“In questo luogo era la casa dove nacque… Tommaso Aniello d’Amalfi e dove dimorava quando fu capitano generale del popolo napoletano” è la frase sulla targa di marmo che si trova a Napoli, a vico Rotto al Mercato, dove v’era la casa di colui che è passato alla storia col nome di Masaniello, simbolo della rivolta popolare contro il potere politico che soggioga i più deboli.
Sotto il caldo afoso di un’estate torrida, nel mese di luglio, a Napoli, il giorno di domenica 7 del 1647, a piazza mercato comincia una delle più grandi rivolte cittadine della storia contro il potere politico, all’epoca gestito dalla Corona degli Asburgo, meglio ancora detto dal governo vicereale spagnolo. Al centro di questa rivolta ci fu un allegro ragazzo napoletano di statura media, molto magro, con i capelli lunghetti e neri, forse di discendenza amalfitana, un tale Tommaso Aniello, detto poi Masaniello, un ventisettenne che abitava proprio in una delle case che circondavano la sopraccitata piazza. Tommaso faceva come lavoro il pescivendolo, più precisamente vendeva “cuoppi” con scarti di pesce, ma praticava anche il contrabbando, suonava la cetra ed era bravo a sedare le liti. In realtà intorno a Masaniello girano tante di quelle storie che è difficile anche per gli storici che si occupano di tale vicenda decifrare il limite del vero e della leggenda; quello che è decisamente reale è che quasi dieci giorni dopo il 7, la rivolta finì con dei risultati veramente molto tragici.
Durante la prima metà del XVII secolo la Spagna viveva un periodo di forte crisi economica avendo molte spese militari da sostenere e già da qualche tempo a Napoli si respirava un’aria di rivolta, infatti alle mura della città venivano appesi cartelli che minacciavano rivoluzioni. Tuttavia il viceré Rodrigo Ponce de León, duca d’Arcos, impose la cosiddetta gabella (alta tassa) sulla frutta fresca e secca che pesava moltissimo soprattutto sulle persone dei ceti più umili di quella società e chi si sottraeva al pagamento, rischiava il carcere. Tutto il popolo minuto, veramente molto stanco e arrabbiato per la situazione fiscale imposta, insorse con violenza, incalzato proprio da Masaniello, il quale appariva profondamente adirato perché la moglie era stata incarcerata qualche giorno prima della rivolta poiché non aveva pagato la gabella su un sacco di farina che portava con sé per le strade di Napoli. Nei giorni immediatamente prima dell’inizio dei fatti Masaniello – vestito con camicia e calzoncini di tela, un cappellino da marinaio in testa e completamente scalzo – riuscì a radunare un numero elevato di scugnizzi armati di lance e canne che si lanciarono contro i banchi del dazio a piazza Mercato bruciandoli, poi si diressero nell’odierna piazza Plebiscito e, rivolti al palazzo reale, imprecavano contro la nobiltà ivi soggiornante. Il 7 luglio, nei pressi della chiesa di Sant’Eligio Maggiore, con una violenta lite nata tra un ricco mercante e Maso Carrese – cognato di Masaniello – che venne ucciso, cominciò il primo giorno di rivolta. Così il pescivendolo e suoi lazzaroni si portarono verso il palazzo reale e, al grido di “Viva ‘o Rre ‘e Spagna, mora ‘o malgoverno”, vi entrarono senza chiedere il permesso. Da questo momento in poi cominceranno le trattative con il viceré, fuggito miracolosamente dal palazzo, affinché la situazione fiscale potesse migliorare; intanto furono liberate decine e decine di uomini e donne che erano stati incarcerati per non avere pagato la gabella; le case dei gabellieri e diversi palazzi nobiliari furono date alle fiamme; alcuni gabellieri furono picchiati, seviziati e infine fucilati; tutti i registri delle imposte furono completamente distrutti. Qualche giorno dopo Masaniello, ormai amato profondamente dai suoi uomini, riuscì a prendere la Basilica di San Lorenzo e ad impossessarsi dei cannoni che erano conservati nel chiostro; più tardi, con l’incontro tra Masaniello – già “Capitano generale del fedelissimo popolo napoletano” – e il viceré, la vita del pescivendolo cambiò radicalmente anche se per quel pochissimo tempo che ancora gli restava da vivere: vestiva panni signorili, frequentava la corte insieme alla moglie, aveva potere di legiferare in nome del re di Spagna; veniva invitato ai banchetti dati a palazzo. Tuttavia da questo momento in poi egli iniziò a mostrare i primi segni di squilibrio, causati evidentemente dal sentirsi inadeguato a vestire quei panni di alta responsabilità. Iniziò a galoppare all’impazzata, accendeva liti tra la folla, si buttava a mare in piena notte, voleva addirittura costruire un ponte capace di collegare Napoli alla Spagna, faceva discorsi a piazza del Carmine completamente svestito, attirando su di sé critiche che provenivano da quelli che fino ad allora lo avevano acclamato come capo carismatico della rivolta. Finalmente il 13 luglio Don Rodrigo firmò tra le mura del Duomo di Napoli – o nella Basilica del Carmine – dei documenti che sancivano i patti stabiliti dal popolo: i famosi capitoli di pace. Il 16 luglio – ultimo giorno di rivolta – Masaniello cercò inutilmente di difendersi dalle accuse di pazzia, si diresse nella chiesa del Carmine dove era in corso una messa per la festività della Madonna, tenne un discorso sul pulpito, poi si spogliò, quindi venne portato in una delle celle del convento adiacente e qui venne ucciso a sangue freddo da quelli che lui riteneva suoi seguaci. Il cadavere venne poi trascinato per le strade della città, venne decapito e, mentre il busto fu buttato in una fossa dei rifiuti nei pressi di Porta Nolana, la testa venne consegnata al viceré che, insieme all’arcivescovo della città, andò a ringraziare la Madonna e San Gennaro per avere “estinto il perturbatore e restituita la perduta quiete” a Napoli. Già dalle ore successive la gabella venne reintrodotta su molti prodotti, così un gruppo di lazzaroni cercarono e trovarono i poveri resti mortali di Tommaso Aniello, li lavarono nelle acque del fiume Sebeto e cucirono la testa al busto. Per paura di una nuova sommossa il viceré ordinò le esequie del pescivendolo: al tramonto del 18 luglio il corteo funebre attraversò l’area centrale di Napoli e tutti i popolani dalle finestre, in segno di grande rispetto, accesero un lumino e fecero scivolare giù dai davanzali coperte ben rifinite. Il feretro, avvolto in candide lenzuola di seta, passò anche nell’odierna piazza del Plebiscito, mentre sui balconi di palazzo reale venivano alzate le bandiere a mezz’asta in segno di lutto; intanto la folla diceva a voce alta “Sancte Mas’anelle, ora pro nobis”. Alle 3 del mattino, Masaniello venne seppellito nella Basilica del Carmine, dove oggi resta solo una lapide: “Mendace riparazione di un delitto preordinato, il sepolcro di Masaniello qui era, ma fu tolto per mire politiche di un dispotico sovrano nel 1799 durante la Rivoluzione partenopea”, a prova del fatto che lo spettro di Masaniello, che rappresenta l’ira della plebe stanca di essere sempre assoggettata dal potere, fece tremare anche il re Ferdinando IV di Borbone, dopo ben 152 anni dalla morte del pescivendolo perché lo spirito di un popolo sopraffatto e bramoso di ribellarsi non muore mai.