, le stesse tematiche religiose scompaiono in favore di pratiche conservatrici e patriarcali. La chiusura mentale non è quindi imputabile all’islam, bensì dall’ostilità di una mentalità retrograda e ristretta dettata da un maschilismo comune, che banalmente ad ogni latitudine, ci accomuna e ci sconforta.

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