La narrazione dell’identità, secondo l’esperto di comunicazione siciliano, va analizzata per comprendere cosa accade nella dimensione on lin e off line.
Avvenire lo ha definito uno dei maggiori esperti italiani sul fenomeno Fake News. Studioso e autore di ricerche sul rapporto tra bambini, adolescenti e adulti e nuove tecnologie. È il professor Francesco Pira che ho voluto intervistare sull’ analisi scientifica che ha condotto relativa alle dinamiche relazionali tra due universi paralleli: la vita reale e la vita virtuale.
Il professor Francesco Pira, siciliano 56 anni, sociologo, è professore associato di sociologia dei processi culturali e comunicativi. Insegna giornalismo web e comunicazione strategica, teorie e tecniche del linguaggio giornalistico e comunicazione istituzionale presso il Dipartimento di Civiltà Antiche e Moderne dell’Università degli Studi di Messina, dove è Direttore del Master in “Esperto in Comunicazione Digitale per PA e Impresa”.Il Rettore professor Salvatore Cuzzocrea lo ha nominato nel 2020 Delegato alla Comunicazione dell’Ateneo peloritano.
Intensa la sua attività di ricerca e didattica anche all’estero. Dopo una docenza Erasmus in Armenia all’Università di Yerevan attualmente è stato Visiting Professor “Marie Curie” presso il Center for Social Science, Tiblisi (Georgia), nell’ambito del Progetto SHADOW (MSCA-RISE call H2020-MSCA-RISE-2017). Ha intrapreso una battaglia personale contro il bullismo, il cyberbullismo, il sexting, le fake news e la violenza sulle donne. Su questi temi ha svolto ricerche e tenuto seminari in Italia e all’Estero per studenti, docenti e genitori. Nel giugno 2020 è stato nominato Presidente dell’Osservatorio Nazionale sulle Fake News di Confassociazioni. È componente del Comitato Promotore e componente del Comitato Scientifico dell’Osservatorio Nazionale sulla Comunicazione Digitale di PA Social e Istituto Piepoli. Saggista è autore di numerosi articoli e pubblicazioni scientifiche.
Ha partecipato a tantissimi webinar e a tantissime conferenze nazionali e internazionali, dove ha presentato i dati della sua ultima ricerca contenuta all’interno del suo ultimo saggio “Figli delle App”, edito da Franco Angeli Editore – Collana di Sociologia.
Quest’anno è stato tra gli scrittori ospiti del Festival Internazionale Taobuk di Taormina edizione 2022, dove ha presentato il suo ultimo libro “Piraterie 2 La Vendetta” (Medinova Edizioni), nell’ambito di un incontro su informazione e verità. Inoltre, ha ricevuto il prestigioso premio “Penna Maestra 2022”. In queste ultime settimane ha già partecipato a tre incontri, a Realmonte, Campobello e Licata, in cui ha presentato il suo volume e ha tracciato le linee su quella che oggi è l’identità reale e virtuale.
E proprio sul tema dell’identità ho voluto intervistarlo per cercare di riflettere su come stiamo cambiando e quali sono le criticità legate alla spersonalizzazione dell’individuo.
Professore, può aiutarci a capire il concetto di identità in ambito sociologico?
«Nell’immaginario sociologico l’identità viene narrata come qualcosa di evasivo e sfuggente. Uno dei padri della sociologia Emile Durkheim, per esempio ci propone, identità collettive che restano sullo sfondo. Nel senso che da un lato mette a rischio i legami sociali, ma può agire anche come fattore di stabilizzazione nella transizione che prepara la creazione di un nuovo ordine sociale. Secondo il sociolgo Zygmunt Bauman: “L’identità ci si rivela unicamente come qualcosa che va inventato piuttosto che scoperto; come il traguardo di uno sforzo, un obiettivo, qualcosa che è ancora necessario costruire da zero o selezionare fra offerte alternative, qualcosa per cui è necessario lottare che va poi protetto attraverso altre lotte ancora, anche se questo status precario e perennemente incompleto dell’identità è una verità che se si vuole che la lotta vada a buon fine, de’essere – e tende ad essere – soppressa e laboriosamente occultata. La fragilità e lo status di perenne provvisorietà dell’identità non possono più essere celati. Il segreto è di dominio pubblico”. Una metafora importante, perché ci lamentiamo tantissimo del rispetto della nostra privacy, ma poi condividiamo quasi ogni momento della nostra vita».
Quanto ha influito la globalizzazione sulla trasformazione dell’identità?
«Con la globalizzazione, l’identità è diventata una questione scottante. E si parla di identità-puzzle. I punti di riferimento sono cancellati, le biografie diventano puzzle dalle soluzioni difficili e mutevoli. Il problema non sono i singoli pezzi del mosaico, ma la maniera in cui s’incarnano l’uno con l’altro. Cosi come ci ricorda Bauman: “Un puzzle comprato in negozio è tutto contenuto in una scatola, la l’immagine finale già chiaramente stampata sul coperchio e la garanzia, con promessa di rimborso in caso contrario, che tutti i pezzi necessari per riprodurre quell’immagine si trovano all’interno della scatola e che con questi pezzi di può formare quell’immagine e quella soltanto; ciò permette di consultare l’immagine riprodotta sul coperchio dopo ogni mossa per assicurarsi di essere effettivamente sulla strada giusta (l’unica strada corretta) verso la destinazione già nota, e quanto lavoro rimane da fare per raggiungerla” ».
Un continuo esibizionismo mediatico fatto di selfie e una continua “vetrinizzazione dell’identità”, ma poi questa vetrina ci ritrae davvero per quello che siamo? Sappiamo rinunciare ad una vita in vetrina senza social e senza le chat istantanee, come Whatsapp, o siamo perduti? Gabriel García Márquez ci fa ragionare: “tutti gli esseri umani hanno tre vite pubblica, privata e segreta”. Noi abbiamo i social e le chat. Tutto questo è sconcertante e a tratti disarmante. Ma come si è giunti a tutto questo?
«La pandemia che ha sconvolto le nostre vite ha evidenziato ancora di più aspetti latenti. Nei primi mesi della pandemia ho condotto un’indagine “La mia vita ai tempi del Covid”
Ho intervistato 1.858 studenti, 1146 ragazze e 712 ragazzi; 1021 ragazze hanno frequentato la scuola superiore e 125 la scuola secondaria; 613 ragazzi delle scuole superiori e 99 quelli che hanno frequentato la scuola secondaria di primo grado. La ricerca ha evidenziato come sui social tendiamo ad assumere modelli di identità predeterminati pur ritenendo di esprimere la nostra individualità, attuando una sorta di mimetizzazione, con la quale cerchiamo di assomigliare a questi ambienti online e, così facendo, rinunciamo a noi stessi.
Ecco che diamo vita ad un io performativo con il preciso scopo di ottenere il gradimento del pubblico che ci segue. L’utilizzo dei diversi social media avviene in funzione degli obiettivi di comunicazione e del pubblico a cui si rivolgono. Più profili. Più pubblici.
I social sono gestiti da imprenditori che hanno fiutato quanto siamo disposti a cedere le nostre emozioni, la nostra privacy, la nostra intimità per farci giudicare e approvare dagli altri. Emerge un forte desiderio di “vetrinizzazione” che ci porta ad esporci su queste piazze virtuali e molto spesso esponiamo anche gli altri per ottenere “like” su Facebook o “cuoricini” su Instagram. Chi gestisce i social network o in generale piattaforme di successo vuole soltanto ottenere il massimo dalla profilazione dei suoi iscritti e guadagnarci un bel po’. Non a caso sono i più ricchi del mondo. Tutti hanno bisogno di loro. Nessuno ormai può più farne a meno».
Oggi, assistiamo ad un continuo proliferare di profili falsi. Oltretutto, Facebook ci ha avvisati che oltre all’account di registrazione sarà possibile avere 4 profili personali. Ogni profilo potrà avere un nome diverso e per ogni “personalità” ci sarà un feed personalizzato, creato in base agli amici, alle pagine o ai gruppi seguiti. Analizziamo insieme questo dato, piuttosto preoccupante…
«Questo numero significativo di ragazzi con un profilo falso ha aperto letteralmente la porta sulla grande questione che sta attraversando l’intera società: la proliferazione della disinformazione. Flussi in crescita esponenziale che hanno consentito l’affermarsi di forme deviate dell’esercizio di libertà che si muovono nell’opacità dell’anonimato.
La crescita di queste dinamiche apre al tema della violenza e all’aumento di fenomeni come cyber bullismo, il sexting o il revenge porn. Insito nel DNA stesso di un falso profilo, è l’interiorizzazione di una visione distorta del principio di tutela della propria privacy. Nell’era liquido-moderna l’inganno è diventato centrale nei processi di comprensione del reale e la distinzione tra vero e falso non sia più percepita».
Sappiamo che ci sono genitori iperprotettivi, ma in questo vortice di iperprotezione ci sono genitori che non sanno che i propri figli possiedono diversi profili social e visitano siti poco sicuri. Quale potrebbe essere la soluzione?
«È vero recenti dati di ricerche lo confermano. i genitori sono poco consapevoli dei pericoli e dell’uso che i loro figli fanno delle nuove tecnologie. Non sanno quanti profili social possiedono i figli. I dati diffusi in occasione delle “Giornata sulla sicurezza informatica” ci presentano un quadro angosciante, con bambini e ragazzi sempre connessi e genitori spesso all’oscuro dell’uso o dell’abuso dei figli sulla rete e con la rete. I genitori devono informarsi per comprendere le nuove realtà tecnologiche e solo la conoscenza può aiutare i più piccoli. Ogni famiglia dovrebbe sapere che esiste il parental control, per vedere a quali siti accedono e quanto navigano i loro figli».
Dia un consiglio a quanti leggeranno questa intervista.
«Credo che l’elemento principale da non sottovalutare è quel sentiero della solitudine che i nostri giovani hanno iniziato a percorrere. Sempre connessi col mondo, ma sempre più isolati e chiusi in sé stessi. Un continuo consumismo emozionale che li allontana dalla vita di tutti i giorni. Il dovere degli adulti è quello di vigilare e di supportare le nuove generazioni per un corretto uso delle nuove tecnologie. Bisogna educare preadolescenti e adolescenti, affinché capiscano che non è necessario avere un profilo falso. Devono imparare ad accettarsi e ad accettare gli altri in un mondo che appare prosciugato da esistenze frenetiche e vuote, dove siamo costretti a prendere parte a una competizione grottesca per la visibilità e lo status ed è inaccettabile».
Insomma, siamo diventati un po’ tutti personaggi pirandelliani una volta comprese le contraddizioni dell’esistenza, ci trasformiamo in maschere nude consapevoli dell’insensatezza della vita e del carattere illusorio di ogni certezza e osservano la propria esistenza con ironia fatta di amarezza come “forestieri della vita”. Allora, bisognerebbe abbandonare ogni maschera e tornare a vivere la vita reale.