Johann Wolfgang von Goethe: “Vedi Napoli e poi muori”

Articolo di Armando Giardinetto

Drammaturgo, teologo, poeta, scrittore, scienziato, critico d’arte e musicale, saggista, Johann Wolfgang von Goethe nacque nella fredda Germania nel mese di agosto del 1749. Così parlò della sua nascita: “Sono venuto al mondo a Francoforte sul Meno… al suono delle campane di mezzogiorno. La costellazione era fortunata; il Sole era nella Vergine… Giove e Venere gli ammiccavano… Mercurio senza ostilità; Saturno e Marte erano indifferenti; solo la Luna… esercitava la sua forza avversa con maggior intensità… Questi aspetti fortunati… possono ben essere stati causa della mia conservazione perché per inabilità della levatrice io venni al mondo come morto, e solo con molti sforzi riuscirono a farmi vedere la luce”. Fu anche un insaziabile viaggiatore Goethe; difatti in seno al Grand Tour viaggiò in lungo e in largo in Italia: a Napoli venne a febbraio del 1787 e decise di soggiornare per più di un mese, ne rimase così affascinato che, quando lasciò la città, sperimentò una tale nostalgia che scelse di ritornarci l’anno seguente perché lì lo scrittore di Faust si sentiva straordinariamente benvoluto e si accorse che quei sentimenti gli erano mancati nei luoghi gelidi in cui venne partorito.

Oggi tutti i turisti che vengono nella città partenopea conoscono la frase “Vedi Napoli e poi muori”, traduzione dal tedesco: “Siehe Neapel und stirb”. Ebbene, a scriverla è stato proprio Goethe che ne scrutò ogni piccolo particolare, decidendo di esplorare altresì una parte della provincia e dell’entroterra campano: Pompei, Ercolano, Portici, Caserta, Torre del Greco, Torre Annunziata, Pozzuoli, Cava dei Tirreni, Salerno, salendo per ben due volte anche sul Vesuvio fumante. Lo scrittore provò una profonda ammirazione per i napoletani perché, secondo lui, riuscivano a vivere in mezzo a due grandi opposti: da un lato l’estrema bellezza dei paesaggi paradisiaci e dall’altro il puro terrore dell’inferno, il vulcano. Pertanto Napoli era Dio (il bene), il Vesuvio era Satana (il male) e i napoletani – a dispetto dei numerosi problemi della vita in città; nonostante la miseria delle classi disagiate e nonostante le disgrazie – vivevano tranquillamente nell’allegria, nella spensieratezza, quasi come se fossero stati stregati o come se avessero bevuto pozioni magiche al gusto di vino riuscendo a non dare peso alle minacce del male incombente.

Nel suo taccuino – che poi diventerà “Viaggio a Napoli” – scrisse: “Oggi mi sono dato alla pazza gioia, dedicando tutto il mio tempo a queste incomparabili bellezze” che lo distraevano continuamente dai suoi doveri di viaggiatore-scrittore. Si innamorò del clima napoletano; dei monumenti; del cibo; della cultura; dalla musicalità della lingua napoletana; della storia partenopea; ma soprattutto dello stile di vita industrioso e accogliente dei napoletani, di quanto fossero un prodotto di fede e scaramanzia; di occultismo e logicità; di misticismo benevolo e diaboliche malvagità; del rapporto intrattenuto dai vivi con i morti; del loro singolare modo di vedere l’intera esistenza dell’individuo: “Tutti, a modo loro, non lavorano soltanto per vivere, ma per godere e tutti badano a ricrearsi persino nel lavoro della vita”. Goethe non fece mai mistero su come il suo cuore è il suo modo di vivere cambiarono in meglio dopo l’esperienza a Napoli; era solito definire la città partenopea come un paradiso, dove il cuore della gente batteva speranzoso; dove il sole illuminava i vicoli stretti e bui e dove il popolo dispensava numerosi e gratuiti sorrisi agli sconosciuti: “Tutti vivono in una specie di ebbrezza e di oblio di sé stessi. A me accade lo stesso. Non mi riconosco quasi più, mi sembra di essere un altro uomo. Ieri mi dicevo: o sei stato folle fin qui, o lo sei adesso”.

In “Vedi Napoli e poi muori” lo scrittore ha voluto presentare un concetto: dopo aver visto Napoli, non c’è più nient’altro da poter vedere poiché le sue bellezze sono ineguagliabili perciò “Vedi Napoli e” puoi anche morire soddisfatto: “Da quanto si dica, si narri, o si dipinga, Napoli supera tutto: la riva, la baia, il golfo, il Vesuvio, la città, le vicine campagne, i castelli, le passeggiate… Io scuso tutti coloro ai quali la vista di Napoli fa perdere i sensi”. “Vedi Napoli e poi muori”, in effetti, è solo l’inizio di quello che oggi si chiama “napolitudine”, vale a dire la nostalgia che i turisti provano alla fine della vacanza. Sentimento conosciuto bene anche dagli stessi napoletani emigrati che vivono in un profondo stato di inquietudine che certamente fa soffrire e loro sanno bene che da questa malinconia si può guarire solo ritornando in città. A Napoli Goethe non poté non pensare a suo padre – il giurista Johann Caspar Goethe – perché anche lui, a suo tempo, fu affetto da napolitudine. Goethe padre, infatti, era venuto in città durante la sua giovinezza e aveva tramandato al figlio le bellezze di cui si era perdutamente innamorato: “E così come si vuole che chi abbia visto uno spettro non possa più ritrovare l’allegria, si potrebbe dire all’opposto che mio padre non poté mai essere del tutto infelice perché il suo pensiero tornava sempre a Napoli”.

Il Goethe viaggiatore, d’altra parte, rappresenta il buon turista che non ha pregiudizi, che non dà peso ai luoghi comuni, infatti si fece avvocato di tutte quelle persone che non lavoravano definendole non diverse da altre della stessa condizione che, invece, vivevano altrove in Italia: “Noi giudichiamo troppo severamente le popolazioni del Sud… Il cosiddetto lazzarone… non è per nulla più ozioso che il suo simile delle altre classi. Dopo aver acquisito qualche conoscenza delle condizioni di vita del Sud, non tardai a sospettare che il ritenere fannullone chiunque non si ammazzi di fatica… fosse un criterio tipicamente nordico… Rivolsi perciò la mia attenzione preferibilmente al popolo, sia quando è in moto che quando sta fermo, e vidi, bensì, molta gente mal vestita, ma nessuno inattivo”.

La magia, lo spiritismo, l’esoterismo e gli scongiuri, la religione, le credenze popolari, la superstizione, l’irrequietezza dell’uomo davanti alle circostanze drammatiche della vita, la bramosia di scoprire e studiare i misteri della natura, lo stare continuamente in bilico nella lotta tra il bene e il male per poi firmare col sangue il patto con il diavolo in cambio della possibilità di esercitare il potere nel mondo alla scoperta dei paceri e della libertà; la speranza e la certezza della salvezza dell’anima grazie alla misericordia divina; sono questi gli ingredienti principali di Faust, al quale Goethe lavorò per sessanta lunghi anni. Quanti di questi elementi lo scrittore individuò in un popolo tanto antico quanto unico come quello napoletano? Direi tanti e forse per questo Napoli gli restò incastonata nel cuore per tutta la vita. Johann Wolfgang von Goethe morì nel 1832. Le sue ultime parole furono: “Più luce”.

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