Nelle nostre scuole – soprattutto quelle ad indirizzo tecnico e professionale – sono sempre più alte le percentuali di studenti di seconda generazione che fanno parte dell’intera comunità scolastica e prendono parte a tutte le attività insieme agli studenti madrelingua italiana, partecipando volentieri anche ai corsi di italiano L2 (italiano lingua seconda) che le scuole attivano durante l’anno scolastico. Innanzitutto va detto che gli studenti di seconda generazione, sotto il profilo giuridico, sono stranieri fino alla maggiore età anche se sono italiani de facto, cioè nati in Italia da genitori immigrati, ma non hanno la cittadinanza italiana; quindi sono stranieri, ma non immigrati. Sono, similmente, studenti di seconda generazione quelli che arrivano in Italia in età prescolare. Questi studenti vivono spesso come se fossero divisi tra due mondi, due realtà, due universi diversi e, di fatto, essi si dividono sicuramente tra due culture: quella di origine e quella italiana: “I miei genitori vogliono che io e i miei fratelli impariamo il cinese e, perciò, tre vote a settimana andiamo a lezione per studiare la nostra lingua madre che è molto difficile. Rispettiamo anche tutte le nostre feste religiose e civili. Anche quando sto a scuola, con i miei amici italiani, io mi sento straniera. A volte ho molta difficoltà a studiare la letteratura italiana, o altre materie in italiano, perché mi capita di perdere il filo del discorso. D’altra parte a casa parliamo e guardiamo la televisione solo in cinese”, dice Li, studentessa del quarto anno della scuola secondaria di secondo grado.
Purtroppo, però, non tutti gli studenti di seconda generazione riescono, come Li, ad avere chiara l’idea della propria identità, cioè non sempre questi ragazzi riescono a dire chiaramente a quale cultura appartengono, infatti alcuni vivono la cosiddetta “identità sospesa” (Lannutti 2014): sono italiano o non lo sono? Sono più italiano o più straniero? A quale cultura appartengo? A quale cultura appartengo di più? Sono cittadino italiano oppure cittadino del mio Paese? Queste sono di fatti le domande che si pongono i ragazzi di seconda generazione e la risposta può venire da sé tenendo conto del tempo di soggiorno in Italia oppure dall’età dei soggetti al momento di ingresso nel nostro Paese. Osama, studente marocchino iscritto al secondo anno della scuola superiore di secondo grado, dice: “A casa parliamo solo in arabo anche perché mamma non parla l’italiano. A scuola ho difficoltà con la lingua italiana e, perciò, non riesco a studiare bene. Io mi sento marocchino quando sto con la mia famiglia perché rispettiamo tutte le festività religiose, ma quando sto a scuola io mi sento italiano”; mentre Ravi, studente indiano della classe terza della scuola secondaria di secondo grado, dice: “A casa parliamo solo nella nostra lingua. Quando i miei genitori vanno a parlare a scuola, i professori dicono che io non riesco a seguire sempre le lezioni perché spesso mi perdo e faccio molti errori di grammatica soprattutto quando scrivo, infatti è così. A me piace molto la cultura italiana e quella del mio Paese di origine, perciò non so dire con precisione se sono italiano o indiano”. Pertanto questi ragazzi e queste ragazze si trovano prima o poi a fare i conti con due concetti totalmente diversi di cultura. Questo lavoro di ricerca della propria identità, se vogliamo chiamarlo così, veramente molto delicato e importante, non avviene per tutti allo stesso modo e allo stesso tempo; esso sarà diverso infatti da un ragazzo appartenente – usando alcune categorie della classifica del sociologo Rubén G. Rumbaut, professore dell’Università della California – alla Generazione 2,0 – cioè i nati nel Paese di arrivo dei genitori, in questo caso in Italia – da uno appartenente alla Generazione 1,75 – ovvero i minori che arrivano in Italia dalla loro nascita fino a 5 anni – e da un altro che, invece, fa parte della Generazione 1,25 che comprende i minori che arrivano in Italia tra i loro 13 e 17 anni d’età, un periodo della vita molto particolare e delicato chiamato, per l’appunto, adolescenza. Dice Farah, una quindicenne studentessa marocchina in Italia da pochi mesi, iscritta al secondo anno della scuola superiore di secondo grado: “Sono sempre molto triste perché a Casablanca, in Marocco, ho lasciato tutti i miei amici e i miei cugini. Io volevo restare con i miei nonni, ma mio padre ha voluto portarmi qui. Spesso piango perché penso alla mia città e vado a vedere le foto su internet. Non parlo bene la lingua italiana, che per me è molto difficile, e a casa parliamo solo arabo. Mamma parla solo arabo. Io, a scuola, mi sento straniera e credo che mi sentirò sempre straniera in Italia”. Un dato estremamente importante, che andrebbe accuratamente studiato con attenzione, è la situazione linguistica di questi studenti. Non sempre gli studenti di seconda generazione, che troviamo nelle nostre classi, hanno una padronanza dell’italiano soddisfacente: il livello comunicativo risulta, comunque, più alto di quello dello scritto, dove emergono moltissimi errori legati alla grammatica e, talvolta, al lessico.
È chiaro quindi che i ragazzi e le ragazze di seconda generazione, in veste di studenti e di studentesse seduti nei banchi delle nostre scuole italiane, non vivono una situazione facile, pertanto la scuola deve essere presente e deve cercare sempre di alleggerire il peso del lavoro di questa ricerca della propria identità. L’integrazione sociale di questi soggetti parte, per i motivi sopra esposti, dalla e nella scuola con l’istituzione di corsi di italiano L2 e con l’educare alla socializzazione senza, naturalmente, creare disparità culturali. L’insegnamento della lingua seconda, per esempio, deve servire ad aiutare lo studente ad integrarsi quanto più possibile nel tessuto sociale italiano senza eclissare la cultura di origine che deve essere concepita come arricchimento culturale anche per gli studenti italiani, nati da genitori italiani, per essere precisi.
Si è visto che i ragazzi di seconda generazione portano dietro di sé zaini molto pesanti, pieni di libri, sì è vero, ma anche e soprattutto pieni di storie diverse tra loro, spesse volte molto tristi. Questi ragazzi, anche se nati in Italia – quindi non immigrati – ereditano dai loro genitori l’etichetta di immigrato. Pertanto la scuola deve essere in grado di accogliere anche i genitori immigrati perché instauri con loro un efficace dialogo. Gli insegnanti, la scuola tutta e la famiglia devono cooperare per dare supporto ai nostri ragazzi di seconda generazione, che saranno i nuovi italiani, uomini e donne del futuro che andranno a caratterizzare il tessuto sociale italiano.