Noi lo sapevamo. Sapevamo che quando lo scanner collegato alle radio della polizia gracchiava e tu riuscivi a captare che il codice “Monza” era il dieci, sapevi che una persona era stata colpita da colpi d’arma da fuoco. Ed era allora che l’adrenalina ti entrava in circolo e ti concentravi e stavi con l’orecchio appiccicato all’altoparlante per cogliere il secondo indizio che ti avrebbe permesso di arrivare sul luogo dell’omicidio.
Il luogo appunto! E quando questo, puntualmente, accadeva, mollavi tutto, infilavi in borsa alla rinfusa fotocamere, obiettivi e pellicole, e correvi. Correvi come non ci fosse un domani. Con qualunque mezzo correvi, a piedi, auto o vespa che sia. Correvi all’impazzata perché DOVEVI arrivare presto e soprattutto per primo. Dovevi arrivare prima dei tuoi colleghi e prima che il cadavere venisse coperto dal lenzuolo, altrimenti eri costretto a star li per ore in attesa che il sudario venisse tolto. E anche allora non saresti stato sicuro di beccare la foto giusta, e dovevi ingaggiare una vera e propria lotta per avere lo scatto più efficace.
Si, perché in quegli anni i morti ammazzati dovevi fotografarli senza lenzuolo. Se così non era non ti compravano le foto. E ti prendevi pure una tirata d’orecchi del tuo caporedattore e una sfuriata dal direttore. Arrivare per primo ti permetteva di muoverti liberamente sulla scena del delitto e scegliere le migliori inquadrature. Sono momenti di confusione e concitati, polizia e carabinieri non fanno caso a te, che comunque sai come muoverti in quel palcoscenico di sangue. Generalmente le angolazioni migliori erano quelle da dove si vedevano i fori dei proiettili.
E il sangue. Eravamo bravi ed esperti. Riuscivamo a distinguere il tipo di proiettile che aveva centrato la vittima. E da questo ci facevamo l’idea di che tipo di omicidio si trattava: calibro 22 piccoli fori scuri sulla pelle, senza molto sangue. Generalmente non erano delitti di mafia. Calibro nove erano buchi più consistenti ma ben definiti, in entrata ed in uscita. Poteva anche essere un delitto di mafia. Calibro 38, buchi larghi e sfrangiati, sagome d’uscita deformate.
Era un delitto di mafia. E poi c’era la lupara, rigorosamente a canne mozze. Li meglio evitare la descrizione, o forse, per dare l’idea, meglio parlare di “demolizione”. Raccapricciante, questo è l’aggettivo giusto. E andavamo avanti così noi fotoreporter di cronaca, giorno dopo giorno. Di media un centinaio di volte l’anno, inseguendo gazzelle e pantere in quella giungla di cemento chiamata Palermo.