“Quello stadio è il nostro stadio”, un libro che narra fatti realmente accaduti

Articolo di Gordiano Lupi

Marco Ceccarini scrive con stile giornalistico e coinvolgente le vite di Mario Magnozzi e Armando Picchi, due grandi calciatori livornesi che hanno fatto appena in tempo a conoscersi e che avrebbero meritato entrambi di dare il nome allo stadio dell’Ardenza. Oggi il principale campo di calcio livornese si chiama Armando Picchi, così come nella città labronica esiste una società di Eccellenza (è stata anche in serie D) con identico nome (fondata da Enzo Picchi), mentre Magnozzi identifica il campo sportivo della Pro Livorno e il club dei sostenitori amaranto. In ogni caso, dopo lunghe diatribe che hanno lasciato per anni l’Ardenza senza nome, si è deciso di posizionare le sculture che raffigurano i due giocatori simbolo nel salone d’ingresso del tempio calcistico labronico. Ceccarini scrive il libro in prima persona, con stile efficace, come se fosse una soggettiva cinematografica; il giornalista livornese usa la tecnica dell’autobiografia impossibile, con il personaggio che narra la sua vita e coinvolge il lettore nella storia. Ceccarini scrive di calcio da sempre, conosce tutto sia di Picchi (scomparso troppo presto) che di Magnozzi, due grandi calciatori morti nello stesso anno (1971), il primo il 28 maggio, il secondo il 24 giugno, creando l’impasse, risolto solo nel 1990, sul nome dello stadio. E pensare che i due sportivi ne avevano anche parlato, concludendo che Magnozzi era il più  anziano, sarebbe morto prima, quindi il campo sportivo avrebbe portato il suo nome. Nessuno avrebbe potuto immaginare che Armando Picchi sarebbe scomparso ad appena 36 anni, da allenatore della Juventus, per un male terribile quanto improvviso, dopo aver compiuto straordinari prodigi calcistici con l’Inter di Helenio Herrera e aver chiuso con lo sport attivo a Varese. Motorino (il suo soprannome) Magnozzi , invece, era nato nel 1902, aveva disputato 29 partite in Nazionale, giocando prima nel Livorno e poi nel Milan, infine allenando con il sistema persino in Grecia e negli Stati Uniti, oltre che a Livorno e a Rieti (dove portò il calcio). Storie diverse e in parte simili, da nobili plebei livornesi, indomiti e polemici, uomini d’una volta, capaci di mettere in discussione tutto pur di imporre le loro idee. Picchi non sopportava gli sfiancanti ritiri imposti da Herrera, soprattutto quando faceva stare i calciatori in albergo ma lui andava a festeggiare nei locali, cosa accaduta più volte, soprattutto in occasione di un ultimo dell’anno. Picchi diventa una sorta di sindacalista della squadra, può contare sul sostegno di Moratti che stravede per lui, mettendo in discussione certe idee del Mister, polemizzando anche a distanza, l’anno che ha giocato a Varese, quando chiese che cosa avrebbe fatto Herrera senza un parco giocatori del calibro dei nerazzurri di quel tempo. La storia di Picchi è un segno del periodo storico, un calciatore che viene dalla Promozione – Vada e San Frediano -, finisce al Livorno, poi alla Spal, quindi viene comprato dall’Inter e si trasforma nel suo simbolo, nella sua bandiera, inventando un ruolo nuovo, quello del libero, senza obblighi di marcatura, regista difensivo posizionato davanti al portiere. Storie irripetibili nel calcio contemporaneo, che ha perso molta della passata poesia, per questo ha fatto bene Marco Ceaccarini a raccontarle in questo splendo libro che narra fatti realmente accaduti ma si legge come un romanzo.

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