“La tana”, un film piccolo ma con ambizioni d’autore

Articolo di Gordiano Lupi

Beatrice Baldacci, umbra di Città di Castello, allieva di Susanna Nicchiarelli, Daniele Ciprì e Fabio Mollo si mette in mostra con alcuni cortometraggi, il più intenso Supereroi senza super poteri, sul tema del rapporto madre – figlia durante la malattia, che approfondisce e sviscera fino in fondo nel suo primo lungometraggio. La tana è un film piccolo ma con ambizioni (riuscite) d’autore, realizzato in un formato insolito (4:3), che rende lo schermo quadrato e mette gli interpreti sempre in primo piano, come se fossero sotto una lente di ingrandimento. Pellicola psicologica, nella prima parte gioca con i generi e introduce il mistero di Lia (Vetere), una ragazza che compare in un casolare di campagna, introducendo la storia dal punto di vista di Giulio (Aloi), che s’innamora di un’inquietante presenza femminile. La seconda parte, vero e proprio dramma psicologico, è girata dal punto di vista di Lia, analizza lo sbocciare dell’amore e mette in primo piano la malattia terminale della madre. Un lungometraggio girato con 150 milioni di budget, grazie a un format promosso dalla Biennale di Venezia, tra aprile e maggio, in diciotto giorni, con troppa fretta (messa dai produttori) in fase di montaggio, perché qualche taglio avrebbe giovato alla snellezza del prodotto. Molti i pregi di una pellicola italiana girata con il cuore, underground nel senso più alto del termine, basata sull’intensità dei protagonisti, poco verbosa, sceneggiata tra sguardi e silenzi al posto di tante inutili parole. I personaggi parlano solo quando hanno qualcosa da dire, afferma la regista, confermando una convinzione critica che da sempre portiamo avanti, il fatto che nel cinema italiano contemporaneo si tenda a spiegare il film con le parole. Il cinema è soprattutto immagine, Beatrice Baldacci lo sa bene, fotografando un suggestivo spaccato di natura, tra campagna e fiori, giardini e laghetti nascosti, mentre scrive un’insolita storia d’amore, che sboccia in una situazione complessa, dove in primo piano c’è la malattia della madre della ragazza. Un film che vive di contrasti visivi, tra giovani corpi e un corpo malato, in disfacimento e in totale apatia, insensibile a tutto, che non riesce più a entrare in contatto con il mondo. La regista racconta la scoperta dell’amore e l’irruzione della morte, compone due storie d’amore in un solo soggetto e approfondisce il dolore che la ragazza trattiene dentro di sé. La tana non è soltanto la casa dove Lia si rifugia, ma è la stessa ragazza che si chiude a riccio, non comunica con il mondo, non mostra i suoi sentimenti, non fa trapelare niente di se stessa che vada oltre una ruvida scorza esteriore. Tra gli attori, fondamentale la ventiduenne Irene Vetere, di una bellezza enigmatica, già vista in Notti magiche di Virzì e in Arrivano i prof di Silvestrini (dimenticabile), persino in Don Matteo, attrice di intensa impostazione teatrale che mostra in un volto cupo e affranto, poco propenso al sorriso, tutta la sua sofferenza. Lorenzo Aloi, diligente nel ruolo del ragazzo ingenuo e innamorato, non se la cava male per essere al debutto assoluto. La tana circola in numerosi festival (Corea, Sofia, Los Angeles …) e riesce a passare in sala, piccolo ma non provinciale come la maggior parte del cinema italiano contemporaneo, ha le carte in regola per essere apprezzato anche fuori dai confini nazionali. Visto grazie al Piccolo Cineclub Tirreno di Follonica.

Regia: Beatrice Baldacci. Soggetto: Beatrice Baldacci. Sceneggiatura: Beatrice Baldacci, Eduardo Puma, Andrea Paolo Massara. Fotografia: Giorgio Giannoccaro. Montaggio: Isabella Guglielmi. Scenografia: Sara Caiffe. Costumi: Ginevra Angiuli. Trucco: Maria Lucia Rinaldi. Produzione: Aurora Alma Bartimoro, Andrea Gori. Distribuzione: PFA Films. Genere: Drammatico. Durata: 89’. Interpreti: Irene Vetere (Lia), Lorenzo Aloi (Giulio), Helénè Nardini (Laura), Elisa Di Eusanio (madre di Giulio), Paolo Ricci (padre di Giulio), Federico Rosati (medico).

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