Il demonio (1963)
Brunello Rondi (Tirano, 1924 – Roma, 1989) è un regista di scuola pasoliniana che lascia il segno per alcuni drammi erotici e diverse pellicole dal taglio psicanalitico, sempre indecise tra il cinema di genere e l’impegno d’autore. Attivo nel cinema sin dal 1946 come aiuto di Luigi Chiarini, Roberto Rossellini e Alessandro Blasetti. Il regista che segna maggiormente la sua crescita artistica è Federico Fellini con cui collabora per trent’anni come aiuto e nelle vesti di sceneggiatore. Non interrompe mai l’attività di sceneggiatore e scrive soggetti importanti del cinema italiano come Arabella (1967) diMauro Bolognini e Amanti (1968) di Vittorio De Sica. Il suo tratto di autore consiste nell’aver tratteggiato con profondità psicologica alcune figure femminili inquietanti e problematiche.
Nel cinema horror italiano si ricorda per una pellicola importante come Il demonio (1963), coproduzione italo francese caratterizzata da un’approfondita analisi psicologica e comportamentale dei personaggi. Il film è scritto dal regista con la collaborazione di Ugo Guerra e Luciano Martino. Le musiche, colte e suggestive, sono di Piero Piccioni. Intensa fotografia lucana di Carlo Bellero. Interpreti: Daliah Lavi, Frank Wolff, Anna Maria Aveta, Tiziana Casetti e Dario Dolci. Il film può essere letto anche come un horror esorcistico ambientato nelle campagne lucane, importante soprattutto perché girato prima de L’esorcista (1973) di William Friedkin. Tra l’altro ci sono alcune parti in cui è innegabile l’influenza di Rondi su Friedkin, soprattutto durante la scena del tentato esorcismo in chiesa. Il prete solleva il crocefisso, spruzza acqua benedetta e l’indemoniata gli sputa in faccia, mostra la lingua e cammina a ritroso inarcando le spalle come un ragno. La trama è semplice. Purificata è disperata perché Antonio sposa un’altra donna, fa una fattura con fuoco, sangue e capelli, gli fa bere il suo sangue e comincia a comportarsi da indemoniata. Tutto il paese si convince che Purificata è una strega, soprattutto quando dice di aver incontrato al fiume un bambino morto. Un vecchio stregone di paese con la collaborazione del parroco prova a liberarla dal maligno, ma gli esorcismi risultano inutili. I compaesani, guidati dal suo ex amante, cingono d’assedio la casa, catturano la donna e la obbligano ad andarsene. Purificata ripara in un convento, continua a dare segni di possessione, resta affascinata morbosamente da un albero dove un ragazzo si è impiccato e tenta di uccidere una suora. Molto interessante un rito di purificazione compiuto dai paesani che bruciano l’aria con enormi roghi sulla piazza per eliminare la presenza maligna. Nel finale vediamo la presunta indemoniata che ritrova il suo ex e ci fa l’amore, ma quando si svegliano lui la uccide a coltellate, liberandola per sempre dal demonio. La pellicola è una via di mezzo tra cinema d’autore con suggestioni neorealiste e cinema fantastico. Una commistione che ritroveremo sempre nel cinema di Rondi, così come sono presenti i temi politici e soprattutto un deciso discorso anticlericale. Molto brava l’interprete principale, l’israeliana Lavi, dotata di fascino magnetico e grande forza drammatica, al punto che sarà impiegata anche da Mario Bava nell’horror La frusta e il corpo (1963). Daliah Lavi è la vera mattatrice del film, presente in ogni scena con uno sguardo inquietante e penetrante, da vera strega indemoniata. Frank Wolff nei panni dell’ex innamorato è meno bravo e sfodera sempre un’espressione da cattivo dei film western che frequenta con assiduità. Si nota la lezione neorealista anche nella scelta di attori non professionisti che interpretano loro stessi in diversi ruoli secondari. Brunello Rondi fa passare la pellicola per una storia vera, ma si ispira a superstizioni e credenze ben radicate nell’Italia meridionale dei primi anni Sessanta. Le scene del malocchio, della fattura, i riti magici per purificare un corpo infestato dal demonio e le cerimonie popolari sono riprese con tecnica documentaristica. La fotografia della campagna lucana, dipinta in un suggestivo bianco e nero, è una delle cose più belle del film. I sassi di Matera rappresentano uno scenario cittadino interessante per presentare un matrimonio e subito dopo una cerimonia di purificazione dai peccati.
Gli zombi – vampiri di Ubaldo Ragona
L’ultimo uomo della terra (1964)
Ubaldo Ragona è un poco noto regista italiano nato a Catania nel 1916 e morto a Roma nel 1987. Si tratta del fratello di Claudio (direttore della fotografia), attivo come cineamatore, giornalista (diresse la rivista Passo ridotto) e regista di quattro lungometraggi: due documentari (Il fiume dei faraoni – 1955 e Baldoria nei Caraibi, 1957) e due film a soggetto (L’ultimo uomo della terra – 1964 e Vergine per un bastardo – 1966). Nella storia del cinema horror italiano, ricordiamo Ragona solo per aver diretto L’ultimo uomo della terra,una delle prime pellicole a tematica soprannaturale, portando sullo schermo un’interessante figura di vampiro – zombi inserita in un’inquietante atmosfera fantahorror.
Vediamo la trama originale, che anticipa storie simili confezionate negli anni Settanta – Ottanta. Il dottor Robert Morgan (Vincent Price) sembra l’unico sopravvissuto dopo un’epidemia virale che ha distrutto il genere umano, riportando i cadaveri in vita sotto forma di zombi che si muovono di notte come i vampiri. Il dottor Morgan è immune al contagio, non conosce il motivo, forse è l’eletto, forse è stato morso da un pipistrello che l’ha immunizzato. Vive come un giustiziere, durante il giorno elimina i cadaveri, bruciandoli in una discarica, di notte si rifugia in casa per sfuggire agli attacchi. Gli zombi – vampiri temono aglio e specchi, Morgan lo sa bene e circonda la casa di simili oggetti. Un giorno scopre che sulla terra ci sono altri uomini, ma non proprio come lui. Si tratta di persone contagiate che hanno scoperto un antidoto da iniettare ogni giorno per allontanare l’insorgere del male. Morgan conosce una donna contagiata, si rende conto che con una semplice trasfusione il suo sangue potrebbe salvare il genere umano. Troppo tardi. I sopravvissuti l’hanno condannato a morte perché ha giustiziato molti compagni e l’esecuzione avviene – in maniera simbolica – sull’altare di una chiesa. Il finale è inquietante, perché il pianto di un bimbo e le parole del moribondo fanno capire che il genere umano ha perso l’ultima speranza di salvezza.
L’ultimo uomo della terra è tratto in maniera molto fedele da Io sono leggenda (1954), stupendo romanzo di Richard Matheson, e secondo molti critici (si veda Rudy Salvagnini – Dizionario dei film horror) dovrebbe essere prodotto dalla Hammer, ma l’operazione non va in porto per problemi di censura. Il film viene realizzato in Italia da Lippert, vecchio collaboratore della Hammer, ma il risultato resta ottimo. Ubaldo Ragona ambienta la storia in una Roma spettrale e deserta, girando in un livido bianco e nero, una storia nera e senza speranza. Le suggestioni di George Romero ne La notte dei morti viventi (1968) – pure ispirato al romanzo di Matheson – provengono da questa pellicola, momento indimenticabile del cinema italiano. In seguito Boris Segal porta sul grande schermo ancora una volta il romanzo di Matheson con 1975: Occhi bianchi sul pianeta Terra (1971). Nel 2008, Francis Lawrence realizza Io sono leggenda, remake moderno e banalizzante della pellicola, ancora una volta ispirato al romanzo di Matheson. Nei panni di Vincent Price troviamo Will Smith, che agisce come un eroe da videogame in uno scenario che risente delle atmosfere inquietanti del dopo 11 settembre. Da evitare se avete più di quindici anni.
L’ultimo uomo della terra è calato in un’atmosfera cupa e inquietante che anticipa il genere postatomico. Siamo in una terra del futuro, dove lo scenario di vite umane è composto da un giustiziere che si muove tra cadaveri e corpi di assurdi ritornanti. L’ambientazione vorrebbe essere americana (Los Angeles), ma è evidente che ci troviamo a Roma, sia per la tipologia di auto, che per le strade e i quartieri della capitale. A un certo punto riconosciamo la scalinata dell’Eur coperta di cadaveri, ma pure la periferia romana tra pini e campagna. Il film è girato a basso budget nel quartiere dell’Eur e rappresenta un prototipo importante per le successive atmosfere horror. La pellicola realizza un quadro apocalittico e realistico di un mondo futuro, contaminando fantascienza e horror, dispensando in piccole dosi momenti romantici e drammatici che rendono la storia più vera. La cosa più riuscita è l’atmosfera livida e spettrale, tra vento e desolazione, il quadro di un mondo senza speranza, vuoto e silenzioso, popolato da zombi che si muovono di notte e cadaveri da bruciare. Il film è girato con crudo realismo ed è accompagnato da un commento musicale intenso, realizzato da Paul Sawtell e Bert Shefter, che sottolinea i momenti di maggior tensione. Il montaggio di Lilia Silvi è privo di momenti morti, così come è perfetta la fotografia di Franco Delli Colli, che presenta una Roma livida e deserta come non l’avevamo mai vista. Un lungo flashback – inserito come parte onirica – spiega l’antefatto e la diffusione del contagio che il dottor Morgan non è riuscito ad arrestare. Molto toccante la parte in cui assistiamo alla morte della figlia che prima diventa cieca e subito dopo viene bruciata per non farla diventare zombi. Altrettanto intensa è la sequenza con la moglie che muore, il marito si limita a seppellirla e lei ritorna a casa come morto vivente. Sono molto ben costruite le caratteristiche degli zombi – vampiri, che si muovono di notte barcollando (come i morti viventi di Romero), possono essere ostacolati da aglio e specchi, ma soltanto un paletto di legno o di metallo appuntito nel cuore può farli morire. Il film consegna anche un breve messaggio morale: “L’uomo può andare avanti anche senza una ragione, soltanto per sopravvivere”. Inoltre il regista – in sintonia con Matheson – non lascia speranze per una redenzione del genere umano, che uccide il suo salvatore sulla scale di una chiesa, credendolo un nemico.
Vincent Price è doppiato da Emilio Cigoli, la sua voce robusta e inquietante descrive il terrore in cui è precipitato il mondo. L’attore inglese è bravissimo a reggere il film sulle sue spalle, nel ruolo della sua vita, da ammazzavampiri, anche se questa volta non deve confrontarsi con Dracula, ma con un esercito di zombi assassini. Gli altri interpreti sono Franca Bettoia, Emma Danieli, Giacomo Rossi – Stuart, Umberto Raho e Aldo Silvani. Tra i critici esiste una querelle irresolubile sul nome del regista. L’edizione italiana è attribuita a Ubaldo Ragona, mentre quella americana a Sidney Salkow. Molti hanno dedotto che Salkow sarebbe il vero regista. Per la sceneggiatura abbiamo i nomi di Furio M. Monetti e Ubaldo Ragona, ma anche Logan Swanson (Alias Richard Matheson) e William F. Leicester. L’ultimo uomo della terra passa del tutto inosservato, mentre adesso è oggetto di culto tra gli appassionati che possono godere in dvd le atmosfere livide e spettrali che anticipano i film di zombi cittadini.
L’horror intellettuale di Federico Fellini
Tre passi nel delirio – Toby Dammit (1967)
Tre passi nel delirio è un film a episodi di produzione italo – francese girato da Roger Vadim, Louis Malle e Federico Fellini, ispirato ai Racconti straordinari di Edgard Allan Poe.
Roger Vadim gira Metzengerstein, storia di una contessa che provoca un incendio per uccidere un cugino che l’ha respinta ma fa la stessa fine. Louis Malle filma William Wilson, per raccontare il duello tra un ufficiale e un sosia surreale che compare davanti ai suoi occhi per impedire di compiere azioni disoneste. Federico Fellini gira Toby Dammit ispirandosi al racconto Non scommettere la testa col diavolo, interpretato da Terence Stamp, Salvo Randone, Polidor (Ferdinand Guillaume), Milena Vukotic e Antonia Pietrosi. La storia racconta la vita di un attore alcolizzato che accetta di girare un western italiano in cambio di una Ferrari, ma finisce per morire dopo una folle corsa. Fellini non rinuncia a fare il suo cinema e a mettere un marchio d’autore anche in una pellicola di genere fantastico, perché la storia passa in secondo piano quando il regista esprime il suo mondo interiore. Toby Dammit è un personaggio complesso, viene in Italia controvoglia, è strafottente con giornalisti e televisione. I produttori della pellicola sono uomini di Chiesa che vogliono fare un western cattolico e raccontare il ritorno di Cristo in una desolata terra di frontiera. Fellini gira con stile inconfondibile, esprime le sue idee sulla religione, inserisce scene di suore, parti musicali ispirate al circo, parentesi a base di clown (Polidor), polemica nei confronti dei media e dei premi cinematografici. “Non credo in Dio ma nel diavolo”, dice Toby Dammit durante un’intervista. Il film è critico nei confronti della religione, del clero, del mondo cinematografico, degli inutili premi e delle serate di gala.“Perché mi avete chiamato?”, grida l’attore ubriaco prima di una folle corsa in Ferrari. Il finale con il fantasma che raccoglie la testa mozzata dell’attore mentre la palla rimbalza accanto a un corpo privo di vita è puro cinema dell’orrore. Il richiamo a Mario Bava è più che evidente: la speranza è che sia soltanto una citazione voluta di Operazione paura.
Tre passi nel delirioè una trilogia horror atipica per i tre registi, non del tutto riuscita, ma con esisti altalenanti e frammentari.
L’episodio di Vadim non convince perché spinge sull’erotismo di Jane Fonda, che avrà maggior successo come Barbarella (1968). Malle mette in scena un lavoro mediocre che si perde in psicologismi e in una tematica che approfondisce lo sdoppiamento della personalità. Fellini salva la pellicola partendo dal racconto di Poe e dal nome del protagonista per realizzare una storia nuova. L’horror di Fellini è un incubo delirante che mette in primo piano i perversi meccanismi del mondo dello spettacolo e fa da cartina di tornasole per gli orrori quotidiani. Il regista parte dal personaggio di una novella fantastica per approfondire le angosce e le oppressioni del’esistenza contemporanea. Per realizzare Toby Dammit Fellini si ispira a Operazione paura (1966) di Mario Bava, per il personaggio della bambina – fantasma che appare e scompare con una palla in mano.
L’horror erotico di Piero Vivarelli
Il Dio Serpente (1970) e Satanik (1968)
Il Dio Serpente è un film che resta nell’immaginario erotico di molti ragazzi degli anni Settanta e bene ha fatto nel 2005 la Storm Video a rimetterlo in circolazione nella sua versione integrale. La pellicola è distribuita da Mondo Home Entertainment e contiene pure i trailer delle parti che furono censurate.
Il Dio Serpente (1970) è un film scritto e diretto da Piero Vivarelli (Siena, 1927 – Roma, 2010), che per la sceneggiatura si avvale della preziosa collaborazione di Ottavio Alessi, il montaggio è di Carlo Reali, la stupenda fotografia di Benito Frattari, mentre dirige la produzione Lucio Orlandini per conto di Alfredo Bini. Il film si ricorda anche per l’ottima colonna sonora composta da Augusto Martelli che esce nel quarantacinque giri Djamballà e riscuote un clamoroso successo di vendite. Protagonista indiscussa è una sensuale Nadia Cassini (Paola), fresca debuttante con una piccola parte ne Il divorzio di Romolo Guerrieri (1970), ma che ottiene il lancio definitivo. Accanto a lei ci sono Beryl Cunningham (Stella), Sergio Tramonti (il fidanzato Tommy) e Galeazzo Bentivoglio (Benti è il suo vero nome e interpreta il marito). Ricordiamo anche Evaristo Marquez nei panni del Dio Serpente quando assume sembianze umane. Per Mereghetti si tratta di un film modesto, un epigono da dimenticare di un genere inaugurato nel 1968 da Ugo Liberatore con Bora Bora. Non condividiamo la severa impostazione del critico milanese e riteniamo Il Dio Serpente un film importate come atmosfera esotico – erotica, ma soprattutto un buon lavoro che documenta i riti vudù e i culti sincretici dei popoli caraibici. Il film gode di una stupenda ambientazione esotica a Santo Domingoe comincia con una panoramica aerea della città tra baracche, fiumi, mare, miseria e ricordi di un passato sotto i conquistadores spagnoli. Un sottofondo di musica cubana, le note di una rumba sensuale, accompagnano lo spettatore in un’atmosfera tropicale fotografata con grande bravura. Vediamo spiagge bianchissime e un mare stupendo, atolli corallini, indigeni che corrono e fanno l’amore sulla sabbia. La trama si racconta in poche righe. Nadia Cassini (Paola) è in vacanza ai Caraibi con il marito Galeazzo Benti, conosce Beryl Cunningham (Stella) che la mette in contatto con il culto del Dio Serpente (Djamballà), ma la donna se ne invaghisce a tal punto che diventa un’ancella consacrata al suo amore. Beryl Cunningham è perfetta nel ruolo di indigena, soprattutto per i marcati tratti negroidi, ma anche Evaristo Marquez è credibile come forma umana del dio.
La pellicola si inquadra nel genere esotico – erotico, il più tipicamente italiano, legato alla scoperta di lontane culture e conseguenza dei primi viaggi aerei, che portano a sognare di paradisi tropicali dove regna una completa libertà sessuale. Sono film che alla base contengono sempre un atteggiamento razzista e paternalista, con il mito del buon selvaggio che vive bene perché non conosce la civiltà. Il contenuto erotico la fa da padrone e di solito c’è un europeo (maschio o femmina non ha importanza) a caccia di sensazioni nuove, che scopre il vero senso della vita tra le braccia di un’indigena. Il Dio Serpente contiene in più l’elemento magico e misterioso, a tratti persino horror, che si amalgama bene con le ottime parti erotiche che scandalizzano i solerti censori. Il film entra subito nel vivo della parte misteriosa quando Paola e Stella diventano amiche e l’europea vuole conoscere la fortezza spagnola, il regno degli zombi, morti che continuano a vivere senz’anima, schiavi del Dio Serpente chiamato Djamballà. Paola vuole scoprire il mistero e si avventura da sola sulla spiaggia della roccia nera dove vede un enorme serpente che si avvicina minaccioso. Non ci sono serpenti a Santo Domingo, ma è Djamballà che si materializza e si avvicina alla ragazza, lui è il dio dell’amore e pretende obbedienza. Vivarelli ci accompagna nel vivo delle credenze sincretiche quando presenta la figura del brujo (stregone), che divina il futuro e confeziona amuleti, disegnando cerchi magici sul terreno. La figura del prete cattolico è ancora più emblematica di come le popolazioni caraibiche vivono il cristianesimo. Il parroco porta la statua di Gesù Bambino nelle case del villaggio perché tutti lo possano vedere e poi dice: “Adorano Gesù e fanno i riti magici. Ma sono due cose così diverse?”. In una scena successiva vediamo che durante i festeggiamenti natalizi l’immagine di Gesù Bambino è circondata da simboli vudù. Il prete commenta: “Sono bravi, un po’ rumorosi ma bravi. Dio è con loro, lo amano così. Sono più religiosi di noi perché credono davvero al loro dio. Io devo far dimenticare che dei bianchi li hanno portati qui in catene molti anni fa”. Il regista ci spiega come sono nati i culti sincretici: una fusione di religiosità cattolica importata a forza dagli spagnoli e di culti animisti che venivano dagli schiavi africani. Nei primi tempi dello schiavismo, i santi cattolici rappresentano un sotterfugio, un modo per nascondere le vere divinità e per scampare alla Santa Inquisizione, successivamente le due religioni si fondono e vanno a formare un culto nuovo. Il film presenta interessanti e realistiche cerimonie vudù dove si adora il Dio Serpente tra cerchi di farina bianca, candele votive, canti evocativi, tamburi insistenti e balli sensuali. Si vede anche il sacrificio di un capretto al quale viene mozzata la testa con un colpo di machete per essere sacrificato alla divinità. Il sangue è utilizzato dai credenti per segnarsi sulla fronte e un rituale pagano convive con le immagini dei santi cattolici come San Giorgio e Gesù Bambino. Una vecchia con il sigaro in bocca interpreta bene il ruolo della sacerdotessa del dio, mentre l’importanza di rum e tabacco nei riti viene sottolineata da numerose sequenze. Il Dio Serpente si impossessa delle donne che si denudano, si rotolano in terra come serpenti e si cospargono di polvere. Una bella sequenza erotica mostra Nadia Cassini e Beryl Cunningham possedute dal dio mentre si toccano sotto gli occhi di un negro che è la divinità incarnata in un corpo umano. La parte che mostra il rito è molto lunga, forse eccessivamente lenta per un film moderno ed è vero che il montaggio potrebbe essere più serrato, ma ne guadagna il realismo documentaristico con cui il regista descrive una cerimonia vudù. Un altro rito interessante vede la presenza anche degli zombi con i volti bianchi che rappresentano assenza di anima e questa volta il Dio Serpente possiede Paola al termine di una danza frenetica e sensuale. Vivarelli descrive bene riti e culture di un popolo che nel 1970 era molto lontano dalla nostra mentalità, soprattutto non inventa quasi niente, a parte una storia fantastica. Quando muore il marito di Paola è ben ricostruito un funerale vudù con balli e canti in onore del morto, mentre vengono offerti cibo e bevande alla salma. La fotografia è stupenda, il colore locale è reso bene con frequenti immagini di spiagge tropicali e di mercati cittadini, ma anche di ruderi precolombiani e di fortezze spagnole. Il rumore del mare, il vento tra le fronde delle palme, i bambini che gridano, il caldo e la sensualità della gente, sono elementi importanti di una pellicola girata con cura e fotografata con bravura. Importante anche il discorso che Vivarelli fa pronunciare a Stella davanti al palazzo dell’Inquisizione, dove i bianchi torturarono in nome di una presunta civiltà che non ammette niente di diverso dalle credenze preconfezionate. La parte finale del film vede l’arrivo a Santo Domingo dell’ex fidanzato Tony, ma ormai Paola è preda del Dio Serpente che l’ha scelta come sua ancella e non vuole che nessuno le si avvicini. Paola allontana da sé Tony e lo fa innamorare di Stella, mentre lei si abbandona a un lungo amplesso amoroso con il negro che rappresenta la divinità.
Piero Vivarelli utilizza un film per raccontare i misteri dei culti vudù, le possessioni, gli zombi privi di anima e i culti nati dagli schiavi africani per contrastare la repressione spagnola. Un film impedibile per gli amanti del mistero.
Piero Vivarelli si ricorda anche per Satanik, uscito nel 1968 e considerato un film horror, pure se il regista omette molti elementi orrorifici ed erotici presenti nel fumetto edito dalla Corno. Satanik è interpreta dall’affascinante attrice polacca Magda Konopka che ben impersona un’eroina sexy nata dalle ceneri della vecchia Marnie Bannister. Il film di Vivarelli riscuote un successo sbalorditivo di pubblico che frutta un incasso di centocinquantasei milioni di lire. Il personaggio del fumetto è una creatura di Max Bunker (Luciano Secchi) e Magnus (Roberto Raviola) e rappresenta una variante della storia del dottor Jekyll e Mister Hyde. Marny è una scienziata dal volto sfigurato, trasformata in Satanik, donna bellissima e perfida, grazie a un siero trafugato al professor Gray. Vivarelli descrive le avventure nere della seducente eroina ricorrendo troppo spesso allo zoom, ma lascia il ricordo di uno dei primi film sui fumetti proibiti.
I fumetti italiani dei primi anni Sessanta raccontano le gesta di criminali sadici e assassini, spesso permeate di torbido erotismo. Se scorriamo i nomi di quei personaggi troviamo una serie interminabile di eroi negativi. Diabolik delle sorelle Giussani è il primo a conquistare il mercato, ma subito dopo arrivano: Kriminal, Satanik, Sadik, Demoniak, Mister X, Fantax, Killing e molti altri. Tutti geni del male dispensatori di morte, mascherati di nero, vestiti da scheletro, veri e propri simboli di una diffusa voglia di trasgressione. Si tratta di fumetti in bianco e nero, graficamente poveri, stampati su carta pessima e in un formato che consente appena due vignette per pagina. Le storie derivano dal feuilleton francese e dai gialli di Edgar Wallace come Il teschio di Londra (Kriminal è frutto di quel romanzo). Sono fumetti che fanno infuriare i moralisti, capaci di scatenare una crociata di benpensanti e di censori contro certe pubblicazioni. I giovani degli anni Sessanta amano Diabolik, Kriminal e Satanik, almeno quanto i loro genitori li detestano, perché la lettera kappa è sinonimo di vietato e di fumetto diseducativo. Il film di Vivarelli ha il difetto di banalizzare il fumetto, sfumando gli elementi morbosi.