Afrika (1973): una storia insolita con una commistione di generi molto interessante

Articolo di Gordiano Lupi

Regia, Soggetto e Sceneggiatura: Alberto Cavallone. Fotografia: Maurizio Centini. Montaggio: Anita Cacciolati. Musiche: Franco Potenza (solista: Andrea Russo – Edizioni Musicali: Saar). Scenografia: Barbara Vittoria Guidotti. Aiuto Regia: Gianni Besozzi. Trucco: Marisa Marconi. Produzione: Pier Latino Guidotti (Castle Film) e Gab Film (Roma). Distribuzione: Aldo Addobbati. Edizione Italiana: Cinitalia Edizioni. Effetti Sonori: Luciano Anzellotti. Eastmancolor: Telecolor (Roma). Sonorizzazione: Fono Roma. Interpreti: Ivano Staccioli, Jane Avril (Maria Pia Luzi), Kara Donati, Andrea Traglia, Debete Eshepete, Zawditu Aslà, Peter Belphet, Gianni Besso, Marise Hugo.

Afrika è un film originale che racconta una storia insolita per il periodo storico e realizza una commistione di generi molto interessante. In breve la trama. Philippe (Staccioli) è un pittore in crisi, bisessuale, conteso tra la passione per i ragazzini e l’amore per la moglie (Donati). In Etiopia incontra Frank (Traglia), un giovane omosessuale, se ne invaghisce, lo assume come segretario lo fa vivere in famiglia come aveva fatto con altri ragazzi. Alla fine lo abbandona, proprio quando lui si era operato per diventare donna. La delusione del ragazzo è talmente insostenibile che si uccide sparandosi un colpo di pistola alla tempia, aiutato dalla sorella (Avril) che – pur amandolo – non poteva più vivere con un fratello gay, messa alle strette da un marito maschilista.

La pellicola è strutturata come Zelda (1974), parte dalla fine, vediamo il corpo senza vita del ragazzo, comincia un’indagine condotta da un commissario etiope (Eshepete), quindi si procede per flashback raccontati dalla sorella e dal pittore. 

La cornice di Afrika è tipica del mondo movie, sulle orme di Gualtiero Jacopetti e Paolo Cavara, soprattutto la partenza che non ha punti di contatto con il resto del film – se non un collegamento nella sequenza finale – e che vuol mostrare il clima di violenza in una terra abbandonata a se stessa. Il registra mostra una carneficina di etiopi, compiuta da mercanti d’armi locali, aiutati da un bianco che muove le fila senza sporcarsi le mani. L’incipit della vera e propria storia è successivo, possiamo definirla un giallo erotico, anche se siamo nel campo della pura exploitation, cinema estremo, anche per i contenuti, perché non era facile – nel 1973 – raccontare una storia d’amore gay tormentato.

Il pittore e il ragazzino s’incontrano in biblioteca, grazie alle Illuminazioni di Arthur Rimbaud, poeta giovanissimo noto per la bisessualità e per la relazione amorosa con il già adulto Paul Verlain. La storia tra il giovane africano e il maturo europeo ripercorre la stessa falsariga della relazione dei due poeti maledetti francesi – una passione letteraria confessata del regista – anche se il colpo di pistola finale va a segno e non viene sparato dall’amante ma è un suicidio assistito. Interessanti i flashback che contengono tutta la storia del ragazzo, deriso per la sua omosessualità e per l’amore nei confronti della poesia, fino al terribile episodio della violenza carnale, raccontato nei minimi particolari. Il ragazzo viene spogliato, legato a un albero, sodomizzato da due compagni e infine violentato oralmente da una ragazzina.

Il regista fa solo intuire le parti più scabrose ma le sequenze sono molto torbide. La sorella del ragazzo è una credibile Jane Avril, contesa tra un marito macho che non vuole avere niente a che fare con un omosessuale e l’affetto che prova per il fratello. Philippe è il diligente Ivano Staccioli, calato in una parte non facile, da uomo tormentato che non vuole lasciare la moglie ma è sempre più attratto dal ragazzino. “Come posso aiutarti, se non sono stato capace di aiutare me stesso”, dirà alla sorella del ragazzo, rimproverandosi di non aver capito abbastanza il giovane compagno. Molto nuda e disinibita la poco nota Kara Donati (Cenerentola 80 – 1983 di Roberto Malenotti, La seconda notte – 1986 di Nino Bizzarri, Il lupo di mare – 1987 di Maurizio Lucidi), perversa moglie del pittore, che si fa lavare le spalle in bagno, cerca di eccitare il giovane omosessuale, tenta di riconquistare il marito.

Il rapporto moglie – marito, che va avanti stancamente  da dieci anni, è insolito, aperto a nuove esperienze, sempre sull’orlo del baratro. La storia gay è molto dolce, composta di sguardi, carezze e abbracci, il massimo consentito è un bacio maschile, abbastanza insolito per i tempi. I personaggi sono quasi tutti sgradevoli, la sola vera vittima è Frank, il ragazzino innamorato, incapace di sopportare il peso della sua diversità. Tra i personaggi di contorno c’è anche una moglie etiope di un colonnello italiano diventato cieco che viene tradito dalla donna in maniera sfacciata. Il giudizio morale del  pubblico anni Settanta è ben rappresentato dal commissario etiope: “Chiudiamo questa storia squallida come suicidio di una donna abbandonata. Non facciamo parola di tutto il resto”. Stupendi i paesaggi africani, una fotografia perfetta tratteggia alcune usanze etiopi, inquadra le iene mentre si cibano di pezzi di carogne, riproduce tramonti sul fiume e spaccati di savana.

Un film pasoliniano che risente di influenze jacopettiane, ma corretto secondo lo stile personale di un regista trasgressivo, che ama stupire. Un melodramma erotico versione gay con un pizzico di giallo, con personaggi che sembrano usciti da un film di Polselli, ma ben tratteggiati, al punto che riescono a far affezionare lo spettatore. La musica è triste e monocorde, ideale per il tipo di pellicola. Il montaggio è lento, compassato, ma il tono lirico della sceneggiatura e dei dialoghi lo prevede. Il film ebbe discrete critiche, ma “non così buone come avrebbe meritato”, ricorda il regista. Fu sequestrato a Latina, subì tagli selvaggi per circa 12 minuti e dopo sei mesi di processo fu rimesso in circolazione perché giudicato “opera d’arte”. Il produttore Pierlatino Guidotti dice a Nocturno Cinema: “Afrika era la vera storia di Staccioli, che in segreto mandava avanti alcune relazioni omosessuali, nonostante fosse sposato con una gran bella donna e avesse due figlie”. Sesto incasso della stagione, nonostante tutto. Alcune scene coraggiose vennero girate in un vero lebbrosario, con malati non contagiosi, e un’altra sequenza a rischio vedeva Jane Avril imboccare pericolose iene ai bordi del deserto. Girato tra Asmara e Addis Abeba, quando ancora era al potere il Negus (morì l’anno dopo), e infuriava la guerra civile con l’Eritrea.

Paolo Mereghetti non distrugge Afrika (una stella e mezzo): “L’ambientazione in Etiopia, con violenze varie da mondo movie (simulate e no), dovrebbe servire da cartina di tornasole per l’ipocrisia dei personaggi. Cavallone (anche sceneggiatore) affronta temi non comuni per l’epoca, con una prospettiva insolita: stupisce la sequenza dello stupro omosessuale, ma i mezzi (anche espressivi) non sono adeguati alle ambizioni. Il film è diventato praticamente invedibile”. In parte concordo, anche se con un giudizio più benevolo. Aggiungo che adesso è possibile vedere in rete Afrika, anche se le immagini non sono di qualità eccelsa. Pino Farinotti concede due stelle, ma ribattezza il pittore Peter Stone. Marco Giusti asserisce che la storia è tratta da un romanzo delle edizioni 513 (quale?), poi fa una gran confusione.

Per lui Jane Abril è la moglie del pittore e Kara Donati la sorella del ragazzo. Inoltre racconta la trama in maniera approssimativa, come uno che non ha visto il film. Interessanti, invece, i giudizi che riporta su Stracult, dichiarazioni dello stesso Cavallone: “Non era un film che potesse piacere al pubblico… e difatti non piacque”. Diciamo che Cavallone anticipava i tempi – come tutti i veri artisti – e che il suo film sarebbe stato perfetto negli anni Novanta. Il regista racconta che “La lavorazione in Etiopia fu un incubo, io e il mio operatore fummo messi in cella di sicurezza diverse volte…”. Cavallone confida a Nocturno Cinema: “Volevo parlare di Africa e di omosessualità. Mi interessava esplorare il problema, cercare di far capire questo tipo di rapporto, che era visto allora come un rapporto tabù. E soprattutto mi interessava fare una storia africana in cui l’Africa potesse essere uno sfondo per mettere più vicini i personaggi. I bianchi in un’Africa che si era ormai decolonizzata erano i soldati del generale Custer…”. Il pubblico con comprese, anche se negli anni Ottanta Afrika si è visto molto – a notte fonda – sugli schermi delle peggiori televisioni private. Consigliato.

Produce la Castle Film, casa di produzione messa in piedi da Cavallone e soci, ma in realtà attiva solo per questo film girato in grande economia, in Super 16 mm. (forse il primo in Italia) e trasferito negli studi Telecolor in 35 mm. per risparmiare sulla pellicola rispetto a un 2P, come si usava allora. Coproduce la Pab di Addobbati e Belpietro, ma con quota vantaggiosa (85 – 15), per salvare dal fallimento la Castle ma anche per lucrare sui guadagni.

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