Quindici versi divisi in due parti uguali, a metà dell’ ottavo : la prima termina con “Il cor non si spaura”, la seconda inizia da “E come il vento”.
Nella prima parte prevale il senso della vista, che si insuperbisce fino a immaginare ciò che non vede, andando oltre le sue stesse facoltà e ritrovandosi, spaurita, a non veder nulla, o forse il nulla, né udir alito di vita nei “sovrumani silenzi”: quasi una selva oscura in cui l’anima si smarrisce, “che poco è più morte”. Gli “interminati spazi” non sono l’infinito, come il plurale non è il singolare, il tutt’ uno, cosicché “ques/t’ermo/ colle”, visto d’in su, di là dalla siepe, in una prospettiva rovesciata, diviene anagrammaticamente sede di /morte/, “profondissima quiete”, cui una “voce” sottrae “il cor” che stava per naufragarvi, spaurito; quasi come “l’angel di Dio” sottrae l’anima, di Buonconte a “quel d’ inferno”, che grida: “Tu te ne porti di costui l’etterno “. È la voce del vento, che già preannunzia, nell’infinita anagrammaticità bustrofedica del verbo “odo”, i suoi effetti di iubilum del “cor” e di giubilazione del “pensiero” (in un rapporto tra i due di inversa proporzionalità), prima invaghitosi stolidamente dell’ altezze poi annegantesi, a sovvenire/venire in aiuto, quasi Spirito Santo, dell’io lirico, riempiendo di sé “quello infinito silenzio” come un abbondante precipitar d’acque riempia di vita scrosciante un arido e mortuario letto fluviale.
Qui è l’infinito, l’eterno, l’immensità: nella vita che scorre e che “sempre” è stata e sempre sarà e che, nel suo continuo fluire col suo “suon”, può condurci al “dolce” naufragio in un mare d’ amore (in quest/o mare/), come sembra suggerire l’anagramma finale.