Aldo Lado (Fiume, 1934 – Roma, 2023) comincia come aiuto tra il 1962 e il 1971, fa lo sceneggiatore, debutta alla regia negli anni Settanta e spesso firma le proprie opere con lo pseudonimo di George B. Lewis. Il suo primo film è un giallo a tinte horror: La corta notte delle bambole di vetro (1971). Chi l’ha vista morire? presenta elementi macabri e misteriosi, soprattutto un’atmosfera cupa e angosciosa messa in risalto da un’ottima colonna sonora. Il limite di Lado è la discontinuità: alterna melodrammi e modesti ritratti della vita di provincia a opere di qualità come L’ultimo treno della notte (1975) e L’ultima volta (1976).
La corta notte delle bambole di vetro (1971) è un thriller misterioso, scritto dal regista e ambientato in una imprecisata città dell’Est, interpretato da Barbara Bach (Gregorini), Jean Sorel, Mario Adorf, Ingrid Thulin, Hrvoje Svod, Petar Dumcic, Fabian Sovagovic, José Quaglio e Piero Vida. Collabora alla sceneggiatura Ruediger Von Spiehs, la fotografia è di Giuseppe Ruzzolini, il montaggio di Mario Morra, le scenografie di Gisella Longo e Zeliko Senecici.
Il giornalista americano Gregory Moore (Sorel) viene ritrovato apparentemente privo di vita in un giardino pubblico di Praga, ma non è morto, perché rivive la sua disavventura sul tavolo dell’obitorio. Il regista rende palpabile lo stato di disperazione della vittima che non riesce a muoversi e a comunicare, ma vorrebbe gridare al mondo che è ancora vivo. Tutto è cominciato con la scomparsa di alcune ragazze e soprattutto di un’amica (Bach) che per Gregory era molto importante. Lado inserisce elementi di romanticismo per far capire l’affetto che stava nascendo tra i due giovani. Ingrid Thulin è perfetta nell’interpretare una donna gelosa del nuovo amore di Gregory, mentre Mario Adorf è un ottimo collega di lavoro. Le giovani donne scomparse erano appassionate di musica, Gregory aveva capito che nella faccenda rivestiva un ruolo importante il Club 99, un equivoco locale notturno. Nella sede insospettabile si svolgevano i rituali di una setta capitanata dal dottor Kartin (Sovagovich), intenzionata a sovvertire l’ordine sociale. Le giovani vittime servono a tutti coloro che vogliono conservare il potere, che cercano il sangue per sopravvivere, fa dire il regista al capo dei satanisti. Il film procede alternando i ricordi dell’uomo alla sua sofferenza, dovuta al fatto di non riuscire a dire che è ancora vivo. Il Club 99 ha sedi in tutto il mondo, è un covo di satanisti dove si pratica la magia nera. Lo scopo finale è la conquista del potere. Notevole la scena del sabba: il giornalista vede per l’ultima volta la sua donna, che è completamente nuda e distesa sul talamo mentre sta per accoppiarsi con un essere che indossa una maschera demoniaca. Gli adepti sono invasati, danzano nudi, gridano, fanno l’amore nel corso di un’orgia sfrenata, ma alla fine scoprono l’intruso e lo eliminano. Gregory viene ritrovato nel parco, in corpo ha una sostanza che lo fa sembrare morto. Il finale non è tranquillizzante: il giornalista finisce nelle mani di un medico adepto alla setta satanica che pratica sul suo corpo un’autopsia. Il grido di una terrorizzata Ingrid Thulin chiude la pellicola. Il male trionfa.
L’elemento horror è costituito dal satanismo che imperversa dall’inizio alla fine della pellicola ed è il sale dell’atmosfera thriller, caratterizzata da una statua demoniaca a forma di farfalla. Il film è noto anche come Malastrana, nome di un antico quartiere di Praga e rappresenta un esordio più che promettente per Aldo Lado. Per alcuni critici è il suo film migliore, che il regista ha saputo replicare solo in sporadiche occasioni. Si tratta di un thriller orrorifico pieno di metafore, in parte pure politico perché si scaglia contro i ricchi e il loro sistema di potere. Ottimo il cast degli attori, eccellenti le musiche di Ennio Morricone, studiata la suspense e suggestiva l’ambientazione tra Praga e Zagabria in un’atmosfera da regime comunista. La pellicola è un po’ lenta, ma inquietante, cupa, elegante e ricercata nei buoni effetti visivi. Resta impressa a lungo nella memoria.
Chi l’ha vista morire? (1972) è un thriller psicologico ambientato a Venezia, il cui protagonista è un prete assassino (Alessandro Haber) che uccide solo bambine con i capelli rossi perché gli ricordano la madre. Un serial killer vestito da donna ammazza la figlia (Elmi) di un pittore (Lanzeby) che comincia a indagare sul mistero, scoprendo il meccanismo dell’omicida seriale. Non ravvisiamo elementi da horror soprannaturale, ma solo momenti di terrore nella descrizione degli omicidi. La musica di Ennio Morricone valorizza un film interessante, che contiene canzoncine per bambine composte da Maria Morricone. Il film è scritto e sceneggiato dal regista con la collaborazione di Francesco Barili e Massimo D’Avack. Tra gli interpreti George Lanzeby, Anita Strindberg, Dominique Bosquero, Adolfo Celi e l’immancabile Nicoletta Elmi. Sepolta viva (1973) è la trasposizione cinematografica di un popolare romanzo d’appendice scritto da Francesco Mastriani. La pellicola dà origine a un sottogenere di breve durata, una vera e propria moda cinematografica anni Settanta. Il successo di pubblico produce un sequel e una serie di modesti film analoghi. Interpreti: Agostina Belli e Alessandro Bonuglia. Sceneggiatore Claudio Masenza e Antonio Troisio. Musica del solito Ennio Morricone. Aldo Ladofrequentaepisodicamentela commedia sexy con La cugina (1974), un sottoprodotto di Malizia tratto da un romanzo di Ercole Patti, interpretato da Dayle Haddon e Massimo Ranieri.
Il suo ritorno ad atmosfere horror si registra con L’ultimo treno della notte (1975), scritto da Roberto Infascelli e Ettore Sanzò, sceneggiato dal regista con la collaborazione di Renato Izzo. La fotografia è di Gabor Pogany, le suggestive musiche di Ennio Morricone, il montaggio serrato di Alberto Gallitti e i costumi di Franco Bottari. Interpreti: Laura D’Angelo, Irene Miracle, Flavio Bucci, Macha Meril, Gianfranco De Grassi, Marina Berti, Enrico Maria Salerno, Dalila Di Lazzaro, Franco Fabrizi, Daniele Dublino, Francesco D’Adda e Gianni Di Benedetto. La pellicola è molto più che un horror metropolitano ed è sbrigativo definirla un thriller sadico, mentre è più corretto dire che siamo di fronte a un rape & revenge (cinema della vendetta), sullo stile de L’ultima casa a sinistra di Wes Craven (1972). Il film piace a Quentin Tarantino perché incarna la sua filosofia cinematografica. La trama si sviluppa attorno alle gesta di due personaggi negativi (Bucci e De Grassi) che a bordo di un treno per Verona proveniente dalla Germania violentano e uccidono due ragazze (D’Angelo e Miracle). La vendetta successiva allo stupro è a cura del padre della D’Angelo, il chirurgo borghese interpretato da Enrico Maria Salerno, che uccide a colpi di spranga e a fucilate i due teppisti.
Lisa Stradi e sua cugina Margaret vogliono tornare in Italia per passare il Natale, aiutano due teppisti senza biglietto a nascondersi dal controllore, ma diventano loro vittime. A un certo punto cambiano treno perché si sparge la voce di una bomba messa sul convoglio da un commando di terroristi. I due malviventi fanno lo stesso, ritrovano le donne e le obbligano a subire prolungate e sevizie. Insieme ai farabutti c’è una donna borghese (Meril), che dopo essere rimasta vittima di uno stupro si è unita alla coppia e guida le scorribande con sadico piacere. Le ragazze fanno una brutta fine: una muore dissanguata dopo essere stata sverginata con un coltello, l’altra si getta dal treno per salvarsi ma finisce per sfracellarsi al suolo. Per una serie di circostanze il terzetto infernale diventa ospite di Enrico Maria Salerno, che si rende conto di avere a che fare con gli assassini della figlia, e li massacra. La signora borghese la fa franca, riesce a convincere tutti della sua innocenza, abbassa il velo nero al cappellino e riprende la sua vita fatta di vizi privati e pubbliche virtù.
Il film è crudele, claustrofobico, senza speranza, quasi compiaciuto nell’esibizione della violenza. Lo spettatore si trova precipitato in un crescendo angoscioso e morboso scandito dalle ossessive inquadrature di un treno che corre nella notte. All’interno dei vagoni si consuma la tragedia. Le parti più dure descrivono lo stupro nei minimi dettagli e nel terribile finale assistiamo alla vendetta paterna a colpi di fucile e di spranga. Aldo Lado cerca di comporre un apologo antiborghese, anche se una visione del film basata solo sull’esibizione della violenza lo identifica come reazionario. Uscito come Violenza sull’ultimo treno della notte e in Germania come Night Train – Der letze Zug in der Nacht. Si tratta di un film che vive di contrasti, a partire dalle prime sequenze sottolineate da una musica suadente e da un’atmosfera natalizia che prelude a un’esplosione di violenza. Aldo Lado descrive bene il carattere dei personaggi con una serie di immagini quotidiane: un padre borghese – irreprensibile chirurgo- e una madre annoiata da un rapporto stanco, e politici, preti, neonazisti, seminaristi, emigranti che tornano a casa per le feste. Risultano un po’ retoriche e datate alcune parti in cui vengono inserite discussioni sociopolitiche, ma servono per fare un discorso antiborghese. La pellicola è girata con perizia a bordo di un treno e il rumore ossessivo dei vagoni sulle rotaie accompagna la suspense e il crescendo di violenza. Il rapporto erotico che riguarda Bucci e Meril è da manuale, perché comincia come violenza carnale da parte del teppista e finisce con la donna che prima prende l’iniziativa e subito dopo assume un potere assoluto sulla coppia di sbandati. Il personaggio negativo del film di Lado è proprio lei, che sarà la sola a non subire conseguenze, così come uscirà indenne il voyeur interpretato da Franco Fabrizi, che approfitta della situazione e torna alla sua vita irreprensibile. L’accusa alla borghesia che presenta valori di facciata è la costante del film, sottolineata nel corso di una simbolica cena di Natale, dove si difende la proprietà e si mettono in primo piano i valori tradizionali. Gli attori sono bravissimi, ma su tutti dobbiamo citare Macha Meril, perfetta borghese perversa. Irene Miracle e Laura D’Angelo sono due ottime ragazzine terrorizzate, che precipitano in una spirale perversa a base di orrore e morte. La lunga sequenza dello stupro ideato e guidato dalla signora borghese è un capolavoro di tensione morbosa. Alla fine i teppisti sembrano pentiti e sconvolti, mentre la Meril è sadicamente contenta, soddisfatta del perverso contributo. Molto bravo Enrico Maria Salerno come padre sconvolto dal dolore che si fa giustizia da solo. Aldo Lado ambienta bene la pellicola in Germania, sul treno e in un paesaggio veneto invernale, che rappresenta la spettrale scenografia dell’eccidio finale.
L’ultimo treno della notte è un clone de L’ultima casa a sinistra, ma – come dice Rudy Salvagnini – gode di una precisa originalità. Lado fa un discorso sociopolitico, non dà un nome ai personaggi negativi, ma li indica con la categoria di appartenenza. Macha Meril interpreta il peggior elemento del trio: è la signora per bene che, dopo essere stata violentata, si unisce al perverso gruppo e ne diventa la mente. La borghesia manipola il sottoproletariato per compiere turpi vizi privati, che nasconde dietro pubbliche virtù. Un film interessante, girato con maestria ed eleganza, spietato e terribile nel cupo realismo.
La carriera di Aldo Lado prosegue con La disubbidienza (1981), un film insolito che rappresenta un momento di rottura rispetto alla precedente produzione, caratterizzata da una grande attenzione verso il thriller violento. Un prodotto indefinibile, tra il drammatico e l’erotico, come La disubbidienza, liberamente ispirato a un buon romanzo di Alberto Moravia. Aldo Lado ambienta la storia a Venezia e racconta il dramma interiore di Luca (Diemunch), un ragazzo in conflitto con il padre (Adorf), borghese fascista, e con la madre (Nat), una cantante che si serve dei tedeschi per sfondare nel mondo della musica lirica. Luca diventa partigiano e solo per merito suo la famiglia scamperà alla persecuzione comunista del dopoguerra. Il ragazzo resta profondamente deluso da quel che accadrà dopo la liberazione. La delusione di Luca nei confronti di una rivoluzione mancata è così grande da cercare l’autodistruzione, fino a rifiutare di farsi curare quando si ammala di polmonite. Il sesso è la salvezza di tutto, questo il messaggio desunto dall’opera di Moravia e rappresentato dalle due figure femminili, simbolo dell’educazione sentimentale di Luca. Therese Ann Savoy e Stefania Sandrelli danno vita a due personaggi intensi che riescono a riportare il ragazzo sulla strada maestra.
La carriera di Lado termina con due film televisivi come Delitto in via Teulada (1980) e La città di Miriam (1983). Scirocco (1987), Rito d’amore (1989), Alibi perfetto (1992), La chance (1994), Il notturno di Chopin (2012) sono i suoi ultimi e poco memorabili lavori.