«Con tutti i suoi difetti, Giuseppe Garibaldi ha un suo posto ben fermo fra i grandi uomini del XIX secolo. Ebbe una sua grandezza, in primo luogo, come eroe nazionale, come famoso soldato e marinaio, cui più che ad alcun altro si dovette l’unione delle due Italie. Ma oltre che patriota, egli fu anche grande internazionalista; e nel suo caso non era un paradosso. Liberatore di professione, combatté per la gente oppressa ovunque ne trovasse. […] Era persona amabile e affascinante, di trasparente onestà[…] La gente comune lo sentiva uno dei propri, perché egli era l’incarnazione dell’uomo comune». Così comincia il libro di Denis Mack Smith, “Garibaldi, una grande vita in breve”, che presenta in modo serio e articolato le gesta di uno dei più importanti personaggi del Risorgimento italiano.
Dopo il lungo tirocinio in America latina, il Nostro tornò in Italia e fu protagonista dei moti rivoluzionari del 1848 contribuendo in modo significativo all’affermazione della Repubblica romana, sconfitta solo dai soldati francesi mandati da Luigi Bonaparte, che aveva bisogno dei voti cattolici in Francia e in ogni caso stava già progettando di abolire la Repubblica francese per incoronarsi imperatore.
Dopo quella sconfitta, che in Garibaldi provocò un’importante riflessione sulla rivoluzione e sull’azione di massa, l’«eroe dei due mondi» fu costretto di nuovo alla fuga e all’esilio, fino a quando non fu richiamato per dare il suo pieno appoggio alla fase decisiva dell’unificazione italiana con la partecipazione alla seconda guerra d’indipendenza e alla spedizione dei Mille, che consentì all’Italia di diventare una nazione unita.
Sin dalla giovinezza aveva dedicato la sua esistenza in difesa dei diseredati: nella sua azione avevano posto il coraggio, l’intraprendenza e un certo spirito cavalleresco: i suoi scritti dell’epoca fanno riferimento alla causa dell’umanità e della civiltà, alla lotta per la libertà. E quando cominciò a combattere contro l’Austria mostrò subito la sua idea repubblicana e l’aspirazione allo stato unitario. Per altro, tali convincimenti non furono mai abbandonati; anzi, furono alla base dell’impresa dei Mille che rappresenta ancora oggi, con buona pace dei revisionisti, un passaggio essenziale per la costruzione di un moderno stato italiano.
Del resto, senza l’unificazione l’Italia avrebbe perpetuato la sua condizione di paese subalterno alle potenze straniere e non avrebbe potuto avviare il processo di sviluppo e di crescita economico-sociale. Certo, non possiamo negare gli aspetti negativi dell’impresa di Garibaldi. La sua azione riformatrice si esaurì ben presto e i contadini siciliani, famoso l’episodio di Bronte, compresero che non avrebbero ottenuto le terre che chiedevano, ma che, al contrario, la repressione avrebbe bloccato la loro insurrezione.
Dopo il 1860 Garibaldi si interessò a numerosi, anche se spesso generici, progetti di emancipazione e di riforma: incoraggiò sempre la formazione di società di mutua assistenza fra i lavoratori, convinto che la classe lavoratrice avrebbe assunto un ruolo decisivo in Italia e nel resto del mondo. Le sue dottrine di pace e di fratellanza universale erano espressione più del sentimento che della ragione; suppliva con l’azione alla mancanza di una filosofia della storia, che potesse riposare su una salda formazione filosofica ed economica. Era un socialismo del cuore, non della mente. Egli conosceva la gente comune assai più di Mazzini e simpatizzava con essa assai più di Cavour e degli altri leader dell’Italia unificata; comprendeva le masse, e ne era compreso, per eredità, ambiente e temperamento. Per altro, rifuggiva dai facili onori e dalla ostentazione di forme di potere, seguendo uno stile di vita semplice e al tempo stesso coerente; né si può dire che la sua fama gli procurò ricchezze e privilegi.
Ora, come si può, di fronte a un così grande personaggio, scadere in attacchi strumentali che hanno lo scopo di dare fondamento ad un improbabile autonomismo, oggi sbandierato perché foriero di successi elettorali utili per riproporre un sistema di potere che fa finta di battersi per il Sud e la Sicilia, ma in realtà è assai distante da una seria riflessione meridionalista. Tuttavia alcuni, pur di praticare il «leghismo del Sud», non temono il ridicolo pontificando su vicende storiche molto più serie del dibattito che vorrebbero imbastire.
È proprio vero che, come diceva Hegel, la Storia si presenta la prima volta come tragedia e la seconda come farsa.