Amelia Faraone, la prima sciantosa napoletana

Articolo di Armando Giardinetto

Donna caratterizzata da una sensualità innata, Amelia Faraone nacque a Napoli, nel quartiere San Ferdinando, dopo l’Unità d’Italia, il 29 dicembre 1871 e ben presto, nel 1886, debuttò nel vero senso della parola grazie alla comica “Compagnia Napolitana” diretta da Eduardo Scarpetta. Più tardi il quotidiano “Roma” scrisse: “Fu molto applaudita ieri sera al Rossini, nella commedia “Marcot”, una giovane esordiente nell’arte rappresentativa, la signorina Amelia Faraone. Le liete accoglienze… saranno al pubblico promesse ed a lei incoraggiamento per futuri successi nella difficile palestra della scena”.

A vent’anni, si trovò a cantare e a ballare nel famosissimo Salone Margherita, inaugurato il 15 novembre 1890. La Faraone è passata alla storia per essere stata la prima chanteuse napoletana, amata soprattutto dagli uomini che rimanevano affascinanti dalla sua bellezza e dai suoi capelli biondi come l’oro: “Una stupenda napoletana bionda più che l’oro, autentica rarità: ha, sì e no, vent’anni quando appare la prima volta sulla scena… e subito furoreggia con le canzoni, i duetti-comici, e, bisogna dirlo, con le attrattive della bella persona di splendenti forme”, scriveva di lei, nel 1956, lo storico del varietà Luciano Ramo.

Nel 1885 suo padre, agente di cambio, il cavaliere Francesco Faraone, cadde in disgrazia giocando in borsa e impazzì totalmente, pertanto sua madre, Adelaide D’Amico, iniziò ad affittare le stanze della loro casa agli studenti universitari che si trovavano a Napoli. Intanto, dal momento che i soldi scarseggiavano, la signora Adelaide faceva lavorare le sue due figlie, Elvira ed Amelia, in un teatrino napoletano popolare, ma entrambe non conquistarono l’attenzione del pubblico: una, Elvira, si sposò con uno studente che abitava in una delle stanze della casa (poi rimarrà vedova e si risposerà) e l’altra, Amelia, rimase incinta di un giovane ufficiale di Capua, il quale venne costretto da donna Adelaide a pagare una cifra altissima per liberarsi di quella paternità non voluta. Le tre donne si traferirono a Roma, scampando alle chiacchiere del paese, e aprirono, con i soldi avuti dall’ufficiale, un piccolo caffè dove, dopo aver partorito la piccola Carmela, Amelia cantava e ballava a gambe scoperte e, interpretando “Levate ‘a cammesella”, conquistò le simpatie del popolo romano. Ben presto Amelia divenne una delle sciantose più in voga anche nella città di Torino, Milano e Napoli. Donna di grande furbizia e di spirito, si racconta che proprio nella città partenopea, dopo una delle sue esibizioni al Margherita, le si avvicinò un ricco uomo torinese, niente po’ po’ di meno che il figlio del re Umberto I, il principe di Napoli Vittorio Emanuele di Casa Savoia, per chiederle se volesse cenare con lui, ma Amelia gli rispose: “A una condizione: che sia invitata anche mia madre. Sapete, Altezza, io i duetti li faccio solo a teatro”.

Conquistato anche il Salone Margherita, Amelia si mostrava al pubblico cantando, suonando, dialogando e, soprattutto, ammiccando alla maniera napoletana. Il successo era dato dalla sua astuzia, intelligenza, spontaneità e dalle movenze del suo corpo che accompagnavano le canzoni che portava in scena, impersonando la napoletanità vera e propria: “`Apacchianella”; “O cuntrattino”; “Jett’o bbeleno” – che cantò con il cognato, secondo marito di sua sorella, il noto comico e cantautore Nicola Maldacea – “Quanno chiove passe e fiche”; “Lariulì” – scritta dal grande poeta napoletano Salvatore Di Giacomo – senza dimenticare alcune cosiddette macchiette: “Pozzo fa ‘o prevete?”, “A Signora lura” e, intanto, i maschi se ne innamoravano praticamente tutti: “Quann’è asciuta ‘a Faraona! Butto, burro, chella llà! Quant’è bbona! Quant’è bbona! M’ ’a vulesse cunfessà!”, diceva in scena parlando di sé, scherzando sul suo personaggio e sapendo bene che, al pubblico maschile, piaceva non poco. Tra tutti questi ammiratori spiccavano spesso nomi di uomini che contavano nella società e che la invitavano ad uscire con loro, ma la risposta di Amelia era sempre la stessa: “Esco con un uomo solo se c’è pure mammà”, anche se tutti sapevano che la sciantosa non usciva proprio sempre accompagnata dalla madre.

Nel 1904, collezionati moltissimi applausi, complimenti, corteggiatori, apprezzamenti e molto amata dalla critica dell’epoca, la trentatreenne Amelia scelse di ritirarsi dalle scene per concentrarsi sulla sua vita privata; sui suoi affetti personali. Questo suo ritiro ingiustificato colpì molto la stampa e il giornalista Ugo Ricci, che si occupava della rubrica “Mosconi” su “IL MATTINO” di Napoli, le dedicò un elogio: “La venustà di Amelia Faraone, serena e matronale, turbava il principale ed il garzone, Gerace ed Erricone, l’agente e l’assessore comunal. Era una donna quell’Amelia, nata per soggiogare un re di buona pasta, che nessuna scipita cicalata le avrebbe mai troncata con un “Basta!”. Che l’avrebbe difesa e secondata; che le avrebbe concesso, l’imprudente, persino di cantare “Casta Diva…”.

La prima sciantosa napoletana, Amelia Faraone, morì a Napoli il 19 dicembre del 1929, a pochi giorni dal suo cinquantottesimo compleanno.

La critica scrisse di lei moltissime cose durante la sua breve carriera: “Dicono che le Sirene incantano, infatti chi non si farebbe incantare da Amelia Faraone?”; “Un faro in giro, non sotto la dipendenza dell’on. Saracco, ministro dei lavori pubblici, ma della brava mamma che custodisce ogni giorno. Un faro di bellezza è Amelia Faraone, l’artista dalle curve sporgenti”; “La Faraone e la Barbetti lavorano discretamente, non hanno molta voce però si mettono bene in scena”.

Insomma la Faraone diventò una vera e propria star nel palcoscenico della cultura napoletana durante la Belle Époque e la si può ancora immaginare nel Salone Margherita di Napoli a cantare, in napoletano e in un francese maccheronico, le sue strofe ammiccanti: “Stu Pusilleco mm’ha miso ‘o Ffrancese ‘mmócc’a me: Mussiù, scianté appriess’a me: Guí! Mme piáciono ‘e maccaròn! guí, guí, guí, guí… Mme piace pasta e fasòl! guí, guí, guí, guí. La fatica a me non mi sòna! guí, guí, guí, guí. Viva Napoli e Parí’, guí, guí, guí, guí”

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