Difficile esprimersi, per una serie di motivi (critico-letterari ed editoriali soprattutto), quando ci si confronta con la poesia di Gesualdo Bufalino, minuscola particella di una produzione letteraria imperniata sul continuo sfogo della decantazione dei ricordi accumulati.
Il linguaggio poetico dell’autore siciliano s’inserisce nel flusso della corrente narrativa memoria-ricordo, ed è curioso constatare con estrema ragionevolezza che l’esperienza poetica precede la narrativa, anzi essa è rito d’iniziazione, misura del proprio vissuto nello spazio confinato dell’esistenza, mantenendo nel corso del tempo una sostanziale indipendenza dalla tradizione novecentesca, alquanto varia e proteiforme. Parafrasando il nesso poesia-ricordo, dunque, la poesia di Bufalino è il riflesso di un’anima poetica che mira a rincontrare, nello specchio d’acqua della vita, una miriade sterminata di ricordi, di rifrazioni sonore che si frangono nello specchio d’acqua del presente, disegnando cerchi concentrici, come se quei ricordi fossero sassolini gettati per un ultimo commiato, l’estremo saluto che annega nell’oscuro oblio. Memini ergo sum è la sommessa risposta del poeta, la massima sapienziale incisa nello stipite dell’essere.
Un’estemporanea notazione filologica documenta un lavoro ciclico a posteriori, mirato alla creazione di una perfetta testimonianza poetica. Il poeta ha infatti lavorato a tre edizioni, fino al triste 1996 (anno dell’edizione finale), aggiungendo, probabilmente con un previo, quanto segreto, rimaneggiamento, altre rime, extravaganze letterarie, esercizi di traduzione, o altri ricordi che ripiombavano tra le fronde di alberi del passato già minuziosamente potati; e allora i componimenti, spesso coraggiosi e spudorati tentativi di esercizi poetici destinati al macero, hanno ingrandito questo piccolo volumetto bianco, edito da Einaudi, e un anno fa nuovamente ristampato, ben prima che venisse predato da avidi collezionisti, i quali, vorrei augurarmi, apriranno la raccolta lasciandone un regalo per la futura curiosità dei propri posteri e non per una sgradevole monetizzazione.
Il titolo scelto, probabilmente per usus scribendi il superstite da una rosa di varianti, sfogliata a un tempo con il tratto reciso della penna, e a un altro per il sonno momentaneo dell’indecisione, è L’Amaro Miele. Molti critici dall’analisi dei versi ne hanno tradotto una visione sostanzialmente pessimistica della vita, la quale pur essendo dolce per natura (miele appunto) diventa amara per le tristezze e i dolori che la affliggono. L’ispirazione sarebbe una lontana eco della trafila petrarchesco-montaliana che alla base del nome del suo libro, “come risalita a una tradizione alta e immune dalle spericolatezze avanguardistiche, è dato così naturale da apparire ovvio” (Di Silvestro, 2020). Quantunque io ne veda, forse per consonanza dei miei studi classici, una chiara visione epicurea (di mediazione lucreziana) di fornire un plausibile rimedio al male, non dico di chi legge, ma di chi scrive: è il picco raggiunto dell’imperturbabilità: “prius oras pocula circum/contingunt mellis dulci flavoque liquore,/ ut pueror(um) aetas inprovida ludificetur/”; versi per i quali i poeti cerusici prima cospargono l’orlo intorno alla tazza con il dolce miele e il biondo liquido affinché la sprovveduta età dei fanciulli venga illusa; pertanto sta a noi lettori farci bambini per ingurgitare l’amara bevanda: della vita o dei ricordi?
La prima parte che inaugura il florilegio poetico di Bufalino è profondamente segnata dalla malattia, esperienza definitivamente espressa dal primo romanzo d’esordio: “Diceria dell’Untore”. Per la varietà dei componimenti presenti notiamo che essi collimano in un grumo di esperienze varie e disparate della aetas poetae, pertanto preferisco suddividere analiticamente le brevi sillogi.
Quanto raccolto nella prima, Gli annali del malanno, il nucleo tematico potrebbe infatti riassumersi con il titolo di una poesia dell’autore: Aegri ephemeris, ossia diaro del malato. Vissuta nella ciclicità dell’anno, sotto i balsami profondi della scrittura, la malattia infatti diventa macchia, stigma riconoscitivo in un mondo di malati, senza speranza di vita, senza barlumi di futuro, senza luce, che come quella di una candela smozzicata va dissolvendosi lentamente tra annunci di angeli con il corno di minatori e angeli ladri, funesti messaggeri di morte. Proprio la morte annusata, spiata, sfidata, è vista secondo la più congeniale prospettiva decadente, carezzevole proiezione delle amate letture francesi (Baudelaire, Mallarme, Rimbaud); quantunque essa, con breve frequenza, ceda il passo al carezzevole sentimento foscoliano della morte in quanto finis vitae, dove in Bufalino la caducità, più che desiderio di eternità imperitura, si fa mesta rassegnazione: aspetterò che la notte/ ritorni verde sui rami,/ e che la sua voce mi chiami,/ smaniosa, calda, corrotta (Aegri ephemeris); e ancora in un altro componimento: “O mi rintano ogni sera nel sonno:/ tumulo antico, ventre lontano/ dove nessuno mi cerca” (Per un’inutile medicina).
Altro interessante tratto foscoliano è il recupero di un gusto neoclassico orientato a risemantizzare i fenomeni naturali con la menzione di personaggi del mito greco: “Borea erige la nube come un muro/ i moncherini degli alberi tremano,/ s’incarbonisce in alto lo zodiaco” (Malanotte); o ancora leggiamo “Più tardi da cento cantoni/, insorge la musica d’Erebo/la tosse con archi ed ottoni/ intona i suoi diesis più neri” (Didascalie per una visita medica, curiosi novenari che presentano in appendice un commento del poeta che diventa risolutore di un linguaggio cifrato).
Si notano assonanze ungarettiane come nella lirica Agli amici in armi: Amici sui monti vi ricordate di me?/ Voi chiusi in giubbe vermiglie, barbuti/ e circondati come gli eroi dei libri,/ con un moschetto, una donna, un odio nel cuore per vivere. Il rapporto con la guerra è inevitabilmente sotteso, ma risulta figurato: prevale una sorta di remissiva acquiescenza sulla tragedia umana, tematica quest’ultima che merita un’ulteriore riflessione. C’è in ultima analisi una climax spirituale, sebbene il picco ascensionale sia mitigato dai movimenti di un’anima in gabbia tra la rassegnazione della morte e la speranza della vita. Per cui la climax parte da una posizione di spettatore inerme dinnanzi alla drammaticità della malattia, la cui natura matrigna è specchio teatrale del teatrante: Con occhi all’aria, orecchie di cera,/ impietrito lungo il viale,/ c’è un popolo di marionette;/ la mosca che volava non vola più./ Peli, unghie, licheni, hanno smesso di germogliare,/ dal labbro della statua pende fiacca una goccia,/ la meridiana sull’intonaco/ scambia mezzogiorno per mezzanotte./ S’è fermato un cuore./ (Inerzie). In seguito muta, trasformandosi in un’accorata preghiera salvifica: Signore, fammi mare/ dentro la mente, scioglimi i ginocchi./ Si divulga il mio viso nel vento/ come la polvere non ho padrone./ Posassi sul Tuo petto macilento/ il mio capo, per dormire./ (Compieta).
E infine, con un capovolgimento di sorte, diventa disfida eroica, nella quale il superstite è redivivo e guarda con fiducia l’avvenire per il solo fatto di essere sopravvissuto, simile a un reduce che scruta l’orizzonte trionfante, come se lo sfogo del poeta abbia raggiunto un picco del ricordo pronto a sgorgare dalle labbra, a imbalsamarsi nella pagina bianca, a farsi amara medicina dell’autore e del lettore: o giorni, iniquo seme/ di morte, oggi vi guardo dalle mie arci estreme,/ ma con riso nemico, ma con labbro testardo,/ che son vivo vi dico./ (Su un calendario nuovo).