“Audio terremoto Irpinia 23 novembre 1980” è l’audio originale di quell’orribile tragedia di 41 anni fa

Articolo di Armando Giardinetto

Era una domenica funesta, di un anno funesto, di un mese funesto, di un’ora funesta.

Erano le 19:34 e 53 secondi, quasi le 19:35, del 23 novembre del 1980, quando “Quei nidi di vespe sfondati sono case, abitazioni, o meglio lo erano”, come scriveva Alberto Moravia in “Ho visto morire il Sud” in relazione al terremoto dell’Irpinia.

La scossa funesta, di magnitudo 6.9 della scala Richter, durò 90 secondi, la terra si era mossa da 10 a 30 km di profondità sotto le province di Avellino, Salerno e Potenza, ma gli effetti si ebbero anche a Napoli, dove ci furono crolli e numerosi morti.

I numeri che la stampa e che i libri di storia oggi riportano sono i seguenti: quasi 3.000 morti, 250.000 senzatetto, più di 8.000 feriti, più di 360.000 le case distrutte, non si sa invece il numero degli animali da soma e quelli domestici morti tra le macerie.

I soccorsi arrivarono in ritardo, mentre il presidente Pertini alzava la sua voce: “Fate presto. Ho assistito a degli spettacoli che mai dimenticherò … Tutti gli italiani e le italiane devono sentirsi mobilitati per andare in aiuto di questi loro fratelli”.

Poi qualcosa cambia: la solidarietà degli italiani si fa strada, i soccorsi arrivano da ogni dove, si crearono posti letto, roulotte, tendopoli, prefabbricati. Ognuno sentiva nel cuore di dover far qualcosa per quella disgraziata gente del Sud Italia.

Le riprese televisive riportarono scene di disperazione di quegli esseri umani fragili come formiche: mamme inginocchiate davanti ai corpi morti e ancora caldi dei figli; attoniti uomini e donne che volgevano lo sguardo verso la torre campanaria più alta del paese ancora in piedi; gemiti provenienti dalle macerie; superstiti che, a mani vuote, scavavano incessantemente giorno e notte; una bambina che, piangendo, diceva di essere diventata orfana; bare di frassino scuro adagiate in fila sulle macerie e in ogni dove; cadaveri coperti da lenzuola bianche o da pezze di fortuna; soldati e carabinieri che svestirono la divisa per dare braccia agli scavi; due amici al biliardo di un bar, di cui uno dovrà costatare la morte dell’altro rimasto bloccato sotto le macerie; uomini che cercavano di consolare le proprie mogli davanti ad una intera vita andata completamente in rovina; i cavi della SiP spezzati.

Le rovine uscivano fuori dall’oscurità come dei giganti feriti: ora una torre campanaria; ora la facciata di una chiesa; ora una fornace pronta per la carne; ora una partitura tra il grigio delle pietre; ora qualche tetto rimasto al suo posto; ora qualche finestra senza più la sala dietro ad essa; ora le carcasse delle auto, di cui solo le targhe impolverate si distinguevano; ora il ritratto del matrimonio sull’unica parete rimasta su; ora una grande immagine del Cuore di Gesù, muto e ancora benedicente sopra quella sozzeria di polvere e pietre e, mentre la pioggia incalzava e l’inverno avanzava in quella disastrosa apocalisse, una vacca illesa se ne andava camminando.

La storia ci lascia addirittura una traccia uditiva di quel tragico evento: mentre Radio Alfa 102 trasmetteva musica folk, proprio in quell’ora, riuscì a captare la scossa terribile: la musica va avanti, ma fuori le case crollano e la gente, ignara della forza improvvisa della natura, muore (cercate su Youtube “Audio terremoto Irpinia 23 novembre 1980”).

“Ci voltammo indietro e non c’era niente più…”; “Papà non mi lasciare, papà non mi lasciare”; “Mamma mia, fratu mio”; “È finito tutto, non abbiamo più niente”; “Ero emigrata, ma ora sono tornata e queste macerie mi dicono che devo restare”; “Maronna mia, aiutaci tu”; “Voglio a mamma, voglio a mamma”, “Ci hanno abbandonati, non siamo niente noi”, “Roky, il mio cane, cercava riparo mentre il letto ballava in mezzo alla stanza”, sono solo alcune delle voci dei sopravvissuti.

Il terremoto dell’Ottanta squarciò le strade, le case, i muri e i cuori di tanta gente.

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