Gabriele Acerbo e Roberto Pisoni ristampano aggiornato il loro esaustivo Kill Baby Kill! – Il cinema di Mario Bava, che si fregia dell’introduzione di Joe Dante, già edito da Un mondo a parte (con un bel supporto fotografico), adesso pubblicato da Bietti in un aspetto più accademico e meno pop, per compiere un viaggio nel cinema di un grande autore, riconosciuto tale solo dai cinefili nordamericani. Molti i contributi e le interviste interessanti, da Steve Della Casa e Elena Bava, passando per Carlo Rambaldi, Mario Monicelli, Luciano Emmer, Riccardo Freda, Tim Lucas, Barbara Steele, Guillermo del Toro, Tim Burton, Roger Corman, Alberto Bevilacqua, Mark Dammon, John Landis, Quentin Tarantino, Ernesto Gastaldi, Sergio Martino, Dario Argento, Umberto Lenzi, Daria Nicolodi, Dardano Sacchetti … Il libro è frutto del lavoro finalizzato a scrivere un documentario per Sky, passato in anteprima a un ottimo ciclo di film di Mario Bava, dall’horror al thriller, senza dimenticare fantastico e commedia. In fondo al libro l’opinione della famiglia Bava (Roy e Lamberto), così come si legge una filmografia accurata completa di recensioni contemporanee, soprattutto stroncature, perché in Italia Bava non è stato mai capito. Bibliografia certosina, analisi degli effetti speciali, dei trucchi (spiegati da Bava durante una trasmissione Rai), della cultura pop che sta alla base di Diabolik. Un libro imperdibile e unico nel suo genere, il testo definitivo su Mario Bava, uscito in maniera opportuna contemporaneamente all’ottimo Diabolik dei fratelli Manetti, che come atmosfere cita molte sequenze del film di Mario Bava. Approfitto della lettura di questo libro, che mi ha fatto venire voglia di rivedere tutti i film del grande regista ligure, per raccontarvi l’opera del nostro più grande autore horror in poche pagine.
Mario Bava (1914 – 1980) può considerarsi a ragione il padre dell’horror italiano. Non vi fate ingannare se trovate i nomi di John Foam, Marie Foam o John M.Old. Si tratta sempre di Mario Bava sotto pseudonimo anglofono, come usava negli anni Sessanta per molti registi e scrittori horror. Bava inventa gran parte dei trucchi cinematografici e delle trasformazioni visive ancora in uso e prima di essere un artigiano della regia è un formidabile maestro della fotografia. La definizione di artigiano viene coniata dallo stesso Bava nel corso di un’intervista rilasciata a Luigi Cozzi nel 1971 per la rivista Horror. Il cinema italiano di quel periodo dispone di budget limitati e Bava è un grande economizzatore, un artigiano capace di costruire film validi con poca spesa. Gli esordi nel cinema vedono Bava in sodalizio con l’amico Riccardo Freda, prima ne I Vampiri (1957) e poi in Caltiki, ilmostro immortale (1959). La scheda tecnica di Caltiki,per esigenze di produzione, lo presenta come John Foam, direttore di fotografia ed effetti speciali, ma è provato che gira gran parte delle sequenze horror. Riccardo Freda attribuisce il film a Bava, con la considerazione che fa parte del suo modo di fare cinema fantastico. L’ameba gorgogliante che sommerge e divora esseri viventi è sicuramente un’idea di Bava che la realizza usando budella di animali. Il primo lavoro da regista di Mario Bava è La maschera del demonio (1960), ancora oggi uno dei più celebrati. Si tratta di un film gotico che ha per tema una strega che torna in vita per vendicarsi, girato in bianco e nero ma dotato di una stupenda fotografia, importante per un buon horror. Le caratteristiche del gotico classico si fondono all’abilità fotografica del regista che crea un bianco e nero suggestivo, un perfetto racconto per immagini di un evento soprannaturale. La storia prende le mosse dalla scoperta di un sarcofago con il corpo di una strega (Barbara Steele) all’interno di una cappella abbandonata nel bosco, le gocce di sangue del dottor Kruvajan (Andrea Checchi) cadono sulla defunta e la riportano in vita. Barbara Steele consegna alla storia del cinema di genere una grande interpretazione nel duplice ruolo da protagonista che la vede sia come strega che nei panni della pronipote oggetto della vendetta. Dopo questa pellicola l’attrice inglese verrà consacrata vera e propria icona del cinema horror. Una delle immagini memorabili del film è il marchio a fuoco della strega quando le viene applicata sul volto la “maschera del demonio” irta di punte metalliche. La storia è tratta molto liberamente da Il Vij di Gogol e sceneggiata da Ennio De Concini. Il film ha un successo incredibile in America e in Francia, meno apprezzato in Italia, dove l’horror stenta ad affrancarsi dall’etichetta di cinema di serie B. In Inghilterra ha problemi con la censura per alcune scene di violenza ed erotismo. Bava rende esplicita sin dalla prima opera la scelta di seguire i canoni del fantastico letterario e anche nei lavori successivi cerca l’aiuto di sceneggiatori come Alberto Bevilacqua per trasporre capolavori di Gogol, Maupassant e Merimée. Il regista romano ambienta quasi tutti i primi film in periodi storici che vanno dal 1500 al 1800, rispettando i canoni di un cinema gotico lanciato dalla casa inglese Hammer e dalle case produttrici d’oltre oceano. La maschera del demonio fa venire a mente la strega che non muore tra le fiamme ma torna in vita e seduce dalla tomba nascosta nella foresta. È un film impregnato di sadismo, necrofilia, erotismo e sensualità. Per dirla con Teo Mora è il trionfo del fantastico dell’erotismo. La pellicola saluta la nascita di un maestro del genere e sarà proprio questo primo film a immortalare Bava come un cantore del genere fantastico. Il regista sperimenta anche il western, il mitologico-fiabesco, il fantascientifico, persino il sexy, ma dimostra di trovarsi a suo agio con le creazioni fantastiche. Ercole al centro della Terra (1961) è un peplum ricco di componenti horror e soprannaturali, così come succederà per Maciste all’inferno (1962) di Riccardo Freda. La storia fantastica ci accompagna nelle viscere della Terra dove troviamo il mostro Procuste e un inferno terrificante. Il viaggio di Ercole ha motivazioni mitologiche (ritrovare una pietra vitale per salvare Deianira), ma la rappresentazione è da puro cinema dell’orrore e mette in primo piano morti che emergono dalle tombe, orrendi spettri vampiri che lottano contro l’eroe. Una fotografia suggestiva imprime il solito marchio d’autore e lo spettatore si trova calato in una spirale fantastica ricca di elementi macabri, come alberi che sanguinano, mari in tempesta e cieli multicolori percorsi da nuvole nere. Un film multicolore, come un opera pop, arricchito da voli di turpi arpie e di spettri vampiri, mentre sullo sfondo si consuma una storia d’amore. Ercole al centro della Terra è uno dei migliori peplum italiani, soprattutto per la componente orrorifica che lo rende un lavoro insolito e originale. Molto bravo Cristopher Lee nella parte del cattivo, mentre Teseo è interpretato da Giorgio Ardisson e Reg Park si cala nei panni di Ercole. Eleonora Ruffo è la bella di turno. La ragazza che sapeva troppo (1962) è un thriller alla Hitchcock, non solo perché nel titolo ricorda L’uomo che sapeva troppo del maestro inglese, ma soprattutto per la tensione e le divagazioni umoristiche inserite per stemperare i momenti topici della narrazione. Dario Argento lo prenderà come modello per L’uccello dalle piume di cristallo. Lo citiamo per completezza ma non presenta alcun elemento tipico della cinematografia horror. La frusta e il corpo (1963) è un classico film gotico ambientato in un castello in riva al mare, tetro al punto giusto, fotografato con attenzione ai toni scuri e sottolineato da un’efficace colonna sonora. Bava ci trascina in una spirale di suspense e di orrore a metà strada tra realtà e fantasia. La frusta e il corpo è un film gotico alla Roger Corman, anche se sarebbe più giusto invertire l’ordine, perché l’autore statunitense spesso si ispira alle atmosfere e alle suggestioni del regista italiano. Bava analizza una relazione sadomasochista in una cornice gotica, inserendo suggestioni erotiche che diventeranno tipiche della narrativa e della cinematografia horror italiana. La storia è basata su un solido soggetto e una sceneggiatura immune da pecche realizzata da Ernesto Gastaldi, Ugo Guerra e Luciano Martino, che firmano con nomi anglofoni. Nel 1963 è innovativo e anticonformista girare una scena sulla spiaggia con un sadico che frusta una masochista e subito dopo la possiede. Nonostante queste sequenze morbose, siamo di fronte a un film fantastico, che contamina diversi generi come il giallo, l’horror, l’erotico, ma è percorso anche dalle suggestioni del romanzo d’appendice e del thriller. La storia gode di un’ottima ambientazione gotica e la parte macabra del racconto resta confinata in una dimensione onirica, negli incubi della protagonista suggestionata da un amore malato. Bava conduce il film sul doppio binario del thriller e del fantastico, fino alla scena madre, vista dagli occhi della moglie e secondo la prospettiva del marito. Resta il doppio finale che può far credere sia a una storia frutto della follia di Nevenka, che ai delitti di un terribile spettro. La frusta e il corpo pare che sia considerato un cult-movie da Martin Scorsese, ma dovrebbe esserlo per chiunque ami il buon cinema realizzato con cura, fotografato con eleganza e girato con maestria. Il ritmo è lento e ossessivo, le morti misteriose soltanto due, ma la suspense è notevole per tutta la pellicola, che non presenta cadute di tono. I dialoghi risultano in parte datati, ma tutto il resto del film è ancora godibile e non risente minimamente del tempo passato. Un capolavoro del gotico italiano, capace di fondere erotismo morboso e tensione narrativa da giallo classico. Un’opera imprescindibile di Bava è I tre volti dellapaura (1963), un film a episodi che simboleggiano tre diversi modi di affrontare il tema della paura. Bava avverte che i soggetti sono di Cechov, Aleksej Tolstoj e Maupassant, ma non tutti concordano sulla veridicità delle fonti. Per Renato Venturelli, si tratta di un’esibizione letteraria, mentre il film sarebbe stato costruito adattando storie di Snyder e di Maupassant. Il regista confeziona un capolavoro fatto di tre momenti cinematograficamente diversi, ma impregnati di grande suspense e di suggestioni morbose. La fotografia e il colore sono ai massimi livelli, realizzano un’opera pittorica che si lascia guardare come un dipinto onirico e fantastico. Bava si avvale della sceneggiatura di Alberto Bevilacqua. Boris Karloff introduce la pellicola e ci accompagna sino alla fine con voce e immagine fuori campo. Il telefono è il primo episodio, definito da Fabio Giovannini come un piccolo capolavoro del brivido a base di coltellate e strangolamenti in una stanza da letto claustrofobica. Non siamo così entusiasti, forse è il momento più debole dell’intera opera, anche se la tensione è ben espressa e si affrontano temi nuovi per il cinema italiano (l’amore lesbico tra le protagoniste). Il clima è da thriller psicologico più che da horror puro e la cosa migliore resta la confezione a livello di suspense con la casa della protagonista che si trasforma in una prigione claustrofobica. I wurdalak vede Boris Karloff nelle vesti del vampiro-zombie della tradizione slava e la sua interpretazione fa dimenticare alcuni dialoghi che risentono del tempo passato (le scene d’amore tra Sdenka e Wladimir su tutte). I wurdalak, che tornano dalla morte per nutrirsi del sangue dei loro cari, sono i personaggi ideali per creare un’atmosfera cupa e spettrale. L’atmosfera di terrore è notevole e i toni scuri della fotografia contribuiscono a rendere realistica una storia fantastica. L’episodio sarà la base per realizzare La notte dei diavoli (1972) di Giorgio Ferroni. Horror gotico puro, senza mezzi termini. La goccia d’acqua è un piccolo capolavoro di horror psicologico ambientato in tempi moderni. Il padre di Bava, Eugenio, scolpisce la maschera della morta, vera protagonista dell’episodio che tormenta l’autrice di un furto sacrilego. Una goccia d’acqua scandisce l’angoscia di una mente in preda al rimorso che si lascia trasportare in una spirale di follia. Il terrore quotidiano è reso molto bene e l’intervento del soprannaturale si innesta soltanto alla fine in una storia ben congegnata per tensione e ritmo. In definitiva ciò che accomuna i protagonisti dei tre episodi è il fatto di trovarsi in un luogo chiuso alle prese con le loro paure. Sorprendente il finale con Boris Karloff a cavallo di un manichino che svela agli spettatori i trucchi di scena e dà vita a un’operazione di metacinema. I tre volti dellapaura ha successo negli Stati Uniti, dove esce come Black Sabbath, e ancora oggi gode dello status di cult movie. Sei donne per l’assassino (1964) segna il ritorno al giallo e anticipa tematiche tipiche di Dario Argento. La fotografia dai colori brillanti e violenti è il dato caratteristico di una pellicola che possiamo definire un thriller orrorifico. Per uccidere si cominciano a usare normali oggetti del quotidiano come coltelli e rasoi, il killer si aggira con un impermeabile nero e viene rappresentato come un signore del male con cui è impossibile lottare. Dario Argento si ispira a questa pellicola per realizzare Profondo Rosso (1975). Terrore nello spazio(1965) rappresenta un’originale incursione nel fantascientifico. Due astronavi che provengono da un mondo molto sviluppato sono in viaggio nello spazio, quando vengono attratti dalla forza di gravità di un pianeta desolato. Accade una cosa insolita, perché gli astronauti di una delle due navi si comportano con violenza e finiscono per massacrarsi tra loro. Una presenza aliena sorveglia gli astronauti, li segue mentre esplorano il pianeta, si impadronisce dei loro corpi e li uccide uno dopo l’altro. L’attacco è da fantascienza classica, stile vecchi film di Antonio Margheriti, girati in studio con la finzione scenica di trovarsi a bordo di una surreale astronave. Bava si sbizzarrisce nella confezione di modellini di pianeti, stelle, sonde spaziali e navicelle in fase di atterraggio. Il pianeta deserto è realizzato con grande fantasia visionaria, tra dune, nebbia densa, colori che tendono al rosso e al grigio. La scenografia è psichedelica, pittorica, molto suggestiva, se facciamo i conti con i mezzi tecnici a disposizione. La cosa migliore del film, dal punto di vista orrorifico, è il simbionte alieno che entra nei corpi umani sotto forma di nebbia e se ne impossessa. Alcune sequenze ricordano il cinema degli zombi, perché gli astronauti morti si liberano degli involucri di cellofan, sollevano le tombe e cominciano a muoversi barcollando. In realtà non sono zombi veri e propri, ma entità aliene che catturano defunti per sopravvivere. Luci rosse e verdi che si muovono nell’atmosfera del pianeta rappresentano gli alieni a caccia di corpi da sottomettere ai loro voleri. Ricordiamo come buon effetto horror anche gli uomini uccisi e risorti sotto forma di alieni che esibiscono un volto scarnificato. I compagni morti che ritornano sotto forma di zombi hanno lo sguardo fisso e perso nel vuoto. Sono involucri per parassiti alieni. Il film è tratto da un racconto di Renato Pestriniero (Una notte di 21 ore), si avvale della sceneggiatura dello scrittore Alberto Bevilacqua, del critico cinematografico Callisto Cosulich e di Antonio Romano. Lamberto Bava debutta come assistente alla regia. Gli effetti speciali sono tipici del cinema fantahorror, Bava realizza atmosfere inquietanti e macabre, ma anche un colpo di scena finale che vale da solo la visione del film. Gli alieni si impossessano di due corpi, fanno rotta verso la Terra, pianeta sottosviluppato da conquistare, e preparano l’invasione che farà risorgere la loro razza. La pellicola viene girata in grande economia, utilizzando rocce di plastica, zampironi fumogeni e scenografie di fortuna. Una pellicola terrificante, ma ricca di colori e di suggestioni fantastiche difficilmente ripetibili, uno dei momenti più alti della cinematografia di genere italiana. Il risultato raggiunto rappresenta un vero miracolo, anche perché il film – con l’idea del gigantesco scheletro alieno – funge da motivo ispiratore per Alien (1979) di Ridley Scott, anticipando un prodotto statunitense di successo. Nel cast spicca un nome importante come Barry Sullivan, ma vanno citati anche Angel Aranda, la bellissima brasiliana Norma Bengell e un giovane Ivan Rassimov. Operazione paura(1966) segna il ritorno di Bava all’horror puro. La storia è una raffinata vicenda gotica calata in un’atmosfera fantastica e inserita in una credibile ambientazione settecentesca. Giacomo Rossi Stuart è il dottor Paul Eswai, medico legale che deve accertare le cause della morte inspiegabile di alcune persone. La pellicola comincia con un suicidio di una giovane donna e subito intuiamo che c’è qualcosa di strano in un paese dove la gente non parla e accoglie con fastidio i forestieri. Il commissario è solo, gli abitanti vogliono impedire autopsie, il borgomastro sa molte cose ma preferisce tacere. Il medico indaga sulle cause dei decessi e dopo alcune autopsie comprende che la spiegazione del mistero va cercata a Villa Graps, dove vive una vecchia baronessa. Gli abitanti del paese sono impauriti e non collaborano, ma il medico scopre che la baronessa evoca lo spettro della figlia per vendicarsi di chi l’ha fatta morire. La bambina è morta dissanguata dopo una caduta da cavallo e sua madre ritiene colpevole del decesso l’intero paese. Nel fantastico finale dipinto a tinte cupe, vediamo la sfida tra una fattucchiera che muore per uccidere la perfida baronessa. Bava rappresenta il paese come un microcosmo popolato da persone in preda al terrore, mentre il castello è il regno del male assoluto. La pellicola racchiude i migliori temi dell’horror gotico italiano, dalla donna che si vendica fino all’angosciosa paura del soprannaturale. Il personaggio della bambina evocata dalla baronessa, che appare facendo rimbalzare una palla e anticipa il destino delle sue vittime, è ben costruito e sta a metà strada tra innocenza e perfidia. Il regista insiste molto sulla soggettiva della bambina fantasma che si muove in mezzo alla nebbia con un sottofondo di musica infantile. Le bambole, la camera della bambina che è rimasta come quando era viva, i carillon che suonano, sono tutti elementi che ritroveremo nel miglior Dario Argento. Il bambino è un elemento caratteristico dell’horror italiano, Bava è uno dei primi registi a impostare trame su presenze inquietanti di ragazzini. Ricordiamo ancora con terrore il volto della bambina che compare alla finestra per annunciare una nuova morte. Gianna Vivaldi è perfetta come spiritata baronessa con i capelli bianchi sconvolti e lo sguardo perso nel vuoto, ma soprattutto è inquietante quando si cala nei panni medianici ed evoca la figlia morta. L’atmosfera è curata nei minimi particolari, la campana che suona a morto, la palla che rimbalza, un’altalena che oscilla nel vento, un cimitero con statue di marmo immerso nella notte. La colonna sonora di Carlo Rustichelli è molto suggestiva, anche perché riesce a caratterizzare i momenti di tensione e le morti violente. La ripresa della morte è efficace, anche se molte sequenze vengono limitate nei particolari da una solerte censura. Ricordiamo la ragazza che si suicida con un candelabro e il borgomastro che si taglia la gola con la falce. Sono due notevoli momenti gore. Le parti fantastiche sono indimenticabili, ma tra tutte ricordiamo Rossi Stuart avvolto in una gigantesca ragnatela, preda di un incubo a occhi aperti. Va segnalata anche la corsa stanza dopo stanza del protagonista che alla fine si accorge di inseguire se stesso. Si tratta di due allucinazioni fantastiche davvero ben riuscite. Il film è ricco di elementi gotici: nebbia, vento, cripte cadenti, ragnatele, cimiteri onirici, altalene che oscillano nella notte e momenti di necrofilia appena suggeriti. Un horror gotico soprannaturale che cala lo spettatore in una spirale di paura sempre più coinvolgente. Bava ritiene Operazione paura il suo film migliore e in un’intervista rilasciata a Luigi Cozzi si rammarica per un presunto plagio perpetrato da Federico Fellini. Il regista romano riprende per il suo Toby Dammitt (episodio di Tre passi nel deliriodel 1967)l’idea della bambina fantasma che gioca a palla, ma ci piace pensare che non sia stato un plagio quanto una sorta di omaggio. Lo stesso tema lo troveremo anche in altre pellicole italiane come Streghe (1989) di Alessandro Capone e Il profumo della signora in nero (1974) di Francesco Barilli. Operazione paura è il classico horror anni Sessanta a base di cripte, notti ventose, castelli maledetti e donne mostruose. Un film girato in economia nel quale solo la maestria di Bava rende realistici scenari realizzati in studio. Tra gli interpreti citiamo oltre a un ottimo Giacomo Rossi Stuart, anche Erika Blanc, Piero Lulli e la giovane Micaela Esdra. Diabolik(1968) è il film successivo, ispirato al popolare fumetto, ma limitato dalla produzione De Laurentiis che obbliga il regista a realizzarlo con un budget di duecento milioni. Bava ricorda l’esperienza di Diabolik come uno degli episodi più allucinanti della sua carriera. Deve girare un film ricorrendo a modellini e fotografie ritagliate e utilizzate per ovviare allo squallore della scenografia. Tant’è vero che rifiuta con decisione di lavorare a un sequel, quel Diabolik alla riscossa che la produzione propone per sfruttare il successo di Diabolik. Mario Bava è un grande artigiano del cinema e ricava il massimo dal poco che i produttori mettono a disposizione, ma la sua fama diventa così grande che tutti pretendono miracoli. In tema di cinema fantastico non dobbiamo dimenticare che, tra il 1968 e il 1969, Bava cura lo stupendo episodio di Polifemo per la riduzione televisiva dell’Odissea di Franco Rossi. Lo sceneggiato fa furore e contribuisce a divulgare la conoscenza del poema epico nelle case di milioni di italiani. Polifemo è un eroe tragico, muove a sentimenti di compassione e pena, ma il regista lo realizza con una maschera terrificante. Bava è un maestro degli effetti speciali. Il rosso segno della follia (1969), che il regista definisce la storia del solito pazzo, è uno dei suoi film più studiati e meglio riusciti. Tratto da una novella di Santiago Moncada, racconta le macabre gesta di un serial killer che uccide a colpi di accetta tutte le donne che incontra sulla sua strada. Bava riconduce la follia del personaggio alla morte della madre inserendo interessanti connotazioni psicologiche. Il killer finisce per innamorarsi di una bella poliziotta come Dagmar Lassander (al secondo film in Italia), cerca di non ucciderla, ma la pazzia è più forte della volontà. La pellicola anticipa i futuri thriller di Dario Argento e approfondisce la psicologia contorta dell’omicida. Il protagonista è un assassino dalla sessualità repressa e deviata interpretato da Stephen Forsyth che si muove all’interno di una casa di moda, quasi a citare il precedente Sei donne per l’assassino. Un’altra citazione è per I tre volti della paura che l’assassino guarda in televisione. La pellicola va classificata horror per un’impostazione delirante che va ben oltre i canoni consueti del giallo all’italiana. Nel cast ricordiamo Laura Betti (moglie del killer) e Dagmar Lassander. Cinque bambole per la luna d’agosto(1969) è la rilettura di Dieci piccoli indiani di Agata Christie, un film da dimenticare, girato in fretta e poco ispirato. Mario Bava lo ritiene il suo lavoro peggiore, girato per motivi alimentari. Cinque bambole per la luna d’agosto (1969) è un thriller con molte bellezze femminili come Edwige Fenech, Ira Fürstemberg ed Ely Galleani. Tra i protagonisti maschili ricordiamo William Berger, nei panni del geniale inventore di una formula chimica che fa gola a tre industriali. A contendersi la formula ci sono: Jack (Maurice Poli), Nick (Howard Ross, alias Renato Rossini) e George (Teodoro Corrà) con le rispettive mogli. La location del film è una suggestiva villa sopra una scogliera che scopre un panorama di palme. Il posto è suggestivo e isolato dal mondo, ma è proprio lì che si scatena la caccia alla formula e prende il via un’allucinante serie di delitti. Il film vede un gruppo di uomini in una villa che vengono uccisi uno dopo l’altro. Cinque bambole per la luna di agosto è un lavoro scadente, pare un’opera di Mario Bianchi che in ogni caso è aiuto regista. Il film gode di scarsa tensione, è molto lento, soprattutto è scritto e sceneggiato male da Mario Di Nardo che fa pronunciare ai protagonisti penosi e inutili dialoghi. Marco Giusti sostiene che nella pellicola “il sadismo si spreca e pure i particolari macabriabbondano”. Purtroppo non è vero. Reazione a catena(1971), noto anche come Ecologia del delitto e Antefatto, è di grande importanza perché rappresenta un’incursione nello splatter violento e un’anticipazione di quello che sarà Venerdì13 (1980) di Sean Cunningham. I delitti sono centrali alla storia e quasi la sostituiscono, ciò che conta è soltanto come morirà la prossima vittima. Siamo in pieno cinema macelleria: i morti si susseguono a colpi di coltelli, asce e affilate lame d’acciaio. Il film è ambientato in una villa dove viene uccisa dal marito un’anziana contessa (Isa Miranda), ma subito dopo anche l’uomo viene assassinato. Una serie di omicidi si susseguono senza sosta e il motivo di tanto sangue è una speculazione edilizia sulla baia costruita davanti alla villa. I superstiti di una simile ecatombe vengono eliminati da due bambini che impugnano le armi per gioco ma uccidono davvero. Bava abbandona l’horror gotico e fantastico per indagare la grettezza dell’animo umano, la cattiveria profonda che alberga dentro di noi. Il film è uno slasher movie ante litteram, ma soprattutto è un’analisi spietata sulla parte più malvagia dell’animo umano. Alla resa dei conti non si salvano neppure i bambini. Può essere classificato horror per il modo delirante in cui affronta la materia e per l’atmosfera di terrore che aleggia sulla pellicola. Nel cast ricordiamo Claudine Auger, Luigi Pistilli, Claudio Volontè, Isa Miranda e Leopoldo Trieste. Dardano Sacchetti, Franco Barberi, Filippo Ottoni e Giuseppe Zaccariello, firmano insieme a Mario Bava uno degli horror più innovativi del cinema italiano. Gli orrori del castello di Norimberga(1972) è un film gotico vecchio stile, una favola paurosa. Una sorta di omaggio al cinema fantastico degli anni cinquanta e sessanta, girato con cura e attenzione ai particolari. La casa dell’esorcismo(1973) giunge in pieno boom da Esorcista, quando i peggiori mestieranti si cimentano in squallide copie del film di William Friedkin (1973). La pellicola originale di Bava è Lisa e il diavolo, ha una struttura colta e raffinata, tant’è vero che viene presentata al Festival di Cannes nel 1973. Nessuno vuole produrla perché ritenuta inadatta al pubblico italiano. Per metterla sul mercato il produttore Alfredo Leone procede al massacro sistematico e inserisce una parte esorcistica. Il titolo viene cambiato, molte scene modificate e altre inserite ex novo. Bava si rifiuta di stare al gioco e ripudia il film che esce nelle sale, completamente diverso dalla sua idea iniziale. Il film originale viene girato nel 1973 ed è rivisto nel 1975 per la nuova edizione. Lisa e il diavolo racconta l’avventura di una giovane donna che incontra un uomo con le stesse fattezze del diavolo raffigurato in un antico affresco. Da notare che l’attore chiamato a interpretare il diavolo del dipinto è Telly Savalas, il popolare Kojack televisivo. Le inquietanti peripezie di Lisa si susseguono in un crescendo onirico di ossessioni reali e incubi soprannaturali. Il film prende corpo in una villa dove Lisa incontra un perfido maggiordomo che l’accompagnerà sino al surreale finale a bordo di un aereo. La trama è confusa e a tratti irrazionale, ma il regista voleva comporre un affresco necrofilo intriso di erotismo perverso, incentrato sul tema del doppio e delle famiglie maledette. Il fascino della pellicola risiede nell’incombere del diavolo in ogni fotogramma della storia. Il maggiordomo è un folle burattinaio che compone e muove pupazzi verso un orribile finale. Troviamo molti temi onirici cari a Bava come la nebbia, gli specchi, i colori giallo e rosso acceso, ma pure i carillon e gli orologi a pendolo che suonano. Si tratta di puro cinema gotico, ma anche di horror d’atmosfera sottolineato da una musica intensa e dalle apparizioni dei defunti che cambiano aspetto e diventano manichini. Sono ottime le parti oniriche sul passato di Lisa che si ricorda in un prato e immagina il volto di un morto, pensa di farci l’amore, sente suonare un carillon e alla fine prende corpo il volto del figlio. Alida Valli è una perfida protagonista cieca, Telly Savalas è una sorta di diavolo ghignante che muove i fili del mistero, Elke Sommer è un’ottima protagonista. Il film ha momenti di erotismo morboso, ma anche di necrofilia fantastica, con sequenze horror soprannaturali di grande impatto visivo. La sfilata dei morti a tavola è un esempio eclatante. Si può definire come un giallo soprannaturale dotato di un doppio finale che vede i morti del film a bordo di un aereo guidato dal diavolo. Il diavolo orchestra la messa in scena, utilizza manichini per catturare anime, fa tornare in vita una casa stregata e si prende le proprie vittime predestinate. La casa dell’esorcismo è lo stesso film modificato in versione esorcistica, aggiungendo alcune scene con un prete impegnato a scacciare il demonio dal corpo della protagonista. Nel cast troviamo Telly Savalas, Elke Sommer, Sylva Koscina e Robert Alda. La seconda versione del film risulta più confusa e meno interessante della prima, ma il produttore la lancia sul mercato per motivi eminentemente commerciali. Cani arrabbiati(1976) è tratto da un romanzo di Ellery Queen ed è un buon film riscoperto da pochi anni in Italia. Si tratta della storia di quattro banditi mascherati che rapinano un portavalori, ammazzano due guardie, ma nella fuga uno di loro rimane ucciso. I tre superstiti catturano due donne in un garage, una finisce sgozzata, l’altra continua a servire per proteggere la fuga. I banditi prendono un uomo come ostaggio e si susseguono diversi colpi di scena che rendono il film interessante fino alla parola fine. Un thriller sui sequestri di persona duro e inquietante, molto esplicito come contenuti e scene di sangue. Non ha mai trovato un distributore ed è stato messo in circolazione in Italia nel 1995, dopo la morte del regista, con il titolo di Semaforo rosso. Per Tarantino è un cult. Shock – Transfert Suspence Hypnos(1977) è l’ultimo film di Bava. Un vero e proprio omaggio a Dario Argento, il suo allievo più geniale che ha riscosso un grande successo con Profondo Rosso (1975). Shock rappresenta il simbolico passaggio di consegne e la fine di un modo di fare horror tipico del decennio precedente. Protagonista femminile è Daria Nicolodi, regina dell’horror italiano anni Settanta, attrice prediletta di Dario Argento e sceneggiatrice di molti film. John Steiner è il suo compagno, mentre gli altri protagonisti sono David Colin jr e Ivan Rassimov. Shock è un neo gotico scritto da Dardano Sacchetti, una morbosa storia di fantasmi che vede protagonista un bambino, come da buona tradizione horror italiana. Una misteriosa presenza accompagna le giornate di Marco, mentre la madre osserva i suoi strani comportamenti in compagnia del secondo marito. Un flasback provocato da un disegno del bambino fa ricordare alla donna che è stata lei a uccidere il primo marito, sotto l’effetto degli stupefacenti di cui entrambi facevano uso. La donna uccide il nuovo compagno con un colpo di piccone al petto e alla fine si toglie la vita con un rasoio mentre crede di lottare contro lo spettro del primo marito. Il finale vede ancora protagonista il bambino che chiede al fantasma del padre: “Quale gioco facciamo adesso?”. Il film si presta a una doppia interpretazione. Potrebbe essere la follia della donna ad aver provocato tutto e non ci sarebbe mai stata alcuna presenza soprannaturale. Il bambino che serve la colazione al fantasma e chiede notizie sul nuovo gioco da fare capovolge l’interpretazione realistica. Alcune parti horror sono indimenticabili, nonostante la pellicola abbia momenti stanchi e presenti pause evidenti. Ricordiamo la mano livida del fantasma che tocca il corpo della moglie, ma anche un’altalena che si muove nella notte e l’apparizione del marito defunto. Il rastrello che si conficca nella gamba della donna e si trasforma in una mano livida che ghermisce è un altro bel momento fantastico. Meno riuscito il coltellino che vola, arma del primo delitto ed elemento risolutivo della storia. La colonna sonora dei Libra sfrutta le note soft del pianoforte, ma è a base di carillon e musica infantile, una sorta di omaggio ai vecchi horror come Operazione paura ma anche alle nuove favole nere di Argento. Il fantasma del padre è una presenza che si fa sempre più corporea nelle parole inquietanti del bambino (“Mamma ti devo uccidere!”) e nei suoi incubi a occhi aperti. Il padre ha subito una morte violenta in quella casa ed è stato murato in cantina, per questo torna come fantasma vendicativo per mezzo del figlio. Shock presenta suggestive parti oniriche e flashback intensi che costruiscono una cupa storia di fantasmi e di oscure presenze demoniache. Ricordiamo una curiosa doccia di Daria Nicolodi che non ha niente della commedia sexy, ma è girata in funzione morbosa per creare un clima da erotismo malsano. Il bambino è il vero protagonista di una crescente spirale di orrore, come da vecchia tradizione italiana. La parte finale è molto intensa, perché quando la moglie si rende conto di aver ucciso il marito prendono corpo le vecchie paure. Il nuovo compagno si è adoprato per curarla e aiutarla, ma ha contribuito a nascondere le tracce del delitto. Un effetto speciale ben fatto è il muro della cantina che sanguina, seguito subito dopo dal marito che compare come amante lussurioso e infine come angelo vendicativo. La casa che sembra prendere vita contro la donna consapevole del suo crimine è una nuova sequenza interessante. Shock è un capolavoro di tensione, un racconto angoscioso girato quasi completamente in interni, una storia di fantasmi che ricorda il vecchio La frusta e il corpo. Si tratta di un film claustrofobico, un horror psicologico basato sul terrore quotidiano e sulla leggenda della casa infestata dopo una morte violenta. Ha un gran successo in Giappone, mentre in Italia passa inosservato. La carriera di Mario Bava si conclude nel 1979 con il telefilm del mistero La Venere d’Ille, girato in collaborazione con il figlio Lamberto. Gli interpreti sono Daria Nicolodi, Marc Porel, Adriana Innocenti e Fausto Di Bella. Il film è ambientato nel XIX secolo e prende le mosse da una Venere di bronzo che rientra nei possedimenti di un nobile (Mario Maranzana), ma dopo alcuni eventi infausti c’è chi dice che la statua porta sfortuna. Il nobile non ci crede e pensa di usarla per abbellire la cerimonia nuziale di suo figlio. La statua, però, è molto simile alla futura sposa e tutto questo provoca nuove suggestioni fantastiche. Il telefilm è inserito nella serie I giochi del diavolo – Storie fantastiche dell’Ottocento. Si tratta di un breve melodramma gotico, magico e sentimentale, che segna il ritorno di Bava al cinema in costume, interessante come simbolico passaggio di consegne tra padre e figlio. Mario Bava è l’unico regista italiano ad aver lavorato con le principali star del cinema horror inglese e americano, attori del calibro di: Christopher Lee, Boris Karloff, Vincent Price, Barbara Steele (lanciata come dama nera del gotico anni Sessanta) e Joseph Cotten. Non solo, ci sono attori scoperti da Bava e consacrati a futuri ruoli nel cinema horror italiano. Basti per tutti l’esempio di Nicoletta Elmi ne Gli orrori del castello di Norimberga che ritroviamo in Profondo Rosso di Dario Argento e in Dèmoni di Lamberto Bava come demoniaca bigliettaia. La stampa contemporanea ribattezza Mario Bava come Hitchcock di Cinecittà, prendendo spunto da titoli come La ragazza che sapevatroppo. Bava ha un suo stile e con il grande maestro del giallo ha soltanto debiti di ispirazione, è un regista che eredita dal padre scultore la passione per i colori e per le immagini, vorrebbe fare il pittore ma approda al cinema, un mezzo artistico che utilizza in modo originale. Riportiamo con piacere una valutazione di Pascal Martinet. Bava crea un’estetica della morte e del crimine. Al diavolo la logica. Importa solo la descrizione grafica della violenza. Carni torturate, graffiate, bruciate, catturate dalla crudeltà della macchina da presa che si diverte a precedere l’attimo in cui l’assassino colpisce. Assassino senza volto, primo di una lunga tradizione e la cui assenza di fisionomia rimanda ai nobili incubi archetipici. Aggiungiamo (con Fabio Giovannini) che Bava riesce a rendere il paesaggio mediterraneo credibile per ambientare storie horror. È uno dei primi a farlo, insieme al Pupi Avati di capolavori come La casa delle finestre che ridono. Il gusto per il terrore è un’altra caratteristica ed è ben rappresentato dall’utilizzo frequente di coltelli e pugnali per gli omicidi, particolare che Dario Argento spinge all’eccesso. La lama è cinematografica, dice lo stesso Bava. Bava si cimenta in quasi tutti i generi cinematografici in voga a Cinecittà negli anni Sessanta – Settanta, seguendo i grandi successi che venivano dall’Inghilterra o dagli Stati Uniti, ma spesso anticipando idee future. Nella presente trattazione non interessano i numerosi film di argomento mitologico, fantascientifico, favolistico, western e sexy. Per completezza citiamo: Le fatiche di Ercole (1957), Ercole e la regina di Lidia (1958), La battaglia diMaratona (1959), Gli invasori (1961), Le meraviglie di Aladino (1961), La strada di Fort Alamo (1965), I coltelli del vendicatore (1966), Le spie vengono dal semifreddo (1966), Raycolt eWinchester Jack (1969) e il censuratissimo Quante volte… quellanotte (1969 – 73).