Secondo alcuni, il 1979 è stata la migliore annata musicale di sempre. Un po’ come avviene quando si classifica la qualità dei vini.
Billy Corgan ha addirittura dedicato un brano degli Smashing Pumpkins al 1979: anno in cui i Kiss deviarono verso la disco rock con l’album Dynasty, i Pink Floyd costruirono il capolavoro discografico “watersiano” The Wall, mentre i Joy Division pubblicarono l’inno al mal di vivere “curtisiano” Unknown Pleasures.
Il ’79 fu anche l’anno della famosa frase “È meglio bruciare che spegnersi lentamente” di Neil Young (nel suo cavallo di battaglia My My Hey Hey), frase ripresa nel 1994 da Kurt Cobain nella sua lettera prima di suicidarsi.
Dal punto di vista storico, il 1979 può essere considerato una stagione di rottura col passato: la destrutturazione dell’ideologia punk (che, a dire il vero, implose quasi in concomitanza con la sua esplosione e con la morte di Syd Vicious) e la conseguente ascesa della parabola post-punk che avrebbe spostato, ampliato e rinnovato proprio i confini nichilisti del punk, smontando e ricomponendo il radicalismo pop, in un quadro politico mondiale di ristrutturazione che manifestava una preoccupante instabilità economica e denunciava forti tensioni sociali. In particolar modo nel Regno Unito, con l’avvento del governo della liberal-conservatrice Margaret Thatcher.
Dal punto di vista geografico, in quel determinato momento storico, le realtà logistiche predominanti erano così distribuite: da una parte c’era la scena oltreoceano statunitense, riconducibile ai grigi paesaggi post-industriali del Midwest (Devo, Pere Ubu), all’area metropolitana newyorkese (Talking Heads, Mars, Lidia Lunch, Suicide) e a quella di San Francisco (Chrome, the Residents, Tuxedomoon), e dall’altra la scena europea con il suo fulcro nella terra d’Albione (Pop Group, The Wire, Throbbing Gristle, The Slits, Public Image Ltd, Gang Of Four, Cabaret Voltaire, Siouxie and The Banshees, Buzzcocks, Joy Division), senza dimenticare gli echi derivanti dalle lontane sponde australiane.
In questi nuovi contesti urbani si sviluppò la corrente underground, anticonformista e macromolecolare denominata post-punk, in tutta la sua natura sperimentale, naïf, astratta, borghese, intellettuale, tribale, delirante, eclettica, decadente, dionisiaca, creativa e avanguardistica.
Un macro-genere di culto che, sia contestualmente che nel corso degli anni a venire, avrebbe diramato il suo verbo postmodernista in diverse direzioni (new wave, gothic wave, darkwave, new romantic e new pop), distinguendosi per le sue caratteristiche strumentali ibride, asimmetriche, meticce, eterogenee, flessibili, sinergiche ed esotiche.
La musica nera (jazz, reggae, dub, afro e funk) si mescolava all’anatomia robotica e futurista dell’elettronica (rumorismo noise, ambient, synth) e all’immediatezza essenziale, spigolosa e convulsiva delle chitarre punk, attraverso tematiche che guardavano al mondo dell’arte a 360 gradi, mediante una visione obliqua della protesta politica (rispetto alla forma grezza, diretta e populista del punk) e manifestando un’estetica artefatta e provocatoria, al limite del grottesco e del teatrale.
Pensandoci bene: quale genere musicale più del post-punk rispecchiava appieno la rivoluzione culturale e politica del “tatcherismo”? Un genere filosoficamente intransigente che rifiutava l’egemonia elitaria ed il virtuosismo nazional-popolare del classic rock e demonizzava il terrorismo psicologico degli slogan “no future” del punk, rigettando l’orizzonte di un destino ineluttabile ed enfatizzando l’intento coraggioso e lungimirante di esplorare territori vergini al fine di creare una nuova ricchezza da redistribuire.
È dunque corretto collegare il post-punk, in modo così stretto, alla politica socio-economica dell’era Thatcher? Non è semplice affermare che l’uno fosse il riflesso dell’altra e viceversa. Potrebbe essere una considerazione alquanto azzardata.
Sebbene, al di là di ogni presumibile congettura e dei possibili messaggi subliminali, credo sia corretto puntualizzare un fatto oggettivamente banale ed incontrovertibile (il principio del nulla si crea e nulla si distrugge, ma tutto si trasforma), ovvero che la controcultura anticonvenzionale DIY post-punk non sarebbe mai esistita senza il punk. Così come il punk non sarebbe mai esistito senza il capitalismo del rock.
https://youtu.be/1GwdHe5nQSQ
https://youtu.be/Cwx_Qq56YTA
https://youtu.be/fhCLalLXHP4
https://youtu.be/VONjSHTAIto