Ore undici e minuti trentasei del quattordici agosto duemiladiciotto. È il momento preciso in cui, sotto le cascate d’acqua di un temporale mattutino estivo, il ponte Morandi nelle primissime propaggini delle alture di Genova, si sfalda come un castello di sabbia qualunque, schiantandosi al suolo. Nel breve volgere di pochi secondi la vita di seicentoventi persone viene improvvisamente stravolta, si contano infatti quarantatré persone decedute, undici feriti e cinquecentosessantasei sfollati.
Immaginiamo per un attimo di essere una delle persone coinvolte nel crollo. Voglio pensare a una famiglia che si stava recando al mare dopo un anno di lavoro, oppure alla coppia di colleghi sopra un camion che circolava nell’asfalto rovente per rifornire i negozi e perché no a un anziano pensionato che viveva in uno degli appartamenti costruiti più o meno nella perpendicolare del ponte.
Per alcune persone il ponte Morandi rappresentava un mezzo per lo scavalcamento del torrente Polcevera in un luogo caratterizzato da un’orografia del territorio molto difficile e impervia. Un modo per tenere viva ed efficiente l’economia della zona. Per altri rappresentava una scomoda presenza sopra le loro teste, che però serviva a fare abbassare la rata del mutuo per l’acquisto di un’abitazione all’ombra di un gigante di cemento e ferro. Per altri ancora era la semplice l’immagine di una cartolina caratterizzata da una linea del cielo in cui l’opera e l’ingegno dell’uomo si fondeva con la natura selvaggia delle colline che si fiondano verso valle e poi verso il mare. Una cosa è certa, la solidità dell’opera era per tutti motivo di conforto e sicurezza, ma quattro anni fa qualcosa è cambiato, un qualcosa, oggetto peraltro di indagini e processi, che ha cambiato improvvisamente la percezione del viaggio, e non solo, in tutti noi.
Solido terreno che improvvisamente è divenuto vuoto, per chi viaggiava in quel tratto di autostrada in quel preciso istante; tetto innaturale che improvvisamente è venuto giù, per chi abitava sotto il ponte; linea del cielo che ha cambiato improvvisamente caratteristiche, per chi viveva a monte e a valle del ponte. E poi i cantieri chiusi che dovevano mettere in sicurezza l’infrastruttura, anch’essi collassati nel’innaturale incapacità dell’uomo di gestire i propri manufatti.
Il solido che diviene vuoto come metafora dei nostri giorni caratterizzati dalle quotidiane insicurezze, scandite dallo stillicidio dei titoli e delle notizie che circolano, oggi facilmente anche in rete.
Il solido che diviene vuoto di una natura mediamente benevola con l’uomo, che oggi si esprime attraverso un clima impazzito e frequenti cataclismi.
Il solido che diviene vuoto della scienza preposta alla nostra difesa dalle malattie, che alza le mani in segno di resa di fronte alla pandemia costringendoci a ricordare un recente passato di sofferenza e un prossimo futuro all’insegna dell’incertezza.
Il solido che diviene vuoto di una pace universale macchiata da conflitti a macchia di leopardo, che oggi rischiano di assumere carattere mondiale, perché contrappone direttamente, non più come semplici minacce, ma con fattivi combattimenti, gli interessi delle grandi potenze economiche e militari.
Il solido che diviene vuoto di una classe politica che sembra più preoccuparsi dell’occupazione delle poltrone simbolo concreto di potere, che alla soluzione reale di una società sempre più ancorata su basi poco solide e precarie.