Da molti anni, la povertà educativa è un tema oggetto di diatribe silenziose tra gli addetti al settore. Tante le conseguenze umane. Accentua le disuguaglianze, limita le possibilità reali di trovare un lavoro qualificato e soddisfacente e, più in generale, comporta un impoverimento di tutto il territorio.
A riaprire il dibattito su questo tema, il dato diffuso durante la prima delle quattro giornate dell’evento Impossibile 22, organizzato da Save The Children Italia. In Italia, il 51 per cento dei 15enni non sarebbe in grado di carpire il significato di ciò che legge. Sintomo di una estrema povertà educativa di fondo. Al punto che alcuni ricercatori hanno parlato di dispersione scolastica implicita. I più colpiti sarebbero gli studenti delle famiglie più povere, quelle che vivono al sud o con background migratorio. Una povertà educativa che accentua le disuguaglianze e riduce le prospettive di crescita e di inserimento nel mondo del lavoro. Una piaga che ha origini lontane: solo il 14,7 per cento dei ragazzi avrebbe avuto la possibilità di usufruire di asili nido o servizi integrativi finanziati dai Comuni. La spesa media pro capite al di sotto dei 3 anni è intorno a 906 euro, ma con forti disparità tra le regioni: da 2.481 a Trento a 149 in Calabria. E ancora. Nel Centro-Nord, il 45 per cento dei bambini può beneficiare del tempo pieno a scuola. Al contrario al Sud questa possibilità è concessa solo 15 per cento dei bambini. A Milano tempo pieno e mensa scolastica sono la normalità per il 95 per cento dei bambini. A Palermo invece sono possibili solo per il 6 per cento dei bambini. Un divario che cresce sia geograficamente che con l’età.
Dati preoccupanti, quelli diffusi da molti giornali. Alcuni, però, li hanno attaccati dubitando della corretta lettura di questi numeri. Sul rapporto diffuso dalla associazione, infatti, si legge: “Parliamo della dispersione scolastica implicita, cioè del fatto che il 44 per cento di ragazzi e ragazze alla fine della scuola secondaria superiore non è in grado di raggiungere un livello minimo di competenze in italiano, percentuale che sale al 51 per cento per la matematica. Questo significa non riuscire a comprendere il significato di un testo scritto, saper svolgere un ragionamento logico, fare un semplice calcolo aritmetico”. In realtà quindi la percentuale “scandalosa” farebbe riferimento alla matematica e non all’italiano (per il quale la percentuale di ragazzi che non sono in grado di raggiungere un livello minimo di competenze in italiano sarebbe un po’ più bassa, 44 per cento). La differenza deriverebbe da un’errata lettura degli ultimi dati Invalsi, pubblicati a luglio 2021: a livello nazionale, il 44 per cento degli studenti all’ultimo anno delle superiori non ha raggiunto “risultati adeguati” in italiano (percentuale che sale al 51 per cento in matematica).
Anche sulla differenza tra “dispersione scolastica” (i giovani che hanno lasciato la scuola prima di concludere le superiori) e “dispersione scolastica implicita” (studenti che, pur avendo concluso il percorso di studi, non raggiungono le competenze di base minime in italiano, matematica e inglese) non ci sarebbe concordanza sui dati. Secondo i dati Invalsi più aggiornati, nel 2021 la dispersione scolastica implicita riguardava il 9,5 per cento degli studenti in Italia. Una percentuale preoccupante anche per il fatto che è in crescita.
Una differenza nei numeri che, però, non toglie nulla alla gravità della situazione. E a dimostrarlo è un altro dato. Quello relativo ai risultati di uno degli ultimi concorsi per magistrati. Secondo gli esaminatori, l’ultima selezione sarebbe una delle peggiori di sempre: dei 3.797 elaborati consegnati, la commissione ne ha giudicati idonei solo 220, ovvero il 5,7 per cento. I commenti parlano di temi (ancora una volta l’italiano) redatti “in un italiano primitivo, senza alcuna logica argomentativa, quasi non valutabili“. Non è solo un problema di forma: in molti casi gli elaborati erano privi dei requisiti minimi, pieni di refusi ed errori concettuali e di diritto.
Un risultato che (come per gli INVALSI) mostra un netto peggioramento rispetto al passato: nel 2018, degli scritti del concorso erano risultati idonei il 9,7 per cento, nel 2017 il 18 per cento, nel 2016 il 13 per cento. “Se un altro mi avesse raccontato quello che ho letto, non ci avrei creduto”, ha dichiarato in una intervista Luca Poniz, sostituto procuratore a Milano, già presidente dell’Associazione nazionale magistrati (Anm) e membro della commissione di concorso. “Alcune centinaia di temi erano francamente imbarazzanti” e ha aggiunto “mi ha colpito osservare così poca confidenza con il ragionamento giuridico e tanta distanza dagli standard minimi di elaborazione e scrittura. Viene da chiedersi come sia possibile, a questi livelli”.
Forse la risposta è da cercare non solo nel percorso universitario seguito ma prima di tutto nel passato scolastico di molti aspiranti giudici. Qui i livelli appaiono davvero preoccupanti. Non solo in termini assoluti ma soprattutto in rapporto alla concorrenza che le prossime generazioni dovranno affrontare con i coetanei di altri paesi. Forse, se invece di pensare alla “buona scuola” e ai banchetti sulle rotelle (misure del recente passato entrambe oggetto di mille polemiche) i governanti avessero dedicato più attenzione alla qualità dell’insegnamento, i risultati sarebbero stati diversi.
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