8 marzo: L’incendio della Triangle Shirtwaist Company

Articolo di Armando Giardinetto

Non tutti conoscono questa storia che viene ricordata nella Giornata internazionale dei diritti della donna. Si tratta dell’incendio della fabbrica di camicie della Tringle Shirtwaist Company avvenuto a New York, nel cuore di Manhattan, nel pomeriggio di sabato 25 marzo del 1911, in cui morirono 123 donne – tra cui molte italiane – e 23 uomini, oltre a 71 feriti. La triste storia si colloca in pieno contesto migratorio quando già milioni di connazionali avevano lasciato il Bel Paese per raggiungere il cosiddetto “sogno americano”.

La fabbrica occupava gli ultimi 3 dei 10 piani dell’enorme palazzo – Asch building – dalle cui finestre si poteva scorgere la statua di Giuseppe Garibaldi nel mezzo del Washington Square Park. Queste operaie faticavano in condizioni pressoché disumane: c’erano tra loro bambine di 12 anni che, come le altre, lavoravano circa 72 ore a settimana per un salario di 28 $ al mese; il lavoro si svolgeva senza nemmeno le necessarie condizioni di sicurezza e in camere strettissime, afose d’estate e gelide d’inverno, con pavimenti in legno e con illuminazione a gas, con poca ventilazione e con pochissime luride latrine. Di fatto le donne operaie si muovevano in mezzo a tessuti altamente infiammabili, con pochissima acqua disponibile e, tra le altre cose, alcuni uomini riuscivano comunque a fumare in questi locali senza curarsi del pericolo incombente. Per di più la scala antincendio non si rivelò una via di salvezza poiché non fu capace di reggere il peso delle persone in fuga, infatti crollò trascinando giù con sé 20 persone da un’altezza di 30 metri; inoltre appariva completamente intasata da scatole e altri oggetti e, in alcuni tratti, era addirittura chiusa con catena e lucchetto. C’è da dire che i proprietari della fabbrica, Max Blanck e Isaac Harris, tenevano le operaie chiuse a chiave, sotto l’occhio vigile del caporeparto, per paura che potessero fare entrare i sindacalisti, che potessero fumare, rubare la stoffa o fare molte pause, infatti nessuna poteva parlare con la collega a fianco perché poteva essere visto come un tentativo di ribellione e di accordi a favore del sindacato. Ciò fu determinante per il numero delle vittime perché, quando l’incendio cominciò all’ottavo piano – forse provocato da un mozzicone di sigaretta ancora acceso, alle ore 16:40, dal lato di Greene Street – esso si propagò immediatamente nei locali circostanti fin sopra al nono piano, espandendosi poi al decimo. Molte donne, non avendo altre vie d’uscita, si lanciavano dalle finestre cadendo in un vuoto interminabile che li portava a morte certa, nonostante il lavoro dei pompieri, arrivati quasi immediatamente sul posto, che aprirono delle reti di salvataggio, ma il volo di quelle poverette era troppo alto e le reti non riuscivano a salvarle: “Quel giorno imparai un nuovo suono… più orribile di quanto possa narrare la descrizione, ovvero il tonfo di un corpo vivente che sbatte su un pavimento di pietra”, disse il signor W. G. Shepard.

Molte altre operaie furono completamente inghiottite dalle fiamme e, mentre i vigliacchi Blanck e Harris scappavano senza neppure provare a mettere in salvo quelle povere lavoratrici, urla di dolore e di terrore attraversavano i muri e l’aria di quella zona della Grande Mela tanto che, in meno di un’ora, tutta New York sapeva dell’incendio. I parenti delle operaie andarono presso la fabbrica e molti dovettero procedere al riconoscimento dei cadaveri che apparivano carbonizzati, riconoscibili solo per qualche brandello di abito, un anello, una moneta, una catenina, una scatolina, una borsa carbonizzata: “Mia nonna andò a lavorare nella fabbrica Triangle… poi, quando mia zia Lucia diventò maggiorenne, anche lei andò a lavorare là e poi… zia Rosaria, che era appena una ragazzina, fu assunta là. Rosaria aveva 14 anni, mia zia Lucia ne aveva 18 e mia nonna 38… Mio nonno andò immediatamente ad identificare le tre donne della famiglia e riuscì subito a riconoscere mia zia Lucia e mia zia Rosaria, ma non riuscì a identificare mia nonna e, allora, ogni giorno… andava all’obitorio… lì conservavano gli effetti personali di ciascuna vittima in una scatola… nelle scatole c’erano un pezzetto di stoffa con un nastro per capelli o una fede nunziale. Dopo essere andato all’obitorio… per quasi un anno, mio nonno decise che una certa scatola conteneva gli oggetti di mia nonna. Quello di mia nonna era uno dei corpi che erano stati sepolti come non identificati… allora mio nonno la fece esumare e portare nel cimitero”, è una delle commoventi testimonianze di un parente delle vittime.

Al processo che seguì, oltre al danno, ci fu la beffa: i due imprenditori vennero assolti a formula piena e vennero rimborsati di 60.000 $ per i danni subìti, mentre alle famiglie delle vittime vennero dati 75 miseri dollari. Le immigrate che lavoravano alla fabbrica, nel 1909-1910, già avevano fatto parlare di sé perché decisero di combattere per i loro diritti, la loro manifestazione passò alla storia come la “protesta delle 20.000 camiciaie”, tuttavia fu inutile poiché l’amministrazione della Tringle rifiutò di firmare gli accordi stabiliti dai sindacati e provvide a rendere più duro il lavoro per quella povera gente. Una testimone dell’incendio, la signora Rose Freedman, morta a 107 anni nel 2001, prima di morire, rilasciò un’intervista per Vanity Fair: “Mi coprii la testa con la gonna… e saltai tra le fiamme per arrivare alla scala che saliva al decimo piano… Salii ancora e, uscita sul tetto, li vidi tutti lì (gli impiegati del decimo piano). Invece di scendere ad aprirci la porta, avevano solo pensato a mettersi in salvo… Incontrai uno dei padroni. Mi promise mari e monti se avessi raccontato al processo che le porte erano aperte… Non gli risposi neppure”. Il giorno dopo l’accaduto i parenti delle vittime si recarono sul luogo del delitto e urlavano i nomi delle loro donne morte nell’incendio. Furono distribuiti dei volantini tradotti in più lingue su cui c’era l’invito a partecipare ai funerali e a invocare giustizia. In quei giorni, si racconta, pioveva a dirotto. I funerali furono organizzati con grande rispetto: il carro funebre, che veniva trainato da cavalli bianchi e portava le bare dei corpi non identificati, attraversava tutta l’aria in un maestoso silenzio; seguivano numerosi omaggi floreali, altre bare e gente che, immersa nel dolore, recava in mano striscioni con su scritto in inglese: “Piangiamo la nostra perdita”. Fu un ulteriore sacrificio all’insegna della battaglia che le donne di tutto il mondo hanno promosso e promuovono per avere diritti su tutti i fronti e per scongiurare le violenze che, molto spesso ancora oggi, ingiustamente subiscono.

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