Alberto Lattuada (Milano, 1914 – Orvieto, 2005), figlio del musicista e compositore Felice, laureato in architettura, ma innamorato del cinema che comincia a frequentare nel 1933 come scenografo. Nel corso della sua carriera interpreta alcuni ruoli come attore, scrive romanzi, sceneggiature, articoli su riviste e tra i suoi meriti va citata la mania di collezionista per i vecchi film che contribuisce alla nascita della Cineteca Italiana. L’attività di sceneggiatore lo porta a collaborare con Mario Baffico, Ferdinando Poggioli e Mario Soldati. Durante la guerra debutta con Giacomo l’idealista (1943), film tratto da un romanzo di Emilio De Marchi, ingiustamente accusato di formalismo, mentre è una critica antiborghese che punta l’indice sull’ipocrisia della gente per bene. Marina Berti è la prima protagonista femminile scoperta e lanciata da Alberto Lattuada, personaggio intenso al centro di un dramma passionale. La freccia nel fianco (1945) è il suo secondo film, ancora una volta tratto da un’opera letteraria, un romanzo liberty di Luciano Zuccoli, sceneggiato da Alberto Moravia, Ennio Flaiano e Cesare Zavattini. La pellicola sconta tutte le difficoltà del periodo bellico, ma conferma l’interesse del regista per il mondo femminile, soprattutto per l’acerba sessualità giovanile, così come contiene in nuce la polemica antiborghese. Lattuada è un regista importante del nostro cinema e sin dalle prime opere si comprende la centralità della figura femminile, elemento che caratterizza la filmografia dell’autore. Nei primi lavori sono già presenti un grande equilibrio interno dell’inquadratura, uso sapiente delle luci e messa in risalto dei dettagli, calibrati movimenti di macchina e controllati stacchi di montaggio, cifre stilistiche alle quali il regista rimarrà fedele. Lattuada gira Il bandito (1946) con Amedeo Nazzari e Anna Magnani, in pieno solco neorealista, descrivendo il ritorno dei soldati dalla guerra e le cadute nel mondo della malavita, così come De Santis parla dei reduci banditi e dei problemi di reinserimento in Caccia tragica (1946). Il delitto di Giovanni Episcopo (1947) segna un progressivo allontanamento dal neorealismo per dedicarsi alla trasposizione su grande schermo di alcune opere letterarie vicine alla sua sensibilità. Lattuada comincia con il prolisso romanzo di Gabriele D’Annunzio, sceneggiato e sintetizzato con la collaborazione di Suso Cecchi d’Amico, Piero Tellini, Federico Fellini e Aldo Fabrizi. Un ottimo noir italiano in costume interpretato da Gina Lollobrigida, Yvonne Sanson, Aldo Fabrizi, Roldano Lupi, Alberto Sordi, Folco Lulli e Silvana Mangano.
Alberto Lattuada è un regista appassionato di letteratura, arte e fotografia, caratterizzato da uno stile personale, racconta il mondo piccolo borghese e le sue meschinità, ma soprattutto rappresenta un erotismo intenso, basato sulla scoperta del corpo e sulla sessualità femminile sempre in primo piano. Viene definito il regista delle donne perché nel corso della sua attività registica lancia molte attrici come Marina Berti, Carla Del Poggio (divenuta sua moglie), Valeria Moriconi, Jacqueline Sassard, Catherine Spaak, Dalila Di Lazzaro, Angelica Ippolito, Thérèse Ann Savoy, Natassja Kinski, Clio Goldsmith, Barbara De Rossi e Sophie Duez.
Senza pietà (1948) è un film drammatico girato nella pineta di Tombolo – tra Pisa e Livorno – sceneggiato da Tullio Pinelli e Federico Fellini. Interprete principale la bellissima Carla Del Poggio (futura signora Lattuada), attrice lanciata dal regista nell’olimpo delle star del dopoguerra. Un viaggio infernale nel mondo della droga e della prostituzione condotto da un’interessante figura femminile che traccia un quadro disperato dell’Italia post bellica.
L’interesse principale di Lattuada è il mondo femminile, per gran parte della sua carriera filtrato dalla penna di grandi scrittori che porta sul grande schermo: D’Annunzio, Bacchelli, Gogol, Verga, Puskin, Piovene, Cechov, Machiavelli, Brancati, Chiara, Berto e Bulgakov. La sua attenzione si rivolge anche alla commedia erotica commerciale che dirige con grande cura formale. Lattuada viene anche bollato come comunista, perché conduce una lotta contro la censura cinematografica al fianco di Germi, De Sica, Antonioni e Lizzani.
Il mulino del Po (1949) è tratto dal romanzo più famoso di Riccardo Bacchelli, che partecipa alla sceneggiatura insieme a Federico Fellini, Tullio Pinelli, Mario Bonfantini, Luigi Comencini, Carlo Musso e Sergio Romano. Un film lirico che cerca una via personale al realismo, accusato di calligrafismo, spesso irrisolto e indeciso sul tono e sulle scelte di sceneggiatura. Carla Del Poggio è ancora una volta la protagonista femminile.
Luci del varietà (1950) è una regia firmata da Lattuada e Fellini, per realizzare una storia che racconta le illusioni e le delusioni di Checco Dalmonte (Peppino De Filippo), un capocomico di una piccola compagnia di avanspettacolo che frequenta gli scalcinati palcoscenici della provincia italiana. Il guitto prende sotto la sua protezione una bella ragazza (Carla Del Poggio), ma lei lo abbandona per fuggire con un impresario (Folco Lulli) che le promette di portarla al successo. Nel film troviamo anche Giulietta Masina, nei panni di una ragazza innamorata non corrisposta da Checco Dalmonte. Il tema della vita dei comici del varietà viene descritto da Fellini e Lattuada con un mix di nostalgia e di amarezza che rende la pellicola ancora oggi attuale. Molti registi hanno sfruttato l’argomento producendo pellicole interessanti ma debitrici di un medesimo canovaccio. Pensiamo a Basta guardarla (1970) di Luciano Salce e a Polvere di stelle (1973) di Alberto Sordi, tentativi più farseschi di raccontare la vita del teatro. Federico Fellini scrive il soggetto di Luci del varietà con stile malinconico e grottesco, mentre la sceneggiatura porta anche la firma di Lattuada, Flaiano e Pinelli. Il film si ricorda come uno dei primi lavori interpretati da Giovanna Ralli e da Sophia Loren, che si fa ancora chiamare Lazzaro. Luci del varietà non riscuote alcun successo e per la produzione – finanziata dallo steso Lattuada – è un brutto colpo. Si tratta del primo film firmato da Federico Fellini.
Alberto Lattuada comincia a tratteggiare i ritratti femminili che gli valgono l’appellativo di regista delle donne. Anna (1952) rappresenta il suo più grande successo, interpretato da un cast che vede tra i protagonisti Silvana Mangano, Raf Vallone e Vittorio Gassman. Sofia Lazzaro è la futura Sophia Loren, ma si vede appena. Il motivetto cubano El negro zumbon cantato dalla protagonista lo ritroveremo in Caro diario (1993) di Nanni Moretti. La bellissima Silvana Mangano è Anna, infermiera milanese che vorrebbe prendere i voti ma il suo senso del dovere è contrastato dal richiamo erotico per Raf Vallone. Ottimo ritratto femminile mai monodimensionale e molto moderno, tratteggiato per flashback da sceneggiatori del calibro di Giuseppe Berto, Franco Brusati, Ivo Perilli, Luigi Malerba, Dino Risi e Rodolfo Sonego. Incassa oltre un miliardo e viene esportato negli Stati Uniti.
Il cappotto (1952) è una prova ulteriore degli interessi letterari di Lattuada che sceneggia il racconto di Gogol insieme a Cesare Zavattini, Giorgio Prosperi, Giordano Corsi, Enzo Curreli, Leonardo Sinisgalli e Luigi Malerba. Lattuada si svincola del tutto dal neorealismo e compone una delle sue opere più convincenti, in bilico tra realtà e fantasia. L’ambientazione è italiana, siamo nella Pavia degli anni Trenta; Renato Rascel interpreta il suo miglior personaggio, a metà strada tra il patetico e il grottesco. Nel cast femminile: Yvonne Sanson e Antonella Lualdi. La lupa (1953) è un melodramma tratto dal celebre racconto di Giuseppe Verga, sceneggiato dal regista con la collaborazione di Moravia, Pietrangeli, Malerba, De Concini e Perilli, interpretato da Kerima, May Britt, Ettore Manni, Mario Passante, Giovanna Ralli, Ignazio Balsamo, Anna Arena e Maurizio Arena. La lupa diventa l’amante di un soldato ma quando si accorge che lui è innamorato di sua figlia si lascia morire in un incendio. Non siamo nella Sicilia dell’Ottocento ma nella Matera degli anni Cinquanta e i protagonisti lavorano in una manifattura di tabacco. Nei film di Lattuada la forza della figura femminile rende esplicita la sottomissione maschile e l’uomo viene dipinto come volto al raggiungimento di un fine senza scrupoli morali: la proprietà, il denaro, il delitto e la vendetta. La lupa è cinema femminile alla Lattuada, che indaga sulla sessualità e il corpo della donna, non va annoverato tra le sue opere migliori, ma è più interessante dello stanco remake del 1996 girato da Gabriele Lavia e interpretato dalla moglie Monica Guerritore. Gli italiani si voltano (1953) è un episodio inserito nel collettivo L’amore in città (1953), firmato insieme a Risi, Antonioni, Zavattini, Fellini e Maselli. Interpreti della storia sono Ugo Tognazzi, Valeria Moriconi, Giovanna Ralli, Raimondo Vianello, Mara Berni e il regista Marco Ferreri. La tematica erotica tipica di Lattuada viene fuori con prepotenza per documentare l’atteggiamento esplicito degli italiani nei confronti delle donne. Il film nasce dall’idea zavattiniana del pedinamento e rappresenta il primo numero della rivista cinematografica semestrale Lo Spettatore, abortita sul nascere. Un disastro al botteghino fa riporre il sogno di una nuova stagione neorealista. La spiaggia (1953) è un film interessante per la nostra ricerca perché anticipa la commedia di costume ricca di elementi erotici, per il tempo piuttosto trasgressivi. Tra gli interpreti: Martine Carol, Raf Vallone, Mario Carotenuto, Carlo Romano e Valeria Moriconi. Ne abbiamo già parlato a proposito della commedia balneare. Scuola elementare (1955) è un film minore, scritto per raccontare i desideri degli esclusi, i sogni di un maestro e di un bidello, interpretati da Riccardo Billi e da Mario Riva. Lise Bourdin è la presenza femminile, amore segreto del maestro, il cui abbandono scolastico scatena nell’uomo il sogno del successo economico. Tornano le figure femminili importanti nei due film successivi, vere e proprie analisi del difficile momento adolescenziale: Guendalina (1957) e I dolci inganni (1960). Guendalina vede come interprete principale Jacqueline Sassard, che recita accanto a Raf Vallone, Sylva Koscina, Raf Mattioli e Carla Gravina. La pellicola è incentrata sulla giovane ribelle Guendalina – la stupenda debuttante Jacqueline Sassard – innamorata di uno studente. Racconta con una fotografia accurata e un’ottima sceneggiatura la storia di un’adolescente viziata e civetta che scopre il vero amore. Il soggetto è di Valerio Zurlini, sceneggiato da Leo Benvenuti e Piero De Bernardi, Lattuada e Jean Blondel. Musiche di Piero Piccioni. I dolci inganni (1960) ha come protagonista un’affascinante Catherine Spaak, per una produzione italo – francese che vede nel cast anche Jean Sorel, Christian Marquand e Marilù Tolo. Il film – scritto da Lattuada che lo sceneggia insieme a Francesco Ghedin e Claude Brulé – racconta una storia d’amore tra la sedicenne Francesca ed Enrico, un architetto di trentasette anni, vecchio amico di famiglia. Catherine Spaak è perfetta per incarnare un personaggio femminile che abbandona l’adolescenza e sta diventando donna, tra sogni e difficoltà. Lattuada gira con uno stile molto efficace, abbonda in piani – sequenza e generosi primi piani sul volto giovanissimo della protagonista. La censura osteggia a lungo il film, considerato immorale per la scelta coraggiosa di affrontare argomenti proibiti, visto che il regista parla di verginità e di masturbazione, veri e propri tabù per la cultura cattolica. Non abbiamo potuto apprezzare la versione integrale fino al 1963, data in cui sono stati reintegrati i numerosi tagli praticati dalla censura.
Il film risente ancora della lezione neorealista e del pedinamento zavattiniano, perché il regista segue con la macchina da presa una giornata importante della giovane protagonista, al termine della quale diventa donna e resta delusa dalla realtà. L’atmosfera da Sabato del villaggio permea di sé dialoghi e situazioni. Non a caso il regista insiste molto su Leopardi, mostrando libri e inserendo citazioni. Francesca (Spaak) fantastica sull’amore, sogna di avere il suo primo rapporto con un uomo adulto che conosce sin da bambina, ma quando la relazione si consuma ne resta delusa. Lattuada è bravissimo a raccontare i turbamenti adolescenziali di una ragazzina che diventa donna. La Spaak è giovanissima – ha appena 16 anni – e presta il volto a un carattere femminile da adolescente irrequieta, da lolita spregiudicata innamorata della vita. Le prime sequenze sono molto erotiche per i tempi, perché il regista insiste sul risveglio della ragazzina tra le lenzuola, vuol far capire che è turbata da un sogno erotico, riprende il volto espressivo e le lunghe gambe nude. Il regista analizza il rapporto tra la ragazza e il fratello, la vita scolastica e i sogni delle adolescenti che immaginano un amore romantico. “Ogni volta che parlo d’amore mi sembra di avere fame”, dice Francesca sorridendo. Enrico è un uomo maturo, irretito dal fascino ambiguo di una lolita dai grandi occhi scuri, alta, dal seno piccolo e dai fianchi stretti. Francesca è innamorata di un uomo che conosce da sempre, uno che da piccola la teneva sulle ginocchia, ma forse è soltanto innamorata dell’amore, perché a rapporto consumato, persa la verginità, torna a casa e non vuole più saperne di lui. La giornata della ragazza è raccontata con naturalezza ricorrendo a brevi episodi e lunghi piani sequenza: l’incontro con una vecchia contessa spilorcia, un’amica innamorata, una compagna che non la comprende più, un gigolò che si fa mantenere da una nobildonna, una gita a Frascati e finalmente l’incontro con l’amante nella villa di Marino. Prima del rapporto sessuale assistiamo a un momento voyeuristico con Francesca che osserva nascosta tra le tende gli amoreggiamenti della nobildonna con il gigolò. Il tono della pellicola è sentimentale, ma siamo ben lontani dal frivolo neorealismo rosa, questa è vera commedia psicologica. Il rapporto sessuale tra Francesca ed Enrico si intuisce soltanto dalle carezze conclusive, così come si comprende che la ragazzina è rimasta delusa dalla realtà e che avrebbe preferito continuare a vivere un sogno. Il finale insiste sul primo piano del volto di Catherine Spaak che immortala la ragazzina diventata donna. La colonna sonora di Piero Piccioni è stupenda e accompagna immagini girate in un suggestivo bianco e nero.
La tempesta (1958) e La steppa (1962) esulano dalla nostra trattazione perché sono pellicole tratte da opere di autori russi come Puškin e Čechov molto amati dal regista, ma non presentano traccia di elementi erotici. Silvana Mangano è affascinante nel ruolo di Mascia, mentre nel secondo film citiamo la presenza di Marina Vlady.
Alberto Lattuda negli anni Sessanta si dedica alla trasposizione su grande schermo di molte opere letterarie. Lettere di una novizia (1960) è un melodramma antiborghese e polemico verso il cattolicesimo tradizionale, tratto da un romanzo di Guido Piovene. Pascale Petit è l’interprete femminile che sprigiona un certo erotismo, così come sono ben tratteggiate le figure della madre borghese (Hella Petri) e di una serva arrivista (Elsa Vazzoler). Jean-Paul Belmondo è l’amante di madre e figlia, ucciso dalla protagonista, che entra in convento solo per non pagare la sua colpa.
Un altro capolavoro letterario adattato per il cinema è La mandragola (1965), commedia di Niccolò Machiavelli rivista e modernizzata dal regista con la collaborazione di Luigi Magni e Stefano Strucchi. Fotografia di Tonino Delli Coli, scenografie di Carlo Egidi, costumi di Danilo Donati. Esterni girati a Urbino. Interpreti principali sono Rosanna Schiaffino, Philippe Leroy e Totò, ma ricoprono ruoli di un certo peso Romolo Valli, Jean-Claude Brialy, Nilla Pizzi, Jacques Herlin e Mino Bellei. Callimaco (Leroy) si innamora di Lucrezia (Schiaffino) e per diventare suo amante sfrutta l’ingenuità del marito (Valli) e il desiderio frustrato di avere un figlio. Il piano elaborato dal giovane consiste nel fingersi medico e prescrivere alla bella moglie del notaio un infuso a base di mandragola, radice capace di guarire la sterilità di una donna, ma letale per il primo uomo che abbia rapporti con lei. Non è niente vero, ma il marito ci crede, il finto medico somministra alla paziente una tisana di vino rosso e cannella, si traveste da rozzo popolano e si fa catturare dal marito per finire nel letto della moglie. Donna Lucrezia apprezza le doti di amante del giovane, passa tutta la notte con il bel Callimaco e – una volta scoperto l’arcano – decide di assumerlo come medico personale per godere a lungo dei suoi servigi amatori. La pellicola è interessante da un punto di vista erotico, “mette in scena la filosofia di un libertino che contrasta superstizione e bigottismo” (Mereghetti), ma soprattutto rappresenta la filosofia di Lattuada attualizzata al 1500. Rosanna Schiaffino è la protagonista assoluta da un punto di vista erotico, i suoi nudi sono frequenti ma molto censurati, così come è interessante il ruolo di Totò nei panni dell’ipocrita frate Timoteo, che aiuta Callimaco a mettere in pratica il suo obiettivo. La madragola è un decamerotico colto ante litteram, per meglio dire è un precursore del sottogenere, contiene in nuce tutti gli elementi che saranno volgarizzati da pellicole girate in pochi giorni e con mezzi ridotti. Abbiamo il marito sciocco e cornuto, il furbo giovanotto che insidia la bella moglie, le grazie discinte di donne disponibili e il tono farsesco che permea l’intero lavoro. Il film anticipa la commedia sexy, citiamo la sequenza girata nelle terme con un gruppo di uomini che paga un biglietto per guardare le donne seminude da fori praticati in una parete divisoria. Rosanna Schiaffino è bellissima e solare, spesso inquadrata in pose sensuali, seminuda, di spalle, coperta da rapidi asciugamani e da una macchina da presa che la riprende solo in zone consentite. Molte le sequenze calde, sforbiciate dalla censura ma reinserite nella copia restaurata, come la parte in cui il marito cerca di curare la sterilità della moglie con pietre caldissime posizionate sul ventre. Per i tempi bigotti insistere su gambe, ombelico, fianchi e parti intime di una donna era il massimo dell’erotismo.
L’imprevisto (1961) è una coproduzione italo-francese interpretata da Tomas Milian, Anouk Aimée, Jeanne Valerie, Raymond Pellegrin, Antonella Erspamer, Jacques Morel e Guy Trejan. Si tratta di una commedia di Edoardo Anton sceneggiata per il cinema da Lattuada, Claude Brulé, Noël Calef, Aldo Buzzi ed Ennio De Concini. Un film importante perché rappresenta il primo ruolo da protagonista per Tomas Milian. L’attore cubano interpreta il professore di lingue che, con la complicità di un’allieva, rapisce il neonato di un industriale, spacciandolo per il figlio della moglie che sta simulando una gravidanza. Alla fine accade che la donna si affeziona al bambino e mette in crisi il piano per chiedere il riscatto. Un buon lavoro che vede come tema portante il conflitto uomo – donna e che Milian e Aimée tratteggiano con bravura. L’attore cubano rappresenta una figura d’uomo razionale, avido e ambizioso, che ha un piano da portare a compimento. L’attrice francese porta sul grande schermo un carattere femminile insicuro ma positivo. Mafioso (1962) è un film con Alberto Sordi e Norma Benguell, una favola nera e crudele che racconta la storia di un impunito crimine mafioso. Non è commedia all’italiana, pure se il protagonista è Sordi e anche se l’azione si svolge in Sicilia, ma è un film gelido e distaccato sulla vita italiana. Sordi dà vita a un personaggio del tutto immorale, il peggiore della sua carriera, un omicida glaciale che riesce a farla franca. Sceneggiatori: Ferreri, Age, Scarpelli e Lattuada. Niente di erotico, in ogni caso. Matchless (1967) è un film minore, una parodia poco riuscita dei film di James Bond che si ricorda per la presenza femminile di Ira Fürstemberg.
Don Giovanni in Sicilia (1967) è tratto da un romanzo di Vitaliano Brancati ed è un Lando Buzzanca – movie d’autore, sceneggiato dal regista con la collaborazione di Sabatino Ciuffini e Attilio Riccio. Accanto a Lando Buzzanca ci sono Katia Moguy, Ewa Aulin, Pino Ferrara, Carletto Sposito e Kathia Christine. Buzzanca è un giovane catanese che si vanta della propria virilità, ma quando si trasferisce a Milano con la moglie (Moguy) e sfonda nel mondo degli affari perde la sua carica erotica e decide di tornare in Sicilia. Una commedia ironica e amara che porta sullo schermo la dicotomia tra donna sognata e donna reale, tra passione e freddezza del quotidiano. Ewa Aulin interpreta la parte di se stessa, una lolita ingenua e sensuale che fa da contrasto con la moglie dai capelli corti vestita come un maschio. Ewa Aulin ha soltanto diciassette anni ed è al debutto cinematografico con un regista scopritore di talenti femminili. È una bella svedese di Landskrona che vince un concorso come miss Teenager, trampolino di lancio per l’elezione a Miss Teen International, concorso che la fa conoscere ai talent scout italiani, a caccia di bellezze nordiche da importare. Ewa trasloca armi e bagagli e si stabilisce nel nostro paese, dove la sua aria da ragazzina ingenua e maliziosa piace subito parecchio.
Fraulein Doktor (1969) è un atipico film di guerra e di spionaggio che racconta il dramma di una spia morfinomane interpretata da Suzi Kendall ricercata da inglesi e tedeschi nel corso del primo conflitto mondiale. L’amica (1969) è un lavoro nelle corde del Lattuada che conosciamo, interpretato da Lisa Gastoni, Elsa Martinelli, Gabriele Ferzetti, Frank Wolff, Ray Lovelock e Marina Coffa. La storia ruota attorno alla figura di Lisa Gastoni, che si trasforma in seduttrice per vendicarsi dell’amica Elsa Martinelli. Il regista compie un ritratto amaro del mondo piccolo borghese ma tutto è descritto dal punto di vista della protagonista e finisce per celebrare invece che criticare.
Venga a prendere il caffè… da noi (1970), è un lavoro molto interessante che va analizzato a fondo nel quadro della commedia erotica. Il film è tratto dal romanzo di Piero Chiara La spartizione, sceneggiato dallo stesso scrittore – che recita un breve cammeo – e dal critico Tullio Kezich. Il montaggio è di Sergio Montanari, la fotografia di Lamberto Caimì, mentre le musiche sono di Fred Bongusto. Gli interpreti sono Francesca Romana Coluzzi, Angela Goodwin, Checco Rissone, Milena Vukotic, Valentine (Victoria Zinni), Ugo Tognazzi, Jean-Jacques Fourgeaud, Alberto Lattuada e Piero Chiara. La trama si riassume in poche righe. Siamo a Luino – città natale di Piero Chiara che vi ambienta diversi romanzi – dove un funzionario del fisco (Tognazzi) vuole sistemarsi senza la complicazione dell’amore, ma cerca la situazione migliore per realizzare le teorie de La filosofia del piacere di Paolo Mantegazza. Il protagonista cerca le famose “tre c”: carezze, caldo e comodo, che un uomo a quarant’anni deve porre in cima ai suoi pensieri. Emerenziano Paronzini (Tognazzi) mette gli occhi sulle tre sorelle Tettamanzi (Vukotic, Coluzzi e Goodwin), orfane di padre, non belle ma possidenti, quindi ottimo partito per ereditare la roba, le proprietà. Emerenziano sposa una delle sorelle ma si porta a letto a turno anche le altre, scoraggiando le avances di un giovane – pure lui attratto soltanto dalla ricchezza – nei confronti di Francesca Romana Coluzzi. Il finale è paradossale, perché il troppo sesso (Emerenziano non riposa mai e la serva di casa annota sul calendario i rapporti quotidiani con le sorelle) e la buona cucina provocano al protagonista un ictus che lo paralizza. La disgrazia si verifica quando il protagonista decide di rivolgere attenzioni erotiche anche alla serva. Le sorelle Tettamanzi continuano a prendersi cura di Emerenziano come se fosse un bambino, gli comprano il gelato, il giornale e spingono la sedia a rotelle. Ugo Tognazzi consegna alla storia del cinema un’interpretazione memorabile nei panni del contabile Emerenziano Paronzini, reduce della guerra d’Albania, metodico e cafone, capace di sciacquarsi la bocca con il vino a fine pasto, di pulirsi le orecchie con lo stecchino da denti e di emettere flatulenze a tavola alzando il sedere dalla sedia. Alberto Lattuada utilizza un romanzo di Piero Chiara – cantore della provincia lombarda – per mettere alla berlina i piccoli sogni della borghesia e le repressioni sessuali. L’ambientazione a Luino, sul Lago Maggiore, è perfetta, le atmosfere del romanzo sono rispettate in pieno, tra messe domenicali per conoscere le donne, turbamenti erotici, domestici che sbirciano serve e padrone, giornate passate al bar giocando a biliardo. Lattuada anticipa Samperi (Malizia – 1973,interpretato da Laura Antonelli) e un tormentone della commedia sexy inserendo la scena della scala con protagonista Francesca Romana Coluzzi e le sue lunghe gambe. L’attrice romana è molto brava nella parte di Tarsilla, bibliotecaria della parrocchia che legge di nascosto libri erotici e fa l’amore con un ragazzo (Fourgeaud) in canonica, ma non ci pensa neppure a sposarlo perché sa che dovrebbe mantenerlo. Vengono fuori i piccoli sogni maschili della provincia italiana negli anni Settanta: sposare una ragazza benestante per cambiare vita, piazzare il cappello nella famiglia giusta. Il film contiene anche una velata accusa alla guerra. “Siamo andati a spezzare le reni alla Grecia, ma hanno rotto il culo a me!”, grida Emerenziano ubriaco mentre racconta le sue avventure alle tre sorelle che ascoltano con attenzione. Il titolo del romanzo (La spartizione) diventa esplicito quando Tognazzi divide tre mele per comporne una sola: “Da tre guaste se ne fa una buona”, afferma. Emerenziano ama i capelli della prima sorella, le gambe della seconda e le mani della terza. Il titolo del film, invece, lo troviamo in un invito ammiccante di Francesca Romana Coluzzi che fa entrare per la prima volta il contabile in casa con la scusa del caffè. Lattuada è il dottor Raggi, mentre Piero Chiara è l’amico del giovane che vorrebbe concupire una delle sorelle. Da riscoprire.
Gli anni Settanta si aprono con due film non fondamentali nella filmografia del regista come Bianco rosso e… e Sono stato io. Bianco rosso e… (1972) è un film scritto da Tonino Guerra, Iaia Fiastri e Ruggero Maccari appositamente per Sophia Loren, che lo interpreta insieme ad Adriano Celentano, Fernando Rey, Gianni Magni e Tina Aumont. Non è molto nelle corde di Lattuada, sempre indeciso tra la commedia di costume e il fotoromanzo patinato, pare solo un modo per mettere in evidenza una diva internazionale. Storia d’amore sdolcinata tra un comunista (Celentano) e una suora (Loren), che prima litigano su tutto e dopo diventano inseparabili. Sono stato io (1973) è un film grottesco, scritto e sceneggiato dal regista insieme a Luigi Malerba e Ruggero Maccari, interpretato da Giancarlo Giannini, Orazio Orlando, Silvia Monti, Georges Wilson, Hiram Keller, Ely Galleani e Piero Chiara. Giannini è molto bravo come interprete di un personaggio anonimo, un lavavetri che per ottenere fama e successo decide di finire in prigione, accusato di un delitto che non ha commesso. Umorismo nero e cruda immagine di un mondo che fa sentire i poveri sempre più poveri e li beffa regolarmente.
A partire dal 1974 registriamo i film più interessanti di Alberto Lattuada per la nostra trattazione, assieme a Venga a prendere il caffè da noi: le commedie sexy e le pellicole che affrontano il tema dell’erotismo in maniera totale. Le farò da padre (1974) è il primo tentativo di scavare in profondità su tematiche considerate scandalose. Il film gode della buona fotografia di Lamberto Caimi e delle divertenti musiche di Fred Bongusto. Il soggetto è di Bruno Di Geronimo, mentre firmano la sceneggiatura Ottavio Jenna, Bruno Di Geronimo e Alberto Lattuada. Interpreti: Gigi Proietti, Irene Papas, Térèse Ann-Savoy, Bruno Cirino, Mario Scaccia, Isa Miranda e Lina Polito. Si tratta di un film intelligente e profondo che racconta la passione amorosa di un avvocato intrallazzone (Proietti) per una minorata mentale (Ann-Savoy) sullo sfondo di una Puglia tradizionalista e cattolica. L’avvocato Mazzacolli vuole mettere le mani sulle proprietà di una contessa (Papas) e – aiutato da un nobile locale (Scaccia) – inscena il rapimento della figlia ritardata che aveva chiesto in sposa. La manovra dovrebbe forzare la mano alla contessa, soprattutto per spingerla a concedere l’usufrutto delle proprietà al futuro marito. L’avvocato Mazzacolli si serve di un paio di complici sui quali vorrebbe far ricadere la colpa e la contessa non denuncia niente alla polizia, ma risolve in segreto il problema. Il finale è a sorpresa, anche perché l’avvocato non ha fatto i conti con l’amore, sentimento imprevedibile che modifica idee e situazioni. Paolo Mereghetti ritiene la pellicola inferiore alle aspettative e troppo debitrice delle grazie acerbe di Térèse Ann-Savoy (al debutto italiano), ma secondo noi è un ottimo lavoro che fotografa uno splendido spaccato di provincia italiana e racconta una storia torbida senza farsi prendere la mano da eccessivo voyeurismo. Lamberto Caimi dà un buon apporto come direttore della fotografia e certi squarci di costa pugliese a picco sul mare sono stupendi, così come la descrizione delle feste paesane in onore del santo patrono rappresentano un documentario culturale importante. Il soggetto deve molto a Lolita di Nabokov e alla trasposizione filmica operata da Kubrick, ma Lattuada percorre una strada originale per raccontare la vecchia storia dell’uomo maturo che perde la testa per una ragazzina. Prima di tutto inserisce il racconto all’interno di una critica alla borghesia di provincia e ne descrive vizi e difetti come arrivismo, malaffare e connessione mafiosa tra politica ed economia. Il sesso è la parte principale del film, ma rappresenta un valore positivo, come amore senza limiti che riscatta e riabilita, che modifica la vita e fa rinunciare a sotterfugi e meschinità. Gli attori sono tutti molto bravi e ben diretti. Luigi Proietti è in gran forma nel ruolo del maturo professionista che perde la testa per una ragazzina. Mario Scaccia e Irene Papas sono ottimi comprimari di una storia che vede in primo piano la strepitosa debuttante Térèse Ann-Savoy. Alberto Lattuada è un regista che meglio di altri sa descrivere il corpo della donna, ma il suo modo di presentare il nudo femminile non può dirsi pornografico, come sostengono certi detrattori. Le farò da padre vive ancora oggi soprattutto per la scelta coraggiosa di un’efebica protagonista, sensuale e maliziosa nonostante gli evidenti limiti intellettivi.
Alberto Lattuda gira Oh, Serafina! (1976), una commedia erotico – grottesca e lancia nuove bellezze intriganti come Angelica Ippolito e Dalila Di Lazzaro, regine della scena un tempo per parte. Il cast: Renato Pozzetto, Dalila Di Lazzaro, Angelica Ippolito, Lilla Brignone, Marisa Merlini, Aldo Giuffré, Gino Bramieri, Franco Nebbia, Howard Ross (Renato Rossini), Gianni Magni, Fausto Tozzi, Maria Monti, Daniele Vargas, Ettore Manni, Gigi Lopez e Alberto Lattuada. Renato Pozzetto interpreta Augusto Valle, surreale personaggio di industriale – bambino, un ingenuo imbranato che parla con gli uccelli, ama la natura e non vuole tradire gli ideali paterni. Angelica Ippolito è la scaltra operaia della fabbrica che – con la complicità del fratello (Rossini) – circuisce il padrone, lo sposa e lo fa internare in manicomio per disporre liberamente dei suoi beni. Il regista dipinge con tratti grotteschi una moglie avida, incolta, volgare e fondamentalmente puttana, che fa un figlio con Augusto ma per tenerlo sulle spine ammette che potrebbe essere di un altro. La moglie è talmente avida e senza cuore da far internare Augusto in ospedale psichiatrico dopo aver concupito amici, collaboratori, medici, politici e chiunque possa essere di aiuto per i suoi loschi scopi economici. Augusto conosce il vero amore proprio in manicomio, dove incontra la bellissima Serafina (Di Lazzaro), rinchiusa per aver contestato il lavoro del padre (Manni), un ricco e spudorato mercante d’armi. Augusto e Serafina finiscono per lasciare tutto alla perfida moglie, ma coronano un sogno d’amore portando via uccelli e bambino. Il plot della pellicola è liberamente tratto dal romanzo omonimo di Giuseppe Berto, sceneggiatore insieme a Lattuada ed Enrico Vanzina. Il segno distintivo del film è il consueto erotismo del regista, fuso a dovere con i tratti inimitabili del personaggio interpretato da Pozzetto. Molte le scene cult sotto il segno del sexy: l’incontro con Angelica Ippolito e un sedere rotondo che invade lo schermo fanno da preambolo ai rapporti extraconiugali di una moglie che non esita a portarsi a letto un assessore mutilato (Vargas), un medico (Nebbia), il sindaco (Bramieri) e il direttore del manicomio (Giuffré). Ricordiamo un ironico rapporto sadomaso tra la Ippolito e Bramieri, i ricordi delle relazioni violente e delle contestazioni antiborghesi di Serafina, ma anche un intenso rapporto nel fienile tra Pozzetto e la Di Lazzaro.
Tra gli attori merita una citazione Marisa Merlini nei panni della madre di Augusto, litigiosa e disperata dopo il suicidio del marito, che si lascia morire dopo il matrimonio del figlio. Gino Bramieri è un divertente sindaco masochista che si fa frustare e calpestare da Angelica Ippolito perché ha letto su Playboy che è una pratica eccitante. Luigi Magni è un credibile infermiere di manicomio dagli occhi spiritati che favorisce il rapporto tra Pozzetto e la bella Di Lazzaro. Lattuada utilizza due attrici affascinanti in una commedia erotica che vede protagoniste in egual maniera una perfida Angelica Ippolito – che proviene dal teatro di Eduardo De Filippo – e una stupenda Dalila Di Lazzaro alla sua prima prova d’autore.
Oh, Serafina! è una favola ecologista, crudele e grottesca, ma non la definirei ingenua come sostiene Mereghetti, piuttosto parlerei di un’opera delicata e romantica che resiste al passare del tempo.
Cuore di cane (1976) è una commedia tratta dall’amato romanzo di Bulgakov, sceneggiata dal regista con la collaborazione di Viveca Melabnder. Una favola grottesca e fuori dalle corde del regista, interpretata da Cochi Ponzoni, Max Von Sydow, Eleonora Giorgi, Mario Adorf, Gina Rovere, Vadim Glowna, Rena Niehaus e Violetta Chiarini. Siamo nella Russia comunista, dove si tenta di trapiantare gli organi di un funzionario di partito su un cane randagio, ma i risultati non sono quelli sperati. Cochi Ponzoni è bravissimo in un’insolita e complessa interpretazione da uomo – cane. Nonostante tutto il film resta una buona commedia surreale ben equilibrata tra messaggio e divertimento.
Così come sei (1978) è un film scritto da Paolo Cavara ed Enrico Oldoini, che lo sceneggia insieme a un Lattuada sempre più proteso a raccontare l’erotismo. Il tema scabroso ricorda il precedente Le farò da padre, ma se in quella pellicola si sviscerava il rapporto tra un uomo adulto e una moglie bambina, qui si descrive una probabile relazione incestuosa tra un uomo maturo e una ragazzina. In breve la trama. Giulio (Mastroianni) è un architetto romano per lavoro a Firenze, incontra in un giardino la bellissima Francesca (Kinski) e se ne innamora perdutamente. Un amico (Rabal) lo mette in guardia sul fatto che potrebbe essere sua figlia, visto che l’architetto molti anni prima aveva avuto una storia d’amore con la madre. Lorenza è stata adottata da Bartolo (Caffarel), il compagno della madre scomparsa, ma Giulio è corroso dal dubbio, non riesce a venire a capo del mistero. L’esuberante sessualità di Francesca ha la meglio su ogni remora moralistica, i due amanti passeranno un’intensa vacanza a Madrid, chiusi in una camera d’albergo, occupandosi soltanto di fare sesso. Finita l’incoscienza di quel periodo trascorso lontano da tutto e da tutti sarà Francesca ad abbandonare Giulio, abbandonandolo addormentato in un cinema fiorentino dove proiettano un vecchio film dei fratelli Marx. Un amore tra due persone così diverse, per età e carattere, non poteva durare. Giulio torna dalla moglie (Randall) e dalla figlia (De Rossi), che ha l’età della giovane amante e per prima l’aveva messo in guardia sulle difficoltà del rapporto. Come diceva sempre la ragazzina: “un grande amore deve durare pochissimo, consumarsi rapidamente”. Ed è quel che accade. La storia è scabrosa, non ha la leggerezza di pellicole del passato, come tono si avvicina al melodramma erotico, toccando argomenti delicati e difficili da sceneggiare per immagini. Lattuada vorrebbe costruire un inno all’amore libero, senza costrizioni e vincoli morali, non sempre ci riesce e a tratti l’opera rischia di essere fin troppo trasgressiva. Musiche suadenti e romantiche di Ennio Morricone, pubblicate e più volte ristampate su disco, furono un successo per l’epoca, grazie anche ai testi di Michael Fraser. Un inno alla bellezza acerba di Natassja Kinski, splendida adolescente che resta a lungo invischiata nelle maglie d’un personaggio difficile. Lattuada recita un breve cammeo come barbone. Ottime presenze femminili, da Monica Randall nei panni della moglie di Mastroianni, a Barbara De Rossi, giovanissima nel ruolo della figlia, passando per Ania Pieroni, sexy amica della ragazzina. La New Line Cinema distribuisce con successo la pellicola all’estero con il titolo Stay the Way You Are, apprezzata da un pubblico affascinato dalla giovanissima Kinski (diciassette anni), presente in disinibite scene di nudo. Bruce Williamson di Playboy definisce Così come sei: “un film veramente sexy”, dando un sostegno critico a un film che in Italia aveva avuto soltanto detrattori.
La cicala (1980) è un melodramma ispirato al feuilleton e al road movie statunitense, ricco di sequenze erotiche, ben fotografato e sceneggiato con cura dal regista e da Franco Ferrini. La storia deriva dal romanzo inedito di Natale Prinetto e Marina D’Aunia. Nel cast troviamo una grande Virna Lisi, attrice matura che padroneggia il personaggio di Wilma, ex prostituta divenuta proprietaria di un motel per camionisti assieme al compagno (Anthony Franciosa). Tra le donne due presenze indimenticabili lanciate da Lattuada: Clio Goldsmith, la giovane Cicala che vive nel culto dell’amica Wilma, e Barbara De Rossi, figlia adolescente di Wilma che con la sua carica di sensualità sconvolge la quiete del motel padano. Serena Grandi ricopre un piccolo ruolo da segretaria di Mario Maranzana. Altri interpreti: Riccardo Garrone, Renato Salvatori e Antonio Cantafora.
Una spina nel cuore (1986)è l’ultimo film di Lattuda per il grande schermo, ispirato al romanzo omonimo di Piero Chiara, sceneggiato dal regista, Franco Ferrini ed Enrico Oldoini; interpretato da Anthony Delon, Sophie Duez, Leonardo Treviglio, Carola Stagnaro, Gastone Moschin, Angelo Infanti e Antonella Lualdi. Non è un grande film, anche se la fotografia del Lago d’Orta resta indelebile negli occhi dello spettatore. La storia d’amore tra un giocatore d’azzardo (Delon) e una ragazza sfuggente (Duez) contesa tra molti uomini e spettri del passato è sceneggiata senza verve, seguendo il manierismo del romanzo, spostando l’ambientazione ai tempi moderni e inserendo dialoghi pessimi e senza spessore. Il finale è melodrammatico, anche se mancano malinconia e mistero, così come i personaggi risultano appena abbozzati. Pessimi gli attori principali, presto scomparsi dal mondo del cinema. Per Lattuada è un mesto addio alle scene e questa volta non resta neppure la consolazione di aver scoperto una nuova icona sexy. Molti i nudi di Sophie Duez, ma l’erotismo latita. Ricordiamo una lunga sequenza interpretata dalla bionda attrice distesa sul letto, mentre Delon junior solleva le coperte e la macchina da presa perlustra il suo corpo dai piedi ai capelli. Intrigante anche la Duez che sale le scale di un locale pubblico, si toglie l’impermeabile e mostra agli avventori con atteggiamento languido una mise in mutandine di pizzo, giarrettiera e seno nudo.
Nudo di donna (1981) dovrebbe essere il suo ultimo film, ma Lattuada abbandona quasi subito il set a causa di dissapori con Nino Manfredi, attore protagonista che finisce per dirigere se steso. Citiamo il film perché si tratta di una modesta commedia erotica interpretata da Eleonora Giorgi, Georges Wilson, Jean-Pierre Cassel, Carlo Bagno e Donato Castellaneta. La pellicola è ambientata a Venezia durante il carnevale e vede Manfredi in crisi con la moglie (Giorgi) incontrare una sosia della compagna che fa la prostituta. La pellicola resta in bilico sull’interrogativo: si tratta di una sosia o è davvero la moglie? I temi sono molto alti, ma la realizzazione scadente. Forse Lattuada avrebbe fatto di meglio. I nudi sono molti, pure eccessivi. Come gli sceneggiatori: Manfredi, Paolo Levi, Age, Scarpelli, Maccari e Buzzo. Ne parleremo più diffusamente nel capitolo dedicato a Nino Manfredi.
Durante gli anni Ottanta, Lattuada firma tre lavori per il piccolo schermo: il kolossal di successo Cristoforo Colombo (1984), l’intensa miniserie Due fratelli (1987) e il mediometraggio Mano rubata (1988), tratto da un racconto di Tommaso Landolfi, che esplora il mondo spietato del gioco d’azzardo. Cristoforo Colombo è una sorta di documentario romanzato in quattro puntate sulla vita del navigatore genovese, trasmesso dal 7 marzo 1985, il giovedì in prima serata su Rai Due, scritto dal regista insieme ad Adriano Bolzoni, Laurence Heath e Tullio Pinelli. Molto più modesto del precedente sceneggiato diretto nel 1968 da Vittorio Cottafavi, riscuote comunque un grande successo di pubblico. In ogni caso richiede due anni di preparazione e sette mesi di lavorazione, 45 attori e un esercito di comparse. Costa oltre 22 miliardi. Tra gli attori: Gabriel Byrne, Faye Dunaway, Oliver Reed, Max Von Sydow, Rosano Brazzi, Virna Lisi, Raf Vallone e Massimo Girotti. Musiche di Riz Ortolani. Due fratelli è uno sceneggiato trasmesso da Canale 5, dal 9 ottobre 1988, alla domenica in prima serata, sceneggiato in tre puntate da Ennio De Concini e interpretato da Massimo Ghini, L. Lamb, Nancy Brili, C. Claire. La storia racconta il conflitto di interessi e d’amore tra due fratelli veronesi, uno magistrato e l’altro chirurgo. Il giudice indaga su un traffico di materiale tossico che proviene da industrie farmaceutiche che coinvolge anche il fratello. Alla fine perde la moglie ma vince la causa. Si nota la mano di Lattuada, impegnato nel frequente uso di primi piani che conferisce un taglio cinematografico alla realizzazione. Bravi gli attori e buono l’intreccio.
Nel 1994 Lattuada fa una simpatica apparizione nel film Il toro, diretto da Carlo Mazzacurati. Nel 1998 dona tutto il suo materiale d’archivio alla Fondazione Cineteca Italiana, diretta al tempo da Gianni Comencini. Muore nel 2005, a novant’anni compiuti, nella sua casa di campagna a Orvieto, affetto da tempo dal morbo di Alzheimer.