Tra romanzi più letti di Piero Chiara vi fu (il passato remoto è d’obbligo, sebbene le nuove edizioni inducano a pensare il contrario) Il Pretore di Cuvio, il quale sfuggito al massimo riconoscimento dello Strega, pur essendo presente nella cinquina finale, si ritemprò con le vendite, classica frase che, oltre a essere ripetuta nelle note bibliografiche dell’autore, racchiude in pieno l’eufonia di tutta la narrativa chiariana. Nel caso dell’opera in questione, filologicamente, si tratta della classica estensione di un racconto breve alla forma prediletta del romanzo, scritta con la consueta perizia e coadiuvata dall’occhio vigile di un amico importante, quale fu l’adorato Vittorio Sereni, che, in una fitta corrispondenza letteraria, indicò letteralmente i punti in cui la materia narrativa dovesse ampliarsi mostrando ciò che lo scrittore adombrava, forse per quel suo modo così semplice di raccontare storie destinate a spegnersi, covate sotto braci ancora ardenti.
Ottenuto con soddisfazione il giusto bilanciamento, il narratore lombardo decise di pubblicare uno spaccato di vita provinciale piuttosto ampio che riproduce gli effetti delle macchinazioni dell’epopea fascista, anteriori al secondo conflitto mondiale, e mosse da un “mortarino” tale Augusto Vanghetta. Mortarini furono chiamati, con disprezzo, illo tempore coloro che beneficiarono della legge ideata dal ministro di grazia e giustizia del regno, Lodovico Mortara, la quale, dopo gli effetti nefasti della Grande Guerra, nel 1919 aprì l’accesso alla magistratura a tutti i laureati in legge, iscritti almeno da cinque anni all’albo professionale o esercitanti, per un tempo consimile, la professione di notaio (Novelli, 2012). Pertanto la ricostruzione storica (quella che non può essere presunta, ma desunta in quanto certificata e vissuta) ci impone una riflessione del blocco degli eventi che legano il passato al presente, avvinghiati come edera abbarbicante.
Voglio dire che di Paronzini, di Bordigoni, di Vanghetta, il mondo continuerà ad averne (oggi sicuramente usciti dall’anonimato della provincia: sic et simpliciter) e forse di nuovi totalitarismi, perché la natura umana è incline alla reiterazione; seppur varia, essa recide i “deboli” della selezione e nondimeno si trasforma nelle metamorfosi di altre maschere, di deboli che sono diventati forti o di forti che si sedimentano, lasciando imperiture radici malevole: io fui radice della malapianta (Purg. XX, v. 43).
L’analisi del fascismo, di impronta chiariana, è preziosa, mai ostativa: essa non prende mai posizione, delineando ciò che inevitabilmente si compì e quanto beffardamente si sarebbe delineato. Il fascismo assume la curiosa conformazione di uno specchio lacustre nel quale si riflettono gli eventi torbidi dell’esistenza e nel silenzio della natura si consumano gli echi disumani della vanità umana: le glorie dell’impero, la primazia della patria, la virilità e il machismo senza confine; echi spenti, diradati, fiochi, un tempo terra, poi limo, e infine acqua ingorda, che inghiotte ogni cosa e assottiglia lo spazio vitale fino a diventare lago e a conformarsi ad altra acqua torbida. Acqua all’acqua.
In mezzo a questa trasformazione terrena, genesi di una natura decadente, si muove il Vanghetta, che nominato pretore a Cuvio, sfrutta la nuova posizione colmando un vuoto politico disarmante, che permetteva sfavillanti ascese solo a coloro che fossero inquadrati nel regime, pur rimanendone nella sostanza lontani, poco interessati a maturare l’ideologia prendendone solo il nettare del bisogno; infatti, secondo quanto è stato ricostruito, si verifica con frequenza maggiore che “ai quadri sindacali, alle fantomatiche corporazioni si affiancano, spesso per sostituirli, i quadri di partito: un partito, si noti, che si vuole soprattutto educatore, che si serve di propagandisti, giornalisti, ex miliziani, trasformati in pubblici ufficiali, per includere in una rete diretta dal centro, una provincia fortemente segnata da leader locali, restii a trasformarsi in quadri di una organizzazione nazionale” (M. Salviati, 1994). Un quadro nel quale “la ex-piccola borghesia periferica entra per questa via nei meccanismi dell’integrazione politico-sociale dai quali si era sentita esclusa, portando all’interno del sistema una faziosità che sembra contraddistinguere, la vita politica nei fasci e nelle federazioni” (ancora M. Salviati, 1994). Eccolo, impantanato nella mota, il nostro Vanghetta avanza e rimedia un matrimonio accuratamente progettato, frugato tra le sudate carte che lo vede maritarsi con un orfanella, tale Evelina Andreoletti. Mai dimentico della sua voracità sessuale, si muove in un lasso di tempo scandito da desideri e favori; nutre l’incipiente voracità sessuale; schiva la moglie; assume un giovane assistente e coltiva l’hobby del teatro.
Proprio il teatro, in queste pagine, ci regala un meraviglioso esempio di metanarrazione, quale appunto si presenta l’opera scritta dal Vanghetta (L’amore è un’equazione, ovvero Ramiro e Isidora) che si incastra nella storia come un buco che aspetta un chiodo per coprire il cunicolo cieco appena creato. Il breve testo, offerto a una compagnia teatrale del luogo, racconta la storia di due amanti che incontrandosi in maniera fortuita, ogni volta che i rispettivi amori ne chiedano incessantemente bisogno, finiscono per innamorarsi durante gli oscuri abboccamenti. E questo stesso soggetto che scrive il Vanghetta, per contrappasso, rivive. La prima del nuovo spettacolo, rappresentata in un teatro di fortuna, è un disastro per il nubifragio occorso, e da quell’intoppo, mentre il pretore fugge per consolare la primadonna da lui scelta, la fragile Evelina, con quelle carni trasparenti di crisalide (memorabili sono le tortuose descrizioni dei corpi, che fanno di Chiara un esteta), nella polla delle acque rinasce, rinfocolata dalle attenzione del Landriani, che ligio al dovere obbedisce al padrone e riporta la moglie del capo a Cuvio.
Quindi un amore e due incroci pericolosi. Il Vanghetta, avido di maggiori riconoscimenti, tenta l’avvocatura e straziato da prestiti che assolve per amore, va deperendo simile a un fiore reciso ed è inerme di fronte al rifiorire di Evelina, consorte bisognosa d’affetto, che ha trovato nuova linfa e nuova vita. In seguito, tutto quanto ricreato nel rivolgimento della sorte, va spegnendosi, gli ultimi barlumi vacillano e non sono altro che una luce soffusa ormai destinata all’oblio. Un sommesso spegnersi, così tenue da diventare penombra di luce, regala l’ultima vampa del finale, l’inaspettato per il quale sforiamo l’intera girandola dei generi: comico, grottesco, tragico. E infine tutto si ricompone nella taciturna trasformazione dei tempi, quando i ricordi del passato non possono essere che trapassato, morto e sepolto.
Nell’irrimediabile semplicità dell’azione, leggere queste storie può essere utile a comprendere gli aspetti di una narrativa ricca d’interpretazioni e non di categorie riduttive. In Chiara, e nella fattispecie nelle pagine dei primi romanzi (Il piatto piange, La Spartizione, Il Balordo), prendono piede scorci decadenti della natura, tali da ricordare il pedante D’Annunzio della prosa, ma fondamentali nel regalarci l’essenza delle cose e, al contrario del Vate, la chiarezza della parola, piana, lucida, profondamente vera, tanto da riconoscere questa o quell’altra storia che abbiamo letto, o sentito distrattamente, e ce la ripetiamo ancora, convinti che tale assurdità non possa più accadere.